L’ABROGAZIONE DELL’ART. 15 DELLA LEGGE CRISPI
Il problema concettuale dell’abrogazione nella sua fase applicativa.
Il ruolo del giurista.
di Federico Casa

In particolare, e schematizzando, si tratterà di comprendere se Tizio, il quale è contemporaneamente consigliere d’amministrazione dell’ente Alfa e dell’istituto Beta, debba astenersi da ogni discussione e votazione del consiglio d’amministrazione di Alfa nel quale si dibattano problematiche afferenti l’ente Beta, e viceversa.
Sul punto, occorre osservare che nel nostro ordinamento giuridico i criteri per ordinare le norme giuridiche prodotte dalle fonti del diritto, oltre ad essere presenti nella Costituzione, si trovano nelle "Disposizioni sulla legge in generale", i quali consentono di risolvere i contrasti che inevitabilmente si pongono tra le differenti disposizioni legislative.
I criteri che vengono espressi nelle Disposizioni sono essenzialmente tre: il criterio cronologico, il quale regola la successione degli atti normativi nel tempo, il criterio gerarchico, il quale risolve antinomie di norme poste da fonti non equiparate ma aventi una posizione gerarchica differente e, infine, il criterio della competenza, il quale vige in tutti i casi nei quali le fonti sono ordinate dalla Costituzione secondo, appunto, differente competenza, riferendosi alla dimensione territoriale nell’ambito della quale l’atto-fonte è destinato ad operare o alla materia che esso è chiamato a disciplinare.
In forza del criterio cronologico, il quale regola i contrasti tra disposizioni stabilite da fonti aventi la medesima competenza ed il medesimo rango gerarchico (c.d. fonti equiparate), prevale e deve essere applicata quella legge o comunque quell’atto normativo posto successivamente nel tempo; regola questa espressa nel noto brocardo "lex posterior derogat priori", in virtù del quale appunto la legge posteriore costituisce la causa dell’abrogazione della legge anteriore. Secondo questa prospettazione, sicuramente prevalente rispetto a quella secondo la quale la legge posteriore altro non sarebbe l’evento al cui verificarsi sarebbe risolutivamente condizionata la legge anteriore, l’abrogazione di una disposizione normativa è la conseguenza del ricorso al criterio cronologico al fine di risolvere un contrasto normativo, criterio vigente ed espressione del principio secondo il quale i dettati più recenti in ordine di tempo devono prevalere su quelli del passato.
Seppur solo incidentalmente, vale la pena di evidenziare che in presenza della c.d. clausola di abrogazione espressa, ovvero di quella clausola contenuta in alcuni atti normativi, in forza della quale è il legislatore stesso a statuire che la disciplina dettata non possa essere abrogata o derogata se non in modo esplicito e comunque con precisa indicazione delle fonti da abrogare o modificare viene, in buona sostanza, rovesciato il criterio cronologico e, in caso di conflitto tra due disposizioni, l’interprete dovrà applicare la norma precedente anziché quella successiva.
Chiarito ciò, si dovranno preliminarmente individuare le fonti alle quali almeno astrattamente si potrebbe ricorrere al fine di regolare il caso de quo, fattispecie concreta nella quale l’amministratore è chiamato a prendere parte ad una seduta del consiglio d’amministrazione nella quale si dibattono questioni afferenti ad un altro ente del quale egli è amministratore, pur sempre naturalmente nella convinzione che l’operato del medesimo deve essere improntato ai principi di imparzialità e di buona amministrazione (art. 97 Cost.).
A ben vedere, rispondere a tale questione altro non significa se non prospettare una soluzione alle domande di seguito riportate, le quali rappresenteranno anche la struttura logico-argomentativa del prosieguo dell’esposizione:
se, a seguito dei numerosi interventi legislativi in materia si possano ritenere ancora applicabili agli organi di governo delle IPAB i precetti normativi contenuti rispettivamente nell’art. 15 della legge 17 luglio 1890 n. 6972 (cosiddetta "legge Crispi", istitutiva delle IPAB medesime), il quale stabilisce che "chi fa parte delle Congregazioni di carità (soppresse dalla legge 3 giugno 1937 n. 847 e sostituite dagli Enti Comunali di assistenza) e gli amministratori di ogni altra istituzione pubblica di assistenza e beneficenza, non può intervenire a discussioni o deliberazioni, né può prender parte ad atti o provvedimenti concernenti interessi suoi o dei parenti od affini entro il quarto grado, o interessi stabilmente da lui amministrati, o di corpi morali di cui avesse una rappresentanza o di persone con le quali fosse legato da vincolo di società in accomandita semplice o di associazione in partecipazione […]", disposizione applicabile pure a "coloro che fanno parte dell’ufficio di Prefettura, di sottoprefettura o di altra autorità politica, ovvero della Giunta Provinciale amministrativa (ora Comitato provinciale di assistenza e beneficenza per effetto del D.Lgs. 22 marzo 1945, n. 173) ed al Sindaco del Comune"; nonché quelli contenuti nel successivo art. 17 il quale, in caso di violazione del precedente art. 15, sancisce "la decadenza dall’ufficio di amministratore", nonché "l’obbligo di risarcimento dei danni, salve le maggiori pene quando siavi reato";

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