L’ABROGAZIONE DELL’ART. 15 DELLA LEGGE CRISPI
Il problema concettuale dell’abrogazione nella sua fase applicativa.
Il ruolo del giurista.
di Federico Casa

Rispetto al secondo quesito posto, e cioè quello concernente la cumulabilità di tali indennità, va preliminarmente evidenziato che nell’ordinamento legislativo e provvedimentale vigente non vi è alcuna disposizione che preveda una qualche incompatibilità tra la carica di amministratore di due diverse IPAB.
Le uniche incompatibilità sancite ex lege sono, infatti, quelle contenute nella "Crispi", la quale negli artt. 11 e ss. indica alcuni tassativi casi di incompatibilità, ma non certo l’ipotesi in cui l’ufficio di amministratore viene ricoperto da chi già svolge tale mansione in altra IPAB; ne dovrà evidentemente derivare che nulla osta al cumulo delle indennità.
Tutt’al più, una qualche perplessità potrebbe derivare dall’art. 23 della L. n. 265 del 1999, il cui testo è oggi integralmente recepito dall’art. 82 del D.Lgs. n. 267 del 2000, dettato appunto in tema di amministratori di enti locali, il quale ai commi VI, VII e VIII stabilisce infatti che "le indennità di funzione previste dal presente capo non sono tra loro cumulabili. L’interessato opta per la percezione di una delle due indennità ovvero per la percezione del 50 per cento di ciascuna […]."
Ma non c’è dubbio alcuno che tale disposto legislativo non può trovare applicazione agli amministratori della IPAB, dato che la loro attività è prevista e regolata dall’art. 7 del D.Lgs. n. 207 del 2001, nel quale non vengono richiamate le norme di cui all’art. 82 del Testo Unico del 2000.
Tale disposizione non è applicabile agli amministratori delle IPAB, non solo perché l’art. 7 del D.Lgs. n. 207 non rinvia all’art. 82 del Testo Unico, pur richiamando invece espressamente e puntualmente l’art. 87, dato che potrebbe trattarsi di una "svista" del legislatore, ma soprattutto poiché il rinvio all’art. 82 del Testo Unico, che vieta appunto la cumulabilità delle indennità, non avrebbe avuto significato alcuno, considerato che risulta evidente che il legislatore del 2001 con la previsione dell’art. 87 intende estendere agli organi di governo delle IPAB le norme che il Testo Unico aveva previsto per i consigli di amministrazione delle aziende speciali anche consortili, così richiamando le sole prescrizioni degli artt. 78 comma II, 79 commi III e IV, 81, 85 e 86, ma non certo l’art. 82.
D’altro canto, la lacuna viene, infatti, immediatamente colmata dal decreto di ri-ordino delle IPAB il quale, se da un lato, rinvia alle norme del Testo Unico, dall’altro, attribuisce alla Regione il compito di determinare i criteri per la fissazione dei compensi agli amministratori. Ne deriva che, finché la Regione non provvederà ad attuare quanto stabilito dal D.Lgs. n. 207 del 2001 agli artt. 5 e 7, non vi è norma alcuna che vieti il cumulo di tali indennità.
Pertanto, rispetto al quesito iniziale, si deve necessariamente rispondere che Tizio, il quale è contemporaneamente consigliere d’amministrazione dell’ente Alfa e dell’istituto Beta può indubbiamente cumulare le due indennità di carica.

Da un punto di vista teorico generale, a prescindere pertanto dalla bontà delle soluzioni giuridiche proposte, appare opportuno svolgere una qualche considerazione sul procedimento utilizzato per risolvere le questioni poste all’attenzione dell’interprete.
A tal proposito, può risultare suggestivo prendere le mosse da quella diffusa convinzione, più o meno consapevole, che costituisce certo il punto di approdo più ovvio di quel preciso itinerario filosofico di tanta parte dei nostri teorici generali di formazione analitica, secondo il quale, di fronte alla comune affermazione del nostro legislatore "con l’entrata in vigore della presente legge, sono abrogate tutte le disposizioni ed i provvedimenti che regolano la stessa materia o che la contraddicono", altro non può rilevare che "quale siano queste norme passa comprensibilmente sotto silenzio; il legislatore semplicemente le ignora. Ma poiché ne sospetta l’esigenza, ritiene di dover correre ai ripari. Nulla può documentare la desolazione della situazione attuale meglio di questa schiettissima confessione del legislatore: non poter più egli abbracciare con lo sguardo il proprio campo di attività" (S. Simitis, Crisi dell’informazione giuridica, p. 17).
Evidentemente, così impostato, il problema giuridico dell’individuazione del disposto normativo in grado di regolare un determinato caso giuridico, che altro non è se non il classico problema della validità giuridica, del quale la successione delle leggi nel tempo costituisce un formidabile punto di emersione, finisce per essere un falso problema.
In altri termini, se i presupposti teorici della questione sono la completezza e la coerenza dell’ordinamento giuridico, come non è comprensibile l’ingenuo imbarazzo del giurista di fronte alle lacune legislative, così non sono significativi da un punto di vista teorico generale i problemi posti dalla successione delle leggi nel tempo, considerato che è la Legge stessa, con l’ausilio dell’interprete, ad auto-integrarsi.
In questa prospettiva, è ben poco rilevante che il legislatore, una volta emanata una disposizione legislativa, conosca o meno le disposizioni immediatamente abrogate oppure virtualmente abrogabili, considerato che è l’interprete stesso chiamato a "completare" una volontà provvisoriamente imperfetta, ma ontologicamente completa; così come non ha alcun senso, ma su questo non dovrebbe essere necessario nemmeno discutere, risolvere quello che è appunto un falso problema, attraverso un’incredibile soluzione, il ricorso ad una macchina elettronica che assume funzioni decisionali attraverso l’elaborazione della documentazione normativa inserita, così come propongono oggi alcuni epigoni di quella medesima Scuola Analitica.
Il vero problema è piuttosto, ed evidentemente, la funzione che è chiamato a svolgere oggi il giurista; non si tratterà cioè di discutere se l’elaboratore informatico sia o meno in grado di svolgere o di controllare i ragionamenti del giurista, quanto piuttosto quello di comprendere che ciò che caratterizza l’attività del giurista non potrà mai essere quella di completare la volontà del legislatore, quale ultimo anello di quel particolare procedimento che prende il nome di autointegrazione dell’ordinamento giuridico, quanto piuttosto quella di "tenere assieme" il dover essere della norma con l’essere del fatto, che pure concorre alla formazione dell’ordinamento giuridico, in ultima analisi, quella di verificare di volta in volta come attuare quel "tribuere cuique suum", questo sì unico e ultimo baluardo della certezza del diritto, di fronte ad un legislatore certo spesso irrazionale e confuso, ma inevitabilmente mai come oggi espressione di una società "che non si riconosce nella medesima tavola di valori e sicuramente scomposta nella varietà di gruppi e della categorie economiche" (N. Irti, L’età della decodificazione, p.96).

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