L’ABROGAZIONE DELL’ART. 15 DELLA LEGGE CRISPI
Il problema concettuale dell’abrogazione nella sua fase applicativa.
Il ruolo del giurista.
di Federico Casa

quale sia conseguentemente, in caso di abrogazione degli artt. 15 e 17 della "Crispi", la disciplina giuridica oggi applicabile a quelle fattispecie nelle quali il componente del consiglio di amministrazione di una IPAB debba intervenire a discussioni e deliberazioni concernenti interessi suoi o di altro ente dal medesimo stabilmente amministrato.
Occorre subito evidenziare che, qualora si dovesse ritenere che alla fattispecie concreta prospettata dovesse risultare applicabile la legge "Crispi", non si porrebbe nemmeno il problema di verificare caso per caso l’esistenza o meno di un’ipotesi di conflitto d’interessi, considerata la chiarezza del disposto normativo del 1890, il quale obbliga l’amministratore all’astensione a prescindere da ogni disamina sulla portata del conflitto d’interessi medesimo, dovendo l’amministratore non prendere parte alla delibera ogni qualvolta essa sia relativa ad un suo interesse, anche se rispetto ad esso non sia ipotizzabile, nemmeno virtualmente, un conflitto con il preminente interesse pubblico della delibera stessa.
Sul punto la giurisprudenza del Consiglio di Stato, certo formatasi sull’art. 290 del Testo Unico del 1915 n. 148 e sull’art. 279 del Testo Unico 1934 n. 383, appariva assolutamente unanime: l’obbligo dell’astensione dalla partecipazione a deliberazioni che trattano questioni nelle quali vi sia un interesse personale di un membro del Consiglio comunale prescinde da ogni apprezzamento circa l’idoneità dell’interesse a determinare o escludere la situazione d’incompatibilità (Consiglio di Stato, Sez. IV, 31 ottobre 1983 n. 713, in "Cons. Stato", 1983, I, p.1002), salvo qualche isolata pronuncia nella quale si tentava di temperare tale principio, escludendosi che tale obbligo vi sarebbe stato nel caso di interesse esiguo o di estrema tenuità (Consiglio di Stato, Sez. IV, 31 dicembre 1983 n. 1052, in "Giur. It.", 1984, III, p.340).
Ciò evidenziato, in ogni caso nessuno potrà dubitare che l’art. 30 II comma della legge 8 novembre del 2000 n. 328, (Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali) stabilisce che "all’entrata in vigore del decreto legislativo di cui all’art. 10 è abrogata la disciplina relativa alle IPAB prevista dalla legge 17 luglio 1890 n. 6972".
Il decreto legislativo cui si riferisce il legislatore del 2000 è indubbiamente il D.Lgs. 4 maggio 2001 n. 207, che il governo veniva delegato ad emanare appunto a seguito della legge delega 8 novembre 2000 n. 328, recante una nuova disciplina in tema di IPAB, ispirata ai principi ed ai criteri indicati dalla legge delega stessa (art. 10 legge 8 novembre 2000 n. 328): inserimento delle IPAB nella rete territoriale dei servizi, garanzia di una gestione efficace ed efficiente, adozione di forme gestionali privatistiche, promozione di forme di accorpamento e fusione tra IPAB, scioglimento delle IPAB inutili o inattive, promozione della separazione della gestione dei patrimoni da quella dei servizi, finanche alla promozione della depubblicizzazione.
A questo punto si pone il problema di comprendere se l’art. 30 della legge delega rappresenti un’ipotesi di abrogazione espressa anche degli art. 15-17 della legge "Crispi", seppur differita all’entrata in vigore del decreto legislativo delegato, oppure se vi possa essere un qualche margine per affermare che i principi ivi contenuti debbano ancora trovare applicazione, considerato che tali articoli non sono stati espressamente abrogati.
In realtà, la questione è solo accademica, poiché l’art. 7, IV comma del D.Lgs. 4 maggio 2001 n. 207 (decreto delegato) espressamente rinvia all’art. 87 del D.Lgs. 18 agosto 2000 n. 267: "ai componenti gli organi di Governo delle IPAB e delle aziende di servizi si applicano le disposizioni di cui all’art. 87 del decreto legislativo 18 agosto 2000 n. 167", il quale altro non è se non il Testo Unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, al cui art. 87 prevede che "fino all’approvazione della riforma in materia di servizi pubblici locali, ai componenti dei consigli di amministrazione […] si applicano le disposizioni contenute nell’art. 78 comma 2, nell’art. 79 commi 3 e 4, nell’art. 81, nell’art. 85 e nell’art. 86".
In buona sostanza, sembra essere accaduto questo: la legge delega del 2000 condiziona l’abrogazione della "Crispi" all’entrata in vigore del decreto delegato del 2001, il quale certo entra in vigore ma, in tema di amministratori di IPAB, rinvia all’art. 87 del Testo Unico del 2000, testo normativo addirittura precedente alla legge delega, e in grado di produrre effetti solo fino a quella che sarà "la riforma in materia di servizi pubblici locali". Tecnicamente, un’abrogazione espressa differita, rispetto alla quale la cosiddetta condizione sospensiva è rappresentata da un decreto delegato il quale rinvia ad un disposto normativo addirittura precedente la legge delega, la cui efficacia è per volontà stessa del legislatore risolutivamente condizionata all’entrata in vigore di altra disposizione normativa.
Pur con le difficoltà di seguire il legislatore in questo complicato gioco di rinvii, dovrebbe risultare sicuro che la normativa oggi applicabile è quella che il Testo Unico aveva già previsto per i consigli di amministrazione delle aziende speciali: "gli amministratori di cui all’art. 77 comma 2 devono astenersi dal prendere parte alla discussione ed alla votazione di delibere riguardanti interessi propri o di loro parenti o affini entro il quarto grado. L’obbligo di astensione non si applica ai provvedimenti normativi di carattere generale, quali i piani urbanistici, se non nei casi in cui sussista una correlazione immediata e diretta fra il contenuto della deliberazione e specifici interessi dell’amministratore o di parenti o affini fino al quarto grado".
In tema di trattamento giuridico della fattispecie, ne derivano due conseguenze inequivocabili.
La prima. L’obbligo di astensione ivi sancito incontra una deroga nei provvedimenti normativi di carattere generale, dato che correttamente si tratta di delibere nelle quali si presume inesistente un qualunque conflitto di interesse, fatta salva l’ipotesi di una correlazione immediata e diretta del contenuto della deliberazione con gli eventuali specifici interessi dell’amministratore, mentre, correttamente, viene esclusa ogni possibilità di conflitto tra delibere di enti e/o istituti nei cui rispettivi consigli vi sia il medesimo amministratore.

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