DALLA CRISI DELLO STATO AI NUOVI PARADIGMI: “GLOBAL GOVERNANCE”, “ARENA PUBBLICA” O “RETE”?
Recensione a Sabino Cassese, La crisi dello Stato, Laterza, 2002
di Paolo Silvestri

Infine, qualche perplessità la solleva lo stesso Autore quando ritiene che "non si può escludere che […] la ricerca del diritto meno severo e della migliore tutela possa risolversi nella prevalenza del peggiore diritto". Questa sua consapevolezza ci rinvia alle domande sollevate nella conclusione.
2) Dallo stato all’Unione: l’organizzazione pubblica multilivello "Al monismo statale e alla sua organizzazione compatta si sostituisce un conglomerato di diritti", sull’esempio dell’ordine giuridico medievale. "Al centro non c’è più lo stato, ma l’Unione, che opera, però, secondo il modello della "indirect rule", del "governo" attraverso altri "governi" […]". "Tra i diversi livelli si stabilisce una triplice circolazione: dall’alto verso il basso, attraverso lo strumento più noto, quello della armonizzazione comunitaria dei diritti nazionali; dal basso verso l’alto, grazie all’integrazione delle tradizioni giuridiche costituzionali nel diritto comunitario; orizzontalmente, a mezzo delle scelte tra i diversi ordinamenti consentiti dal mutuo riconoscimento". "Grazie a queste diverse relazioni, si attivano una circolazione tra gli ordinamenti e una circolazione dei soggetti tra gli ordinamenti […] la prima consente il trapianto di istituti giuridici: sono questi che si muovono. La seconda consente lo spostamento di soggetti sotto l’impero di istituzioni, che possono essere armonizzate oppure non esserlo: in tal caso, sono i soggetti che si muovono, portando, poi, con sé parti di altri ordinamenti". "Questo movimento circolare può essere attivato dal basso, quando l’operatore nazionale o sceglie un altro ordinamento oppure attiva l’intervento comunitario, in ambedue i casi "contro" il proprio ordinamento. Oppure può essere attivato dall’alto, secondo il modello centralizzato dell’iniziativa della Commissione".
Ora, bisogna riprendere quelle precisazioni terminologiche e concettuali cui prima si era fatto cenno. L’Autore aveva scritto in precedenza, a proposito dell’organizzazione pubblica multilivello, di una struttura non gerarchica, bensì reticolare, e, in quanto reticolare, senza centro. Qui, invece, si ribadisce che l’Unione sta al centro. Inoltre, il Cassese sembra abbandonare la metafora della rete proprio quando le sue stesse parole (quando spiega, da un lato, la "triplice circolazione" e, dall’altro, la duplice circolazione, attivabile dal basso e dall’alto) la lascerebbero intendere chiaramente. Per di più, questa metafora viene poi ripresa quando spiega che nel "nuovo contesto, insieme multinazionale e comunitario (in sensostretto), gli stati perdono l’impianto monistico e si presentano come aggregati di parti, come pluralità di centri. Tra questi ultimi si stabiliscono nuove relazioni, spesso illustrate con la metafora della rete, espressione istituzionale della diversità del policentrismo". Ma è chiaro che l’Autore non sposa pienamente questa metafora visto che ne propone un’altra, quella dell’arena pubblica. Cassese inoltre ritiene che "l’interesse generale o pubblico, da finalità superiore imposta a priori dalla legge e collocata come finalità superiore ai diritti e alle libertà […], diviene il risultato del conflitto e della armonizzazione spontanea degli interessi individuali, secondo il modello dell’utilitarismo" cioè, come continua in nota, "secondo il notissimo modello smithiano". In verità, come è noto, Smith non era utilitarista, e, anzi, furono proprio gli utilitaristi ad abusare e a prendere alla lettera quella che era una metafora. Inoltre, approfondendo quanto si diceva prima circa la coincidenza tra interessi privati e interessi pubblici comunitari, Smith scriveva in un contesto in cui la rivoluzione industriale non aveva ancora dispiegato i suoi effetti e il potere economico privato non era paragonabile a quello attuale. Ciò nonostante, sono ben noti sia la sua posizione antimercantilistica sia i suoi dubbi sulle grandi società privilegiate; per questo il padre dell’economia moderna riteneva la concorrenza un freno necessario al potere industriale, e, come ricorda Galbraith, nella visione di Smith la concorrenza "esisteva in equilibrio instabile. Nessuno l’avrebbe accettata, se avesse potuto limitarla o evitarla. E una volta soppressa la concorrenza, si sarebbe ritirata anche la mano invisibile". Così scrive Smith nel libro primo de La ricchezza delle nazioni: "è difficile che persone dello stesso mestiere si incontrino, sia pure per far festa e per divertirsi, senza che la conversazione finisca in una cospirazione contro lo stato o in qualche espediente per elevare i prezzi".
3) Dal procedimento allo scambio "Non è il procedimento che modula il negoziato, ma il negoziato che plasma il procedimento", inoltre, vengono in primo piano "la libertà delle forme in luogo della tipicità, lo scambio in luogo della ponderazione". È ciò che si contrappone, e in qualche modo supera, il modello tradizionale del potere legale-razionale. Occorre precisare che il concetto di scambio è inteso nel senso di reciproche concessioni ed è utilizzato per sottolineare ciò che di assolutamente nuovo c’è "nella conferenza dei servizi (e in tutte gli altri moduli di riunione di uffici di poteri pubblici diversi)" rispetto alla ponderazione degli interessi che è tipica nel procedimento tradizionale.
4) La fine del bipolarismo L’espressione indica la fine sia della distinzione-contrapposizione tra pubblico e privato, sia della superiorità del primo sul secondo. Le relazioni diventano multipolari. Così, stato e mercato, pubblico e privato, "si presentano come entità interpenetrantesi".
L’Autore, in definitiva, ritiene che il paradigma dell’arena pubblica, anche se forse inadeguato, riassuma i paradigmi precedenti e esso presenti "tuttavia bene l’allargamento dei confini del potere pubblico e il mutamento della sua morfologia e, contemporaneamente, consente di intenderne l’incompletezza". Infine, anche se "si può nutrire qualche dubbio che i nuovi paradigmi si possano prestare ad abusi, consentendo una facile manipolazione di istituti giuridici disponibili e "porosi", sotto la pressione degli interessi, si deve, però, accettare l’invito della nuova realtà a battersi con essa, semmai con forze maggiori e con strumenti di analisi più sofisticati di quelli qui utilizzati". Il Cassese conclude ricordando, con il Mackenzie, che "i dibattiti sulle organizzazioni sono diventati […] una discussione sulla politica e sulla società […] la vita nelle organizzazioni è troppo importante per essere lasciata solo ai tecnici dell’organizzazione". In conclusione, il libro merita di essere letto per le innumerevoli e interessanti suggestioni. Tuttavia, raccogliendo il suo invito al dibattito e il monito: "la "dottrina" giuridica non può tenere fermi i propri codici di riferimento con un cambiamento tanto radicale del suo oggetto", si vogliono sollevare delle questioni, alcune delle quali si connettono ai problemi già evidenziati.
Innanzitutto, sono proprio i nuovi "codici di riferimento" ad alimentare qualche dubbio. Infatti, la metafora dell’arena pubblica sembra essere doppiamente contraddittoria. In primo luogo, se le istituzioni pubbliche si organizzano e agiscono secondo moduli tipicamente privati, non sarebbe stato più appropriato chiamarla "arena privata"? Ma la seconda obiezione è più generale e finisce con il travolgere anche la prima: se si decreta la "fine del bipolarismo" pubblico/privato, l’arena non solo non può dirsi privata ma, a rigor di logica, neanche pubblica. Né si comprende in che senso il "paradigma" della "fine del bipolarismo" è riassunto in quello dell’arena pubblica. Non sarebbe forse stato più appropriato chiamarla "arena comune"? Del resto, se l’Autore critica la presunta "novità" delle ricostruzioni di realisti, istituzionalisti e funzionalisti in quanto pur sempre muoventesi all’interno del paradigma statocentrico, sulla base delle precedenti affermazioni non si può esser certi che egli ne sia fuori. Tale sospetto sarebbe corroborato da quanto l’Autore scrive nell’ultimo saggio (in senso cronologico). In primo luogo, il ritorno alla "global governance" e all’idea di rete lascerebbe presupporre l’abbandono dell’"arena pubblica"; tuttavia, non solo la metafora della rete non viene compiutamente teorizzata ma, come si è visto, torna anche l’idea di centro. In secondo luogo, là dove si scrive che gli ordinamenti pubblici globali "mirano a governare valori economici e materiali" e in essi "gioca un ruolo dominante l’amministrazione, piuttosto che la politica" mentre diverso [è] il caso di quella parte della "global governance" che inizia a coinvolgere problemi politici", non solo risulta problematico separare nettamente le due sfere, specialmente quando si tratta di casi che coinvolgono istituzioni di alto livello (in che senso l’intervento del Presidente degli Stati Uniti, citato in uno dei casi esaminati dall’Autore, riguarderebbe solo la sfera dell’amministrazione?). Ma soprattutto, la separazione-contrapposizione di politica e/o governo da un lato, e amministrazione e/o tecnica all’altro, lascierebbero sottintendere una accezione soggettiva (e non oggettiva) della politica a sua volta portato di quella peculiare identificazione tra politica e ragion di stato (per una radicale problematizzazione di queste coppie di concetti cfr. Gentile, Intelligenza politica e ragion di stato, Milano, 1984²). In terzo luogo, il sospetto che ci si muova ancora all’interno di un paradigma statocentrico, non viene fugato là dove si ritiene "difficile che si ripeta l’esperienza degli stati nazionali, con le sue due componenti essenziali, quella rousseauiana (la democrazia politica) e quella montesquieuiana (la divisione dei poteri e le garanzie). Mentre si può essere sicuri che la via del potere politico globale non sia la stessa di quella degli stati nazionali, è difficile dire, allo stato magmatico attuale, quale essa potrà essere. Questo sarà uno dei più affascinanti problemi dei prossimi anni". Infatti, se la cauta conclusione potrebbe essere sintomatica sia dell’abbandono della metafora dell’arena, che della piena consapevolezza della necessità di uscire fuori dalla visione statocentrica, rimane pur sempre da chiarire in che senso le due formule con le quali si riassume il regime politico e l’organizzazione dei poteri siano "componenti essenziali" dello stato, cioè, occorre chiarire se comunità e regime siano la stessa cosa, oppure se sia il regime costitutivo della comunità o, viceversa, se sia la comunità principio e fine del regime. Solo in quest’ultimo caso avrebbe senso parlare di "arena comune", purchè, tuttavia, si recuperi anche l’accezione oggettiva di politica come intelligenza dialettica di ciò che, appunto, è comune e ciò che è diverso (per la fondamentale distinzione tra comunità e regime e sull’intelligenza politica cfr. F. Gentile, op. cit.). Infine, si possono sollevare alcuni dubbi sul concetto stesso di arena. Esso rinvia implicitamente a quello di lotta, in cui, come avviene generalmente, prevale il più forte. E l’Autore ne è certamente conscio quando parla della "pressione degli interessi". Ma allora, non è chiaro se tale paradigma sia in grado di inquadrare, comprendere e giustificare, sulla base di principi giuridici, anche i grandi mutamenti istituzionali, compresi quelli causati dalla forza odalla mera effettività del potere. Perché altrimenti i modelli costruiti con un’analisi e una ricognizione condotti con procedimento induttivo finiscono col celebrare semplicemente il fatto compiuto. E se è latente il rischio che i "nuovi paradigmi si possano prestare ad abusi, consentendo una facile manipolazione di istituti giuridici disponibili e "porosi", sotto la pressione degli interessi", allora, che fine fa la "armonizzazione spontanea degli interessi individuali"? Del resto, il vasto utilizzo della terminologia economica – "commercio delle regole e dei principi ordinatori", "law shopping", "benchmark", paradigma della "mercatizzazione" delle istituzioni, scambio, arbitraggio tra gli stati (cioè, "analisi di mercato" degli stati, delle amministrazioni e dei loro ordinamenti giuridici eseguite dalle imprese "in modo da verificare" quali tra questi "è più conveniente "comprare""), e quelli connessi di "offerta di diritto" e "domanda di diritto" – andrebbe giustificato per non cadere nell’accusa di ideologia di marxiana memoria. E proprio per questo si dovrebbe chiarire, come detto sopra, in che senso gli ordinamenti pubblici globali "non sono strumento della globalizzazione, ma mezzo per tenerla sotto controllo".
Sintetizzando, se il giurista non vuole ridursi a mero "metabolizzatore della forza vincente", alla "celebrazione sociologica del fatto compiuto", deve disporre di un criterio di giudizio sulla base del quale poter giudicare e distinguere il potere di fatto dal fatto del potere (sull’importanza e le implicazioni di tale distinzione cfr. U. Pagallo, Alle fonti del diritto, Torino, 2002). Altrimenti, bisogna dare ragione a Marx e a tutte quelle tesi che, dai tempi di Trasimaco identificano il diritto con l’utile del più forte.

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