L’evanescenza della reductio ad unum
di Elvio Ancona

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Come ha mostrato Jürgen Miethke nel saggio Politische Theorien im Mittelalter, recentemente pubblicato in traduzione italiana da Marietti (Le teorie politiche del Medio Evo, Genova 2001), si può individuare nel periodo medioevale l’epoca in cui la riflessione teorica sulla politica ha iniziato a delinearsi come attività intellettuale specifica e autonoma. Al periodo tardomedievale, in particolare, appartengono alcuni autori il cui apporto alla storia del pensiero politico e giuridico appare, a tutt’oggi, decisivo. Non sorprende quindi che sulle loro opere continuino a fiorire studi di grande interesse e che aspetti e significati ancora inesplorati del loro pensiero continuino ad emergere.

Lo provano, in ambito nazionale, due recenti pubblicazioni sul pensiero dell’Alighieri che, con particolare efficacia, ci costringono a fare nuovamente i conti con l’impianto filosofico, e in primis aristotelico, della sua speculazione politica. Si tratta del volume postumo di Maria Corti, Scritti su Cavalcanti e Dante (Einaudi, Torino 2003), e del volume di Gennaro Sasso significativamente intitolato Dante, l’imperatore e Aristotele (Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, Roma 2002).

Ma in Italia altre pubblicazioni si annunciano.

Oltre al saggio su Duns Scoto, già recensito dalla nostra rivista, si segnala la prossima uscita di tre nuovi volumi della collana “Lex naturalis. Testi scelti di filosofia del diritto medievale”. Il primo, previsto per 2004, sarà dedicato a Tommaso d’Aquino e sarà curato da Franco Todescan e da Ottavio De Bertolis, quest’ultimo già autore di un denso studio su Il diritto in San Tommaso d’Aquino. Un’indagine filosofica (Giappichelli, Torino 2000). Seguiranno poi i volumi concernenti Guglielmo d’Ockham, a cura di Alessandro Ghisalberti, e Marsilio da Padova, a cura di Elvio Ancona.

Proprio il pensiero di Marsilio da Padova conosce una sempre rinnovata fortuna, attestata, tra l’altro, dall’edizione del Defensor pacis curata da Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri (Rizzoli, Milano 2001). Di grande interesse è poi la ripresa di studi metodologici che ci permettono di collegare la figura del physicus patavino all’affiorare del nuovo paradigma, convenzionale e geometrizzante, che segnerà l’avvento della modernità. Presentiamo in questa sede una ricerca su L’evanescenza della reductio ad unum nel Defensor pacis di Marsilio, prodromica di una più ampia pubblicazione sulle trasformazioni dell’idea di ordine nel corso della disputa sui due poteri.

L’evanescenza della reductio ad unum
nel Defensor Pacis di Marsilio da Padova

Il principio filosofico della reductio omnium ad unum costituisce forse l’ultimo residuo del sistema gerarchico dionisiano nel dibattito politico e giuridico tardo medievale.

La famiglia lessicale reductio/reducere compare infatti fin dalle prime versioni latine degli scritti dello Pseudo Dionigi l’Areopagita, soprattutto nella formulazione della norma gerarchica fondamentale – lex divinitatis est infima per media in suprema reduci – e nelle sue successive utilizzazioni ad opera dei teologi del XIII e del XIV secolo.

Essa si ritrova pertanto anche al centro delle diverse rappresentazioni che dell’ordinamento gerarchico vennero fornite nell’ambito della disputa sui due poteri, seguendone così peraltro la declinante sorte.

Mentre infatti costituiva il principale riferimento degli scritti di parte ierocratica, il modello gerarchico di ordinamento risulta sempre meno utilizzato dai fautori dell’indipendenza del regnum e dell’Impero, per lo più a favore di rappresentazioni naturalistiche della comunità politica.

La reductio, tuttavia, sia pure contaminata con motivi procliani, non svanì del tutto ed anzi, in certi casi e almeno nel certamen pro salute veritatis intrapreso da Dante nella Monarchia, conserva ancora un ruolo centrale.

Non potrà stupire che il principio si ritrovi anche nell’opera di Marsilio nello stesso ambito tematico, ma utilizzata in circostanze e secondo modalità che rivelano tutta la distanza dalla concezione dantesca. In verità, si ha l’impressione di assistere, proprio considerando l’uso marsiliano della terminologia e della prassi in questione, alla sua repentina evanescenza nella storia del pensiero politico e giuridico.

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E’ quanto si può evincere esaminando con attenzione due importanti luoghi del Defensor pacis: il capitolo XVII della I Dictio e i capitoli XXVII-XXVIII della II Dictio.

Il primo affronta il problema de numerali unitate supremi principatus civitatis aut regni, et ipsius necessitate [1] . Esso si inserisce nella trattazione delle condizioni che permettono il mantenimento dell’ordine e della pace nel consorzio civile e, in tal modo, garantiscono ai cittadini la possibilità di raggiungere la “vita sufficiente” e di evitare quanto, in qualsiasi modo, la impedisce. Questo scopo era stato in ogni tempo perseguito mediante la formazione di governi e l’elezione di governanti che, con la loro forza coattiva, dovevano preservare la “tranquillità” della comunità politica dalla minaccia continuamente proveniente dalle “contese” e dalle “liti” spesso insorgenti fra le sue varie “parti” e fra gli stessi suoi singoli componenti. Ma a seguito della venuta di Cristo si era diffusa una nuova causa di “turbamento della pace”, che «aveva tormentato a lungo l’Impero romano e ancora lo tormentava», e anzi «tende a insinuarsi in tutte le città e i regni» [2] : la pretesa che il figlio di Dio avesse attribuito al suo vicario, il papa, la plenitudo potestatis e quindi un dominio spirituale e temporale che si estendeva non solo all’imperatore dei Romani, ma ai prìncipi, ai popoli e agli individui dell’intero ecumene. Ne era derivato infatti lo scontro tra i due poteri, che, come sempre quando si verifica un disordine istituzionale, anche allora provocava per prima cosa “offese e dispute”, in secondo luogo “conflitti”, quindi “la divisione tra i cittadini” e da ultimo “la dissoluzione stessa della comunità politica” [3] .

Ebbene, per ovviare a tali sciagure, occorreva sottoporre anche il sacerdozio, come tutte le altre “parti” della società, al comando della pars principans, l’indivisa e indivisibile autorità pubblica. Di qui l’importanza del summenzionato XVII capitolo nel porre a tema, e dimostrare, la necessità dell’esistenza di un unico governo e governante civile in ogni comunità politica, a partire dalla città e dal regno, si debat regnum aut civitas recte disponi [4] .

Marsilio comincia con l’asserire che «in una singola città o regno deve esservi soltanto un unico governo, o se ce ne sono parecchi per numero e per tipo, così come sembra opportuno nelle grandi città e soprattutto nel regno …, occorre che tra questi ve ne sia uno, numericamente unico, che sia supremo, al quale vengano ricondotti tutti gli altri, che li regoli tutti e che corregga gli errori che vi accadono» [5] . Prosegue nel secondo paragrafo, specificando come debba intendersi questa unità numerica, non come riferita alla persona, cioè, bensì alla funzione, secundum officium e non secundum suppositum humane speciei [6] . Procede, a partire dal terzo paragrafo, a provarne la necessità attraverso una serie di argomentazioni, per assurdo, per analogia e “in base all’esperienza sensibile di tutti gli uomini” [7] . Si domanda poi nel decimo «se sia meglio che esista un governo numericamente unico per tutti coloro che vivono una vita civile in questo mondo, o se, al contrario, non sia invece, talvolta, più vantaggioso avere governi supremi diversi nelle differenti regioni del mondo» [8] , lasciando il problema aperto ma facendo capire di propendere per la seconda alternativa. Conclude, infine, la sua trattazione esaminando «in cosa consista l’unità numerica della città o del regno» [9] e distinguendola dall’unità numerica di ciascuna delle sue parti [10] .

Lungo tutto questo percorso una precisa idea di ordine si impone, con le sue leggi, le sue articolazioni, la sua logica, persino con la sua terminologia, ed è in questo contesto che possiamo acclarare, innanzitutto a livello lessicale, la misura della permanenza della reductio nel discorso marsiliano.

Poniamo dunque attenzione alla sequenza dei predicati che denotano le relazioni di subordinazione riferibili alla pars principans della comunità.

Non senza una certa sorpresa, noteremo immediatamente che il verbo reducere compare solo tre volte, nei primi paragrafi del capitolo [11] , per cedere subito il passo nei successivi alle occorrenze di ben altri dieci verbi impiegati, in varie forme e modi, con una valenza semantica identica o affine: ordinare [12] , subordinare [13] , subicere [14] , regulare [15] , gubernare [16] , inclinare [17] , pendere [18] , esse [19] , dicere [20] , referre [21] .

Sembrerebbe quasi che, dopo avere individuato in reducere il termine significativo del necessario ricondursi delle diverse potestà esecutive eventualmente operanti nella comunità politica ad un governo unico e supremo, Marsilio si sia accorto che per questa funzione erano più appropriati altri verbi e lo abbia perciò tralasciato.

L’impressione trova conferma se passiamo ad esaminare i capitoli xxvii-xxviii della II Dictio.

Il capitolo xxvii è dedicato alla presentazione della dottrina curialista secondo cui, per immediata ordinazione divina, il vescovo gode di maggiore dignità rispetto a quella del sacerdote, e poiché il romano pontefice è a sua volta superiore a tutti i vescovi, detiene il primato sull’intera gerarchia ecclesiastica. Ora, nel quarto paragrafo, uno degli argomenti “di ragione” addotti a favore di questa tesi sostiene appunto che «come le cose temporali sono ricondotte ad un unico principio, il governo, così anche le cose spirituali sembrano doversi ricondurre a un solo principio, cioè l’episcopato» [22] .

La replica segue nel quattordicesimo paragrafo del successivo capitolo. Marsilio in prima istanza nega la validità della comparazione in quanto l’unità numerica, necessaria per il governo degli atti contenziosi degli uomini, non lo è altrettanto per il sacerdozio e per le rimanenti parti della comunità politica, ritenuti, al confronto, uffici minori [23] . Subito dopo, però, quasi avvedutosi della convenienza di condurre alle estreme conseguenze la ratio unitatis, fa notare che, anche concedendo agli avversari il loro assunto, la posizione da lui sostenuta risulterebbe rafforzata. Osserva infatti che l’unità del governo secolare esiste ed è richiesta in seguito ad un’istituzione umana, non per volontà divina, e perciò, proprio in forza dell’analogia, lo stesso si dovrebbe dire del primato episcopale e pontificio, entrambi di origine umana e quindi entrambi all’occorrenza revocabili, così come volevasi dimostrare [24] .

Qui, dunque, il ricorso alle voci di reducere appare praticato solo nell’esposizione degli argomenti dei curialisti ma viene accuratamente evitato nelle risposte espressive del pensiero personale di Marsilio, a testimonianza del fatto che questi si era ormai reso conto dell’appartenenza del verbo al vocabolario dei suoi avversari e lo aveva quindi definitivamente espunto dal proprio. Cosicché sembra ripetersi la situazione del De potestate papae, laddove l’auctoritas dell’Areopagita era stata confinata al ruolo di opponens ierocratico da confutare [25] , mentre ora è l’estremo retaggio del sistema dionisiano, il reducere assunto nel suo significato tecnico, che viene rigettato insieme con le conclusioni dei teologi filopontifici.

Ciò considerato, l’evoluzione nell’uso marsiliano del verbo si dimostra tanto più interessante perché rivelativa dell’emergere di importanti novità concettuali, quelle precisamente che l’hanno resa possibile. Per meglio comprenderle, è però forse opportuno tornare al discorso sviluppato nel XVII capitolo, e, in particolare, in quel fondamentale undicesimo paragrafo che era espressamente dedicato all’individuazione della natura specifica della numeralis unitas della comunità politica.

Come abbiamo visto, in esso l’unificazione dei poteri era risultata necessaria per la difesa della pace e della tranquillità civili continuamente minacciate dalle contese e dalle discordie intestine. In tal modo il ragionamento di Marsilio riprendeva motivi tipici della pubblicistica bassomedievale e, segnatamente, della concezione ierocratica, che aveva fatto della ratio unitatis uno dei principi legittimanti la supremazia pontificia [26] .

L’unificazione proposta nel Defensor pacis, però, non era appena di segno opposto, ma anche di natura diversa. Ed era di natura diversa perché diverso è il tipo di unità cui si riferiva.

Scrive infatti il Patavino che l’unitas civitatis aut regni «è un’unità di ordine, quindi non un’unità assoluta, bensì una pluralità di individui che viene detta “una”, non perché costoro siano “una sola cosa” formalmente, ossia per una qualche forma, ma perché essi sono e si dicono tali in relazione ad un’unità, ossia al governo, dal quale e in vista del quale sono ordinati e governati» [27] .

In questo passo, dunque, si parla di unitas ordinis, ovvero di quell’unità che può acquisire una moltitudine di enti, in sé formalmente separati, quando è connessa dallo stesso principio ordinatore.

E’ questo un concetto appartenente alla tradizione filosofica scolastica, che Marsilio, tuttavia, modifica sensibilmente. A differenza della dottrina tomistica e dantesca, infatti, per la quale, secondo quanto sopra ricordato, nell’universo allo stesso modo che in qualsiasi insieme organizzato esiste un duplex ordo, l’ordine delle parti al principio e l’ordine delle parti tra loro [28] , il discorso marsiliano fa riferimento ad un solo tipo di relazione, quella per la quale una pluralità di cose costituisce un’unità perché est ad unum et propter unum [29] . L’unitas ordinis, quindi, per il Patavino non si basa, come normalmente accadeva per i realisti, anche su una qualche forma o genere comune [30] , ma esclusivamente sul rapporto all’unico principio ordinatore [31] .

L’esempio dell’universo è appunto chiarificatore. Il mondo non è uno per una forma che inerisca all’essere di tutti gli enti, quanto per l’unità numerica del primo ente, da cui ogni altro ente naturalmente è mosso e diretto [32] .

Così «la città, o il regno, non costituisce un’unità per qualche forma unica naturale, come se fosse un’unità di composizione o di commistione, poiché le sue parti e funzioni, e le persone e le parti di esse, sono numericamente molte in atto e formalmente tra loro separate, sia quanto al luogo che quanto al soggetto… Roma, Magonza e le altre comunità costituiscono un unico regno o impero per il fatto che ciascuna di esse per sua volontà è ordinata ad unico governo supremo» [33] .

Ma vi è un’altra considerazione da fare.

Questi passi suggeriscono anche che per Marsilio è significativa la relazione dei molti all’uno indipendentemente dal fatto che l’unità sia principio o conseguenza dell’azione ordinatrice. Si tratta, in altri termini, di un’unità funzionale all’ordine che egli intende giustificare e non di un’unità ontologica, cosicché ciò che nel suo discorso risulta davvero determinante per caratterizzare l’unitas ordinis è semplicemente l’atto logico della predicazione che riferisce i molti al numericamente uno [34] .

A ben vedere, però, l’unità dell’ordinamento risale pur sempre all’unità di una causa prima, sia che questa si identifichi con il principio ordinatore, nel caso dell’ente supremo, sia che non si identifichi, nel caso dell’insieme dei cittadini, l’universitas civium. Persino in quest’ultimo caso, infatti, apparentemente il meno compatibile con l’auspicata unificazione del comando stante la molteplicità dei soggetti che “vogliono” il governo numericamente unico, unica risulta comunque la volontà dei molteplici soggetti nell’esercizio della loro potestà legislativa [35] .

Il principio ordinatore della comunità politica, il governo numericamente uno, ha dunque la propria causa efficiente nell’unica volontà dell’universitas civium, il legislator della comunità, come è reso manifesto, del resto, dall’altra immagine che Marsilio utilizza per rappresentare la vita della civitas aut regnum, quella dell’animale “ben formato secondo natura” [36] .

Il cuore, il principio unico da cui sono diretti tutti i movimenti dell’organismo vivente, è infatti tale non in quanto causa prima, ma in quanto strumentale all’ottenimento “di quelle cose necessarie e utili che si procurano per mezzo del movimento” [37] . In realtà, nella fisiologia aristotelica riproposta dal Patavino il cuore è sì principio di tutti i movimenti dell’organismo, ma è a sua volta formato “da un certo principio o causa motrice”, l’anima, cui, tra l’altro, rimane soggetto in ogni suo operare [38] .

Nella trasposizione civile dell’immagine l’universitas civium, in qualità di legislator, appare allora corrispondente all’anima del corpo politico, ed è sotto la sua direzione che, come il cuore dell’animale, il governo unifica e organizza la vita sociale.

Solo che l’ordine così costituito, piuttosto che naturale, si rivela essenzialmente artificiale, tanto più che viene espressamente dichiarato prodotto dell’ars. Come osserva Francis Cheneval, «bei Marsilius… fand die Parallelisierung der Struktur des tierischen Organismus mit derjenigen des Staates ihre konsequenteste Durchführung und ihre philosophische Begründung durch das methodische Prinzip ‘ars imitatur naturam’» [39] . Evidentemente, anche in questa circostanza Marsilio si riferisce ad una massima che aveva già trovato ampia applicazione nella riflessione politica bassomedievale [40] , ma che egli intende, nel Defensor pacis, in modo sicuramente innovativo. L’ars, infatti, non è per lui appena un necessario perfezionamento della natura, qual era nella tradizione precedente, essendo al contrario, principalmente, una contingente manifestazione della ragione e dell’esperienza. Così, scrive il Patavino, «quelle cose che occorrevano per vivere e per vivere bene sono state portate al loro pieno sviluppo grazie alla ragione e all’esperienza degli uomini, e in tal modo è stata istituita la comunità perfetta, chiamata “città”, insieme con la distinzione delle sue parti» [41] . E il De Lagarde, commentando il fatto che «le droit et la société civile n’ont vraiment pris forme que lorque l’art, l’expérience et la raison les ont “construites”», osserva: «L’industrie humaine a donc eu plus d’importance que la nature dans leur élaboration» [42] . D’altronde, sostiene a sua volta il Nederman, «to the extent that association is possible, human beings are not merely subject to the force of rational nature; they must choose their nature, or more properly, will to conform themselves to the nature that God has created and granted them. This is a far more muted naturalism, which demands the cooperation of artifice. Community is thereby the contingent creation of human volition» [43] . Conclusione perentoria, che tuttavia si dimostra ancor più vera nel caso della comunità perfetta, la civitas aut regnum, alla cui origine non vi è in fondo per Marsilio che una molteplicità di atti volontari, il libero consenso alla sua fondazione espresso da parte degli individui aspiranti alla “vita sufficiente” [44] .

La voluntas dell’universitas civium è allora la “causa prima ed efficiente” della comunità politica e delle sue istituzioni [45] e in essa possiamo pertanto ravvisare le stesse caratteristiche che nei due modelli di riferimento, l’universo e l’organismo animale, connotano i rispettivi principi, l’ente supremo e l’anima [46] : in modo analogo, infatti, anche la volontà dell’universitas civium nell’esercizio della sua potestà legislativa può dirsi legibus soluta [47] e superiorem non recognoscens [48] . Sono precisamente le caratteristiche che giustificano l’attribuzione a Marsilio di una seppur embrionale dottrina della sovranità popolare e, nella misura in cui l’universitas civium vi si identifica, della sovranità del legislator [49] . Ma soprattutto, conferendo a quest’ultimo rango e prerogative che quasi lo assimilano alla condizione divina, e comunque risultano pregne di rilevanti valenze spirituali, esse ci consentono di vedere in una luce nuova la subordinazione della pars sacerdotalis alle sue deliberazioni [50] . Più che la laicizzazione della società, la riflessione marsiliana sembra infatti promuovere una vera e propria sacralizzazione del potere secolare, sebbene di segno opposto rispetto a quella auspicata dai teologi curialisti [51] . Né dobbiamo sorprendercene: protagonista di un conflitto storico che trascendeva la finalità puramente naturale della comunità politica e coinvolgeva il bene supremo della salvezza eterna, il legislator che affrontava a questo livello le pretese temporali dei pontefici, doveva apparire rivestito di un’autorità perlomeno corrispondente. Doveva cioè risultare dotato di dignità e titoli tali da consentirgli di rivendicare il diritto dell’“ultima parola” non solo in campo civile ma altresì in quello religioso [52] . Così, compendia Gentile le conclusioni del Patavino sul punto, «perché lo Stato possa dirsi autosufficiente, è necessario che nella sua sovranità si includa il “potere spirituale”» [53] . La potestà del legislator si prospetta in tal modo come realmente suprema e viene quindi legittimata a costituire il fondamento unico della comunità politica anche sul piano giuridico.

L’ordinamento che ne consegue presenta allora le stesse caratteristiche di novità che connotano la rappresentazione marsiliana dell’universo e dell’organismo animale. Per il Patavino, infatti, i due modelli sono organizzati secondo una struttura relazionale che non è loro intrinseca, bensì totalmente estrinseca, consistendo nell’identica ed esclusiva dipendenza dal principio ordinatore. Abbiamo già visto come egli sottolinei che il mondo non può essere detto “uno” in virtù di una qualche forma numericamente una che inerisca all’essere di tutti gli enti, ma per l’unità numerica del primo ente, da cui ogni altro ente naturalmente è condotto e guidato. Ma la stessa cosa dovrebbe dirsi dell’organismo vivente, per quanto la sua unità non sia del tutto assimilabile all’unitas ordinis [54] . I suoi organi infatti non sono individuati in base alla rispettiva operazione, ma sono tutti indifferentemente equiparati nello svolgimento delle funzioni vitali dell’animale dalla comune soggezione alla direzione del cuore e dell’anima. Anzi, Marsilio afferma espressamente che «il cuore bene formato in un animale… regola e misura con la sua influenza o azione le altre parti dell’animale, in modo tale da non essere mai regolato da esse e da non riceverne alcuna influenza» [55] . A loro volta, anche tutte le singole partes della comunità politica sono poste sullo stesso piano, senza ammettere tra loro nessuna gerarchia o superiorità che non sia quella eventualmente stabilita dal comando del “legislatore” o del “governo”. Non a caso Marsilio sostiene che “gli uomini di una città o provincia” appunto mediante questo diverso comando vengono destinati ai diversi uffici. Anzi, «proprio per la differenza di questo comando essi costituiscono formalmente le parti e gli uffici della comunità politica» [56] . E commenta il Gentile: «Il taglio del cordone ombelicale che legava il singolo alla natura, attuato dall’atto di volontà costitutivo dello Stato, è radicale» [57] .

L’ordinamento della comunità politica si palesa pertanto in tutta la sua convenzionalità, e a maggior ragione anche la sua unità, l’unitas ordinis, oltre che funzionale, si dimostra ora essenzialmente artificiale.

Significa questo che dobbiamo rivedere l’ascrizione di Marsilio nel novero dei naturalisti medievali? Certo, permangono nel suo pensiero innegabili residui naturalistici. Gli stessi modelli dell’universo e dell’animale, almeno formalmente, lo manifestano. E del resto il legame familiare è esso pure, senza alcun dubbio, di tipo naturale [58] . Ma se perfino la prima communitas, il vicus seu vicinia, è retta lege quasi naturali [59] , quando però si forma la città, alla natura sembra definitivamente subentrare la volontà. L’affermazione sopra riportata [60] , secondo cui «la città, o il regno, non costituisce un’unità per qualche forma unica naturale… Roma, Magonza e le altre comunità costituiscono un unico regno o impero per il fatto che ciascuna di esse per sua volontà è ordinata ad unico governo supremo», è al riguardo inequivocabile.

Marsilio allora ci appare come un autore situato nella linea di sviluppo del pensiero giuridico occidentale che doveva condurre dal naturalismo aristotelico al convenzionalismo hobbesiano. Coinvolto nella disputa sui due poteri e preoccupato di contrapporre alla coerentissima costruzione teorica ierocratica un sistema altrettanto rigoroso e cogente, egli si è probabilmente accorto che la concezione naturalistica non forniva una sufficiente base filosofica per questa operazione ed ha elaborato una nuova dottrina, pervenendo ad una legittimazione sostanzialmente consensuale dell’autorità pubblica. Solo così, infatti, non vincolata neppure dalle leggi naturali, tale autorità, non importa se comunale, regia o imperiale, sarebbe stata realmente assoluta e suprema, e dunque al sicuro da qualsivoglia ingerenza ecclesiastica. Ma in questo modo il Patavino apriva davvero una strada all’affermarsi dell’idea moderna di sovranità, pur senza pervenire, immerso ancora com’era nel contesto speculativo medioevale, a quella compiuta formulazione che si sarebbe avuta tra il Cinquecento e il Seicento [61] .

In ogni caso, il paradigma che nel Defensor pacis cominciava a delinearsi già si rivelava gravido di conseguenze sotto il profilo metodologico. La tesi che l’unificazione dei poteri dipendesse da un atto giuridico convenzionale più che da una necessità naturale non poteva infatti non rispecchiarsi nelle procedure razionali chiamate a giustificarla [62] . In particolare, nella logica del discorso marsiliano, concepito in termini assiomatico-deduttivi, difficilmente avrebbe potuto trovar posto l’estremo residuo del modello gerarchico di ordinamento, la reductio ad unum, sopravvissuta all’affermarsi del naturalismo aristotelico ma ormai incompatibile con i presupposti volontaristici della nuova civilis scientia. Se, come abbiamo visto, inizialmente il posto lo trovò, fu forse per una svista, di cui non sappiamo se il Patavino si rese conto, ma che il successivo impiego dei termini doveva comunque, prontamente, correggere.

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[1] Marsilius de Padua, Defensor pacis, I, xvii (ed. R. Scholz, p. 112).

[2] Ivi, I, i, 3 (ed. cit., p. 5): «est tamen extra illas una quedam singularis et occulta valde, qua Romanum imperium dudum laboravit laboratque continuo, vehementer contagiosa, nil minus et prona serpere in reliquas omnes civitates et regna». Cfr. ivi, I, xix, 3 (ed. cit., p. 127).

[3] Cfr. Ivi, I, xvii, 3 (ed. cit., p. 114); I, xix, 12 (ed. cit., p. 135).

[4] Ivi, I, xvii, 2 (ed. cit., p. 113).

[5] Ivi, I, xvii, 1 (ed. cit., pp. 112-3): «in civitate unica seu regno unico esse oportet unicum tantummodo principatum, aut si plures numero vel specie, sicut in magnis civitatibus expedire videtur et maxime in regno sumpto secundum primam significacionem, oportet inter ipsos unicum numero esse supremum omnium, ad quem et per quem reliqui reducantur et regulentur, et contingentes in ipsis errores per ipsum eciam corrigantur».

[6] Cfr. Ivi, I, xvii, 2 (ed. cit., p. 113). E’ appena il caso di notare come Marsilio, sostenendo che l’unità di azione del governo può essere raggiunta indipendentemente dal numero dei governanti, si stacchi da tutta la precedente riflessione politica, favorevole al solo regime monarchico. Come osserva il Gewirth, «Marsilius is, indeed, the first medieval thinker to exhibit this thorough indifference toward monarchy» (Gewirth, Marsilius of Padua, vol. I, p. 117).

[7] Cfr. Ivi, I, xvii, 3-9 (ed. cit., pp. 113-118).

[8] Cfr. Ivi, I, xvii, 10 (ed. cit., p. 118): «Utrum autem universitati civiliter vivencium et in orbe totali unicum numero supremum omnium principatum habere conveniat, aut in diversis mundi plagis, locorum situ quasi necessario separatis, et precipue in non communicantibus sermone ac moribus, et consuetudine distantibus plurimum, diversos tales principatus habere conveniat tempore quodam, ad hoc eciam forte movente *causa* celesti, ne hominum superflua propagacio fiat, racionabilem habet perscrutacionem, aliam tamen ab intencione presenti». Questo passo è stato per lo più inteso come una presa di distanza di Marsilio dalla concezione universalistica dell’impero. Cfr. Gewirth, Marsilius of Padua, cit., vol. I, pp. 126-131; Vasoli, in Marsilio da Padova, Il difensore della pace, p. 234, n. 15. Occorre però notare, con il Miglio, come il Patavino, con il suo tempore quodam, lasci aperta la porta alla possibilità che, in mutate condizioni, gli uomini possano preferire l’unificazione alla pluralità delle comunità politiche (G. Miglio, La crisi dell’universalimo politico medievale e la formazione ideologica del particolarismo statuale moderno, in Marsilio da Padova. Studi raccolti nel VI centenario della morte, pp. 229-328, specialm. alle pp. 253-4). Quelle mutate condizioni che appaiono realizzarsi allorché, soprattutto nel Defensor minor, risulterà impellente l’esigenza di contrapporre all’autorità universale del pontefice l’autorità altrettanto universale del princips romanorum.

[9] Cfr. Marsilius de Padua, Defensor pacis, I, xvii, 11 (ed. cit., pp. 119-120): «Ad propositam tamen nobis redeuntes intencionem, dicamus, ex hiis que dicta sunt iam aliqualiter apparere, que sit numeralis unitas civitatis aut regni».

[10] Cfr. Ivi, I, xvii, 12 (ed. cit., p. 120).

[11] Cfr. Ivi, I, xvii, 1 (ed. cit., pp. 112-3): «in civitate unica seu regno unico esse oportet unicum tantummodo principatum, aut si plures numero vel specie… oportet inter ipsos unicum numero esse supremum omnium, ad quem et per quem reliqui reducantur et regulentur»; ivi, I, xvii, 3 (ed. cit., pp. 113-4): «si principatus essent plures in civitate vel regno, et non reducti seu ordinati sub aliquo uno supremo, deficeret iudicium, preceptum et execucio conferencium et iustorum»; ivi, I, xvii, 3 (ed. cit., p. 114): «principatuum supposita pluralitate, non reducta in supremum aliquem unum, … nemo vocatus coram principante sufficienter poterit comparere».

[12] Cfr. Ivi, I, xvii, 3 (ed. cit., pp. 113-4): «si principatus essent plures in civitate vel regno, et non reducti seu ordinati sub aliquo uno supremo, deficeret iudicium, preceptum et execucio conferencium et iustorum»; I, xvii, 3 (ed. cit., p. 114): «Esto namque … quod propter legis transgressionem aliquam vocetur aliquis respondere a pluribus principatibus non sub invicem ordinatis et pro eodem tempore»; I, xvii, 7 (ed. cit., p. 116): «Hec enim unum sunt et dicuntur propter unitatem principatus, ad quem et propter quem relique partes civitatis ordinantur omnes»; I, xvii, 7 (ed. cit., p. 117): «nullus erit ordo parcium civitatis aut regni, cum ad nullam primam ordinentur»; I, xvii, 11 (ed. cit., p. 119): «unum numero vere dicuntur, propterea quod ad unum numero *sunt et* dicuntur, principatum scilicet, ad quem et propter quem ordinantur et gubernantur».

[13] Cfr. Ivi, I, xvii, 3 (ed. cit., p. 115): «Est igitur impossibilis civitati vel regno pluralitas talium principatuum non subordinatorum invicem».

[14] Cfr. Ivi, I, xvii, 7 (ed. cit., p. 117): «nullus erit ordo parcium civitatis aut regni, cum ad nullam primam ordinentur, eo quod nulli subici teneantur».

[15] Cfr. Ivi, I, xvii, 1 (ed. cit., p. 113): «in civitate unica seu regno unico esse oportet unicum tantummodo principatum, aut si plures numero vel specie… oportet inter ipsos unicum numero esse supremum omnium, ad quem et per quem reliqui reducantur et regulentur»; I, xvii, 7 (ed. cit., p. 117): «Eliget enim sibi quod quisque volet officium, nullo regulante nec talia separante».

[16] Cfr. Ivi, I, xvii, 11 (ed. cit., p. 119): «unum numero vere dicuntur, propterea quod ad unum numero *sunt et* dicuntur, principatum scilicet, ad quem et propter quem ordinantur et gubernantur».

[17] Cfr. Ivi, I, xvii, 11 (ed. cit., p. 120): «encium quodcumque naturaliter inclinatur et pendet ab ente primo».

[18] Cfr. Ibid.: «encium quodcumque naturaliter inclinatur et pendet ab ente primo».

[19] Cfr. Ivi, I, xvii, 11 (ed. cit., p. 119): «unum numero vere dicuntur, propterea quod ad unum numero *sunt et* dicuntur»; I, xvii, 11 (ed. cit., p. 120): «predicacio qua omnia encia dicuntur unus mundus numero… est pluralitas quorundam dicta unum, quia est ad unum et propter unum».

[20] Cfr. Ivi, I, xvii, 11 (ed. cit., p. 119): «unum numero vere dicuntur, propterea quod ad unum numero *sunt et* dicuntur».

[21] Cfr. Ivi, I, xvii, 12 (ed. cit., p. 120): «ad hoc unum numero per diversam institucionem activam et passivam referuntur»; ibid.: «Dicitur autem quodlibet officiorum eciam numero unum vel una pars civitatis numero … quoniam ad unum preceptum activum principantis secundum legalem determinacionem referuntur».

[22] Ivi, II, xxvii, 4 (ed. cit., p. 522): «velut temporalia in unum reducuntur principium, puta in principatum, sic et spiritualia in aliquod unum primum videntur debere reduci, puta episcopatum».

[23] Cfr. Ivi, II, xxviii, 14 (ed. cit., p. 545): «potest negari comparacio: quoniam primi principantis aut principatus unitas numeralis necessaria est propter contenciosos hominum actus, ut demonstratum est 17. prime. Que siquidem unitas non est necessaria in aliquo reliquorum officiorum civitatis aut regni».

[24] Cfr. Ibid.: «Amplius concessa comparacione secundum similitudinem seu proporcionem, que primum assumitur ad id quod subiungitur, unum esse primum principem aut principatum, dici potest, quod verum est humana institucione, non tamen aliqua Dei sive legis divine ordinacione seu statuto immediate. Quomodo conclusimus eciam 22. huius, expediens fore unum episcopum aliquem et unam ecclesiam secundum certam formam et ad certum opus instituere omnium aliarum principaliorem et caput».

[25] Cfr., supra, III. 7.

[26] Cfr., supra, IV. 2, e, in questo capitolo, le note 32-37. Si veda inoltre, con specifico riferimento alle “controparti” della riflessione marsiliana sull’argomento, G. De Lagarde, Une adaptation de la politique d’Aristote au XIV siècle, in «Revue historique de droit français et étranger», XI (1932), pp. 227-269, alle pp. 252 ss.

[27] Marsilius de Padua, Defensor pacis, I, xvii, 11 (ed. cit., p. 119): «ex hiis que dicta sunt iam aliqualiter apparere, que sit numeralis unitas civitatis aut regni; quoniam hec unitas est ordinis, non simpliciter unitas, sed pluralitas aliquorum, que una dicitur; vel qui aliquid unum dicuntur numero, non propter hoc quod unum numero sint formaliter per aliquam formam, sed unum numero vere dicuntur, propterea quod ad unum numero *sunt et* dicuntur, principatum scilicet, ad quem et propter quem ordinantur et gubernantur».

[28] Cfr., supra, n. 63 e II. 3. Ma si veda anche, a testimonianza del perdurare della tradizione, quanto sosteneva lo stesso Giovanni di Jandun nelle Quaestiones super Metaphysicorum libros: «ordo est bonum universi et duplex est bonum universi ut dicit Commentator in II huius, quoddam est separatum ut Deus, qui est finis omnium. Aliud est bonum universi intrinsecum quod consistit in proportione partium ad invicem» (Joannes de Janduno, Quaestiones super Metaphysicorum libros, l. V, q. 23; ed. Venetiis, apud Scotum, 1508, f. 69 v b, l. 56).

[29] Marsilius de Padua, Defensor pacis, I, xvii, 11 (ed. cit., p. 120): «est pluralitas quorundam dicta unum, quia est ad unum et propter unum».

[30] Si vedano, per la concezione realista, i seguenti passi tomistici: «In creaturis autem non invenitur una forma in pluribus suppositis, nisi unitate ordinis, ut forma moltitudinis ordinatae» (S. Thomae Aquinatis Summa Theologiae, I, q. 39, a. 3; ed. cura et studio P. Caramello, Torino 1952, p. 194); «Quandoque autem plures [res] adinvicem adunatae sunt materia alicuius rei. Quod quidem contingit tripliciter. Quandoque enim adunantur secundum ordinem tantum, sicut homines in exercitu, vel domus in civitate; et sic pro forma respondet totum, quod designatur nomine exercitus vel civitatis» (S. Thomae Aquinatis In XII libros Metaphysicorum Expositio, V, l. 3, n. 779; ed. cura et studio R. Spiazzi, Torino-Roma 1964, p. 215); «Forma autem alicuius totius, quod est unum per ordinationem quamdam partium, est ordo ipsius» (S. Thomae Aquinatis In XII libros Metaphysicorum Expositio, XII, l. 12, n. 2627; ed. cit., p. 612). Si rimanda invece, per quanto riguarda Dante, ai celebri versi di Paradiso, I, 103-5: «Le cose tutte quante / hann’ordine tra loro; e questo è forma / che l’universo a Dio fa simigliante». Tommaso, peraltro, ha anche cura di precisare che la forma dell’ordine deve intendersi in ogni caso come forma accidentale, non sostanziale: «Compositio, ordo vel figura non est forma substantialis, sed accidentalis» (S. Thomae Aquinatis Summa Theologiae, III, q. 2, a. 1; ed. cit., Torino 1956, p. 11). Cfr. sul punto J.J. Sanguineti, La filosofia del cosmo in Tommaso d’Aquino, Milano 1986, pp. 106-7.

[31] Sulle ascendenza nominalistiche di questa concezione si è soffermato M. Grignaschi, L’ideologia marsiliana si spiega con l’adesione dell’autore all’uno o all’altro dei grandi sistemi filosofici dell’inizio del Trecento?, in «Medioevo. Rivista di storia della filosofia medievale», V (1979), pp. 201-222, alle pp. 214 ss.

[32] Cfr. Marsilius de Padua, Defensor pacis, I, xvii, 11 (ed. cit., pp. 119-120): «mundus dicitur unus numero, non plures mundi, non quidem propter formam aliquam unicam numeralem formaliter universis entibus inherentem, sed propter numeralem unitatem primi entis dicuntur omnia encia unus mundus numero, quoniam encium quodcumque naturaliter inclinatur et pendet ab ente primo».

[33] Ivi, I, xvii, 11 (ed. cit., p. 119): «Civitas enim aut regnum non est unorum per formam aliquam naturalem, ut composicionis aut commixcionis, quoniam eius partes seu officia et harum parcium supposita sive partes sunt multa in actu et separata invicem nemero formaliter, quoniam loco atque subiecto… Roma namque cum Maguncia et reliquis communitatibus sunt unum regnum seu imperium numero, non aliter tamen, nisi quia unaqueque istarum ordinata est per voluntatem ad unum numero principatum supremum». Si noti come Marsilio, a differenza di Tommaso, escluda che l’ordo sia forma come la composicio.

[34] Si veda, sul punto, il Di Vona, che identifica l’unitas ordinis con l’unità di analogia: «Sotto l’aspetto logico, poco importa che sia la natura, Dio, o la volontà umana, ad ordinare i molti verso ciò che è numericamente uno. Giacché tale unità dei molti è un’unità d’analogia per l’ordinamento che essi hanno rispetto a quell’uno e per quell’uno, e non per un’altra ragione. La dipendenza dei molti da una superiore unità numerica non si diversifica, sotto l’aspetto logico, col diversificarsi del suo fondamento nella natura o nella città» (Di Vona, I principi del Defensor pacis, p. 256).

[35] Osserva in proposito il Gewirth: «The broader significance of Marsilius’ emphasis upon unity emerges, therefore, when it is seen to be a unity not merely of the government as such but also of the law and the people-legislator, that is, of the whole political authority of the Marsilian state. This is, indeed, entailed by the status of the government itself; for unity of government requires unity of the law by which the government rules, and this in turn requires unity of the legislator from which the law emanates» (Gewirth, Marsilius of Padua, cit., vol. I, p. 125). Nel Defensor minor tale esigenza di unità sarà espressamente riferita tanto al governante quanto al legislatore: «sic contingeret plures esse legislatores humanos et principantes coactivos super eamdem multitudinem, non subinvicem positos in hoc saeculo, praesertim importabile est cuilibet politiae» (Marsilius de Padua, Defensor minor, II, 5 (ed. cit., p. 180). Il Gewirth, tra l’altro, ravvisa nella “republican theory” dell’unica volontà della legge da parte dell’universitas civium, quale viene sviluppata in I, xiii, 2, “a strong reminiscence” della dottrina averroistica dell’unità dell’intelletto: «Marsilius is not, indeed, holding that the human will is one in number in all men. But in taking as the subject of his demonstration a “specific nature” (eandem naturam specie) whose desires are necessarily had by “most of its members” (secundum eius plurimum, ut in pluribus), Marsilius is making the attributes of that nature so much one in kind in the individuals falling under it that he obtains for the will a unifying effect similar to that which the other Averroists had maintained for the intellect, particularly in view of his emphasis on the corporate character of the people’s will» (Gewirth, Marsilius of Padua, cit., vol. I, pp. 209-210). Sul punto, del resto, si era già energicamente pronunciato E. Troilo, L’averroismo di Marsilio da Padova, in Marsilio da Padova. Studi raccolti nel VI centenario della morte, cit., pp. 47-77, spec. pp. 64 ss. Per una discussione su queste interpretazioni, cfr. G. Piaia, L’averroismo politico e Marsilio da Padova, in Saggi e ricerche, a cura di C. Giacon, Padova 1971, pp. 33-54.

[36] Cfr. Marsilius de Padua, Defensor pacis, I, xv, 5 (ed. cit., p. 87). Si veda, al riguardo, l’ancora fondamentale saggio di Struve, Die Entwicklung der organologischen Staatsauffassung im Mittelalter, pp. 257 ss. Si noti tuttavia che l’unità organica non è propriamente una unitas ordinis, assimilandosi piuttosto all’unitas composicionis di cui si parla in I, xvii, 11. Sulla compresenza e il contrasto tra queste “different images of unity and diversity in the state” cfr. R. Baernstein, Corporatism and Organicism in Discourse 1 of Marsilius of Padua’s Defensor pacis, in «Journal of Medieval and Early Modern Studies», XXVI, 1 (1996), pp. 113-138.

[37] Cfr. Marsilius de Padua, Defensor pacis, I, xvii, 8 (ed. cit., p. 117): «in composito animali primum precipiens et movens ipsum, motu eo qui secundum locum, est unum, ut in eo libro qui De Motibus animalium apparet, quoniam pluribus existentibus hiis principiis et contraria vel diversa simul precipientibus, necesse foret animal aut in contraria ferri vel omnino quiescere et hiis carere, que per motum sibi necessaria queruntur et commoda».

[38] Cfr. Ivi, I, xv, 5 (ed. cit., p. 88) e I, xv, 7 (ed. cit., p. 90).

[39] F. Cheneval, ‘Ars imitatur naturam’ als methodisches Prinzip der politischen Philosophie und seine Anwendung im Defensor pacis des Marsilius von Padua, in «Archives d’Histoire Doctrinale et Littéraire du Moyen Âge», LX (1993), pp. 133-145, a p. 140. Per l’uso marsiliano della massima si vedano: Marsilius de Padua, Defensor pacis, I, iii, 2 (ed. cit., p. 13 ); I, xv, 5 (ed. cit., p. 87); I, xvii, 9 (ed. cit., p. 117).

[40] Cfr. Cheneval, ‘Ars imitatur naturam’, cit., pp. 134 ss. Sulle origini classiche della massima, cfr. E. Berti, La filosofia del “primo” Aristotele, Milano 1997, pp. 441 ss.

[41] Marsilius de Padua, Defensor pacis, I, iii, 5 (ed. cit., p. 16): «que necessaria sunt ad vivere et bene vivere, per hominum racionem et experienciam perducta sunt ad complementum, et instituta est perfecta communitas vocata civitas cum suarum parcium distinccione».

[42] De Lagarde, La naissance de l’esprit laique au déclin du Moyen Age. Nouvelle éd. refondue et complétée, III, p. 102.

[43] C.J. Nederman, Community and Consent. The Secular Political Theory of Marsiglio of Padua’s ‘Defensor Pacis’, Lanham 1995, p. 31. Lo studioso, peraltro, prosegue non meno incisivamente: «Communal life is possible only when people have agreed to it. They cannot be compelled to join together, nor can the process be left entirely on the impulse of nature in an Aristotelian sense… Human beings can be expected to submit their individual wills to the civic body only when persuaded of the rationality of a fully communal existence – when stable association is acknowledged to be more conducive to the realizazion of a sufficient life. Marsiglio’s reference to exhortation and persuasion intimates that the process is a contingente one: if it is necessary to convince people to enter into a community (even if they are inclined to do so), there must remain the possibility that they may refuse, because the case for social intercourse has not been made in a sufficiently persuasive fashion. The conferral of consent cannot be assumed or taken as given» (C.J. Nederman, Community and Consent, cit., p. 46).

[44] Cfr. Marsilius de Padua, Defensor pacis, I, xvii, 11 (ed. cit., p. 120): «unius civitatis aut provincie homines dicuntur una civitas aut regnum, quia volunt unum numero principatum». Ma, oltre al passo già citato, supra, alla n. 120, si possono richiamare almeno altri due luoghi del Defensor pacis: I, xii, 7 (ed. cit., p. 68) e II, xxii, 15 (ed. cit., p. 434). Sulle possibili implicazioni contrattualistiche delle asserzioni ivi contenute si vedano, di M. Grignaschi, Le problème du contrat social et de l’origine de la “civitas” dans la Scolastique, in Anciens pays et assemblées d’États. XXII. Études publiées par la sectione belge de la Commission internationale des assemblees d’États, Paris-Louvain 1961, pp. 65-85, e L’ideologia marsiliana, cit., pp. 217 ss. Si vedano anche le osservazioni di Mario D’Addio circa l’intrecciarsi nel Defensor pacis del naturalismo aristotelico con un orientamento convenzionalistico di ascendenza ciceroniana, quali divergenti e inconciliate concezioni del fondamento della società: M. D’Addio, L’idea del contratto sociale dai Sofisti alla Riforma, Milano 1954, pp. 306 ss.).

[45] Si veda, per l’universitas civium come principium factivum della comunità, Defensor pacis, I, xv, 7 (ed. cit., p. 90); cfr., inoltre, per il legislator seu universitas civium come causa effectiva prima et propria della legge, ivi, xii, 3 (ed. cit., p. 63); come causa factiva del governo, ivi, I, xv, 1 e 2 (ed. cit., pp. 84-85); come causa efficiens delle altre “parti” o uffici della comunità politica, ivi, I, vii, 3 (ed. cit., p. 36); I, xv, 4 (ed. cit., p. 86).

[46] Cfr. M. Grignaschi, Réflexions suggérées per une derniére lecture du “Defensor pacis” de Marsile de Padoue, in Papers in Comparative Political Science – Estudios de Ciencia Politica Comparada. Trabajos en homenaje a Ferran Valls i Taberner, vol. XVI, Barcelona 1990, pp. 4507-4528, a p. 4520, per il parallelismo tra l’universitas civium e l’ente supremo dell’universo; Struve, Die Entwicklung der organologischen Staatsauffassung im Mittelalter, cit., pp. 263 ss., per la corrispondenza tra l’universitas civium e l’anima dell’animale.

[47] Cfr., supra, Introduzione. 2. Anche se l’espressione non ricorre nelle opere di Marsilio, si può ben affermare che l’universitas civium sia legibus soluta, soprattutto tenendo conto del fatto che né la legge divina (Defensor pacis, II, ix, 3; ed. cit., pp. 232-3), né la legge naturale (ivi, II, xii, 8; ed. cit., pp. 268-9), né tantomeno la vigente legge positiva pongono un effettivo limite all’esercizio della sua potestà legislativa (ivi, I, xii, 3; ed. cit., p. 64). Si deve tuttavia anche rilevare che, proprio perché riferito all’assolutezza del potere, il paragone del legislator con l’anima appare problematico, in quanto, come ha notato il Gewirth, lo sviluppo dell’organismo vivente e quindi l’azione del suo principio generativo sembrano al contrario totalmente predeterminati da inviolabili necessità biologiche. Cfr., in questo senso, Gewirth, Marsilius of Padua, cit., vol. I, pp, 50 ss., 57 ss., 208 ss. Lo stesso Gewirth peraltro lascia intravvedere la possibilità di ricondurre il significato di tali necessità all’idea di un principio che, proprio per la sua naturalità, compie infallibilmente bene qualsiasi cosa compia. Cfr., ivi, pp. 143-4. È questo almeno il senso in cui deve essere indubitabilemente compreso il confronto con l’agire divino (Defensor pacis, I, ix, 2; ed. cit., pp. 39-40), la cui imperscrutabilità coinvolge tanto la sua perfetta indefettibilità quanto la sua incondizionata libertà.

[48] Cfr., supra, Introduzione. 2. Si vedano in particolare i ripetuti riferimenti all’universitas civium quale legislator supremus (Defensor Pacis, II, XVIII, 8; ed. cit., p. 382; Defensor minor, iii, 7; ed. cit., p. 188; ivi, xi, 3; ed. cit., p. 252; ivi, xii, 1; ed. cit., p. 254) e superiore carens (Defensor pacis, II, XVIII, 8; ed. cit., p. 382; ivi, II, xxi, 1; ed. cit., p. 402; ivi, II, xxi, 4; ed. cit., p. 405; ivi, II, xxii, 9; ed. cit., p. 428).

[49] La discussione sull’esistenza nel Defensor pacis di una dottrina della sovranità legislativa popolare è in effetti quantomai aperta. Se ne può leggere un resoconto ragionato in Nederman, Community and Consent, cit., pp. 73 ss. Per la presenza in nuce nel pensiero marsiliano dell’idea moderna di sovranità, cfr., supra, Introduzione. 2.

[50] Cfr., supra, Introduzione. 2, n. 23.

[51] Si consideri a questo riguardo che Marsilio aderiva ancora alla tradizionale dottrina teocratica dell’origine divina del potere secolare, come attestano i numerosi richiami all’insegnamento paolino contenuto in Romani, xiii, 1-7. Di particolare significato è soprattutto il passo del Defensor pacis (I, ix, 2; ed. cit., pp. 39-40) in cui si distingue tra la divina voluntas quale causa remota e l’arbitrium humane mentis quale causa immediata della nascita della comunità politica. Si capisce che qui per il Patavino l’arbitrium humane mentis è una compiuta espressione della divina voluntas. Cfr., sul punto, la perspicua trattazione di M. Grignaschi, L’insegnamento di S. Paolo:“Ep. ad Romanos”, XIII, 1-7 in Marsilio da Padova, in Atti dell’Accademia Nazionale dei Lincei. Rendiconti morali, serie VIII, vol. VIII (1953), pp. 278-293.

[52] Cfr. in questo senso Vasoli, Introduzione, in Marsilio da Padova, Il difensore della pace, cit., pp. 56-7.

[53] Gentile, Marsilio e l’origine dell’ideologia, cit., p. 298. La sacralizzazione del legislator che in tal modo veniva compiuta ha peraltro indotto numerosi studiosi a ravvisare nella dottrina marsiliana non tanto la prefigurazione della moderna teoria della sovranità, quanto un “ritorno” alla concezione cesaropapista dei primi imperatori cristiani. Cfr., ad esempio, G. Piaia, “Antiqui”, “moderni” e “via moderna” in Marsilio da Padova, in Antiqui und moderni. Traditionsbewußtsein und Fortschrittbewußtsein im späten Mittelalter, hrsg. von A. Zimmermann, Berlin-New York 1974, pp. 328-344; ora in Id., Marsilio e dintorni. Contributi alla storia delle idee, Padova 1999, pp. 54-78. In verità, è più probabile che proprio il recupero della concezione cesaropapista, combinandosi con il volontarismo e il convenzionalismo della filosofia marsiliana, abbia aperto la strada al pensiero moderno.

[54] Cfr., supra, n. 123.

[55] Marsilius de Padua, Defensor pacis, I, xviii, 2 (ed. cit., p. 122): «cor bene formatum in animali… sic regulat et mensuram per suam influenciam seu accionem reliquas parcium animalis, quod ab ipsis nullatenus regulatur nec ipsarum influenciam recipit aliquam».

[56] Cfr. Marsilius de Padua, Defensor pacis, I, xvii, 12 (ed. cit., p. 120): «Ex cuius siquidem eciam diversitate precepti formaliter sunt isti partes et officia civitatis diversa».

[57] Gentile, Marsilio e l’origine dell’ideologia, p. 297.

[58] Cfr. Marsilius de Padua, Defensor pacis, I, iii, 3 (ed. cit., p. 13).

[59] Cfr. Marsilius de Padua, Defensor pacis, I, iii, 4 (ed. cit., p. 14).

[60] Cfr., supra, n. 120.

[61] Cfr., supra, Introduzione. 5.

[62] Si vedano al riguardo le interessanti considerazioni di L. Olivieri, Teoria aristotelica dell’opinione e scienza politica in Marsilio da Padova, in «Medioevo. Rivista di storia della filosofia medievale», V (1979), pp. 223-235.