CENNI STORICI SULLA COLPEVOLEZZA «FONDANTE» E SULLA COLPEVOLEZZA «GRADUANTE»*
di Mauro Ronco
Università degli Studi di Padova

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1. Generalità: facoltà sensibili e facoltà razionali alla base dell’agire umano.

E’ convinzione diffusa che la libertà dell’uomo nel mondo, come progetto e come compito, sia estranea alla determinazione della struttura del reato. La libertà, al massimo, viene concessa come presupposto negativo, nel senso che l’assenza di fattori patologici che mettono in discussione la normalità psichica della persona costituirebbe un mero presupposto della colpevolezza, ovvero, ancor più riduttivamente, un presupposto necessario per l’applicazione della pena. E’ mia convinzione, invece, che la considerazione della libertà come realtà ontico/etica sia indispensabile per la comprensione corretta del reato a parte animi, cioè della componente personale del fatto e, dunque, per la descrizione completa del reato. Peraltro, soltanto la considerazione ontico/etica del dispiegarsi della libertà nel mondo può correttamente spiegare sia le ragioni della punibilità della colpa, sia la somiglianza e, insieme, la differenza del dolo rispetto alla colpa, spiegare, in altri termini, l’analogia che caratterizza le realtà espresse da tali concetti. L’analogia, di cui si avvale la mente come strumento di conoscenza degli enti, scopre gli elementi di somiglianza e di differenza tra essi. Sul piano delle scienze pratiche fornisce la base per decidere se nella disciplina giuridica debbano prevalere gli elementi di differenza o quelli di somiglianza e, dunque, se il trattamento normativo di situazioni insieme differenti e somiglianti debba essere identico o differenziato. Così è per il tema del dolo e della colpa. Tra le due realtà vi sono somiglianze e differenze. E’ conveniente trattare la colpa in modo simile al dolo con riferimento alle situazioni in cui le somiglianze sono più significative delle differenze; occorre, invece, adottare il criterio opposto con riferimento ai rapporti e alle relazioni per le quali le differenze sono più significative.
Il nostro discorso implica che la scienza penalistica e la pratica giudiziaria tornino a considerare, ai fini dell’imputazione del reato, oltre al tema della relazione tra gli effetti e la condotta, altresì il tema dell’appartenenza dell’azione al soggetto. L’appartenenza dell’azione può predicarsi a due distinti livelli, uno più esteriore e l’altro più interno al soggetto. L’azione appartiene al soggetto quando essa è propria di lui, nel senso che il soggetto ne è autore in senso stretto. Il che accade quando il movimento o l’inerzia sono propri di lui, scaturiscono da un suo impulso volontario, e non sono l’espressione esteriore di una forza fisica, interna o esterna, superiore al soggetto e da lui non dominabile. Ovvero quando il movimento o l’inerzia avrebbero potuto essere impediti dal soggetto con il dispiegamento normale della sua energia volitiva, vuoi per impedire il movimento vuoi per innescare l’impulso volontario a compiere il movimento. Questa è l’autoria, cioè l’impedibilità del movimento o la superabilità dell’inerzia per l’iniziativa del soggetto.
La dottrina più moderna, riscoprendo una siffatta costellazione di situazioni, ha costruito su di essa la categoria dell’imputazione oggettiva, distinta tanto dalla causalità quanto dalla colpevolezza. L’imputazione oggettiva non deve sostituire né la categoria della causalità né quella della culpa, come colpevolezza; essa, ben delimitata, è una categoria intermedia che consente di riconoscere come non propria del soggetto quella condotta che, pur naturalmente e logicamente causale rispetto all’evento, si estrinseca nel mondo in forza di un potere, interno o esterno al soggetto, che quest’ultimo non è in grado di controllare. Non è un’invenzione moderna, ma la semplice riproposizione dell’idea aristotelica dell’autoria, che l’azione è propria dell’uomo soltanto quando scaturisce da un suo impulso volontario, ovvero quando, pure non scaturendo da tale impulso, essa è dominabile dalla volontà del soggetto, cui viene ugualmente imputata perché l’uomo ha posto in essere liberamente la causa immediata del suo agire volontario o perché avrebbe potuto, con uno sforzo di attenzione e di volontà, impedire il movimento o superare l’inerzia.
Nel lessico codicistico l’autoria appare all’art. 42, co. 1° del codice sotto la terminologia di coscienza e volontà dell’azione o dell’omissione. Si intende con ciò che l’imputazione postula come sua base essenziale la presenza di una condotta spontanea dell’uomo, cioè propria dell’uomo, cioè non costretta, esteriormente o interiormente, da forze che non sono da lui dominabili. La condotta di cui parla l’art. 42, 1° co. esprime il concetto di autoria: occorre, affinché vi sia punibilità, che la condotta spesa nel mondo sia una condotta tipica dell’uomo, proveniente dalla sfera lucida del cervello e sgombra da costrizione alcuna. Sono condotte coscienti e volontarie quelle inerzie e quei movimenti che trovano la loro causa in un impulso motore proveniente dal soggetto.
Questa condotta è un frammento iniziale della condotta reale; indispensabile perché quest’ultima sia sottoposta a valutazione giuridica; ma è sempre e soltanto lo spezzone iniziale di una azione più ampia, con la quale la volontà dell’uomo si apre all’orizzonte del mondo. La condotta che si apre a questo orizzonte e che lede un bene giuridico è necessariamente dolosa o colposa, perché dolo e colpa sono le connotazioni qualitative del disvalore giuridico dell’agire. Lo sforzo analitico del legislatore, che ha attribuito uno spazio autonomo alla forza maggiore, al costringimento fisico, all’incoscienza involontaria, al fattore fortuito che provoca l’agire involontario addita all’attenzione dell’interprete un frammento del reale e non il reale tutto intero dell’azione umana. Invero, non sono proprie dell’uomo le azioni o le omissioni che non scaturiscono da un impulso volontario. Tuttavia, affinché le condotte siano apprezzabili sul piano morale e giuridico, non è sufficiente che il movimento o l’inerzia trovino la loro origine in un impulso volontario. Anche le appetizioni sensibili degli animali sono coscienti allorché sorgono da un moto della sensibilità interna. Il leone che afferra la gazzella per soddisfare l’appetizione sensibile della fame è portatore di un movimento cosciente che scaturisce da un impulso interno; pertanto, tiene un comportamento «cosciente» e «volontario», se si dà della nozione di «coscienza» una spiegazione nel senso di mera rappresentazione della realtà esterna e della nozione di «volontà» una spiegazione nel senso di impulso spontaneo al movimento non costretto da una forza cogente superiore. Nelle azioni umane v’è ben di più che l’associazione delle sensazioni e il coordinamento delle stesse verso il medesimo oggetto rappresentato, con il successivo movimento che soddisfa l’appetizione sensibile. Il mondo del volontario umano è assai più complesso e articolato e rinvia a una serie di componenti di ordine superiore alla sensazione, alla percezione, all’impulso al movimento o all’inerzia corporea. Al di sopra della sfera delle potenze psico-vitali, in qualche modo simili nell’uomo e nell’animale (ma, in ogni caso, diversamente operanti, perché sulla sfera psico-vitale dell’uomo interagiscono sempre le potenze superiori che a lui soltanto appartengono), vi è la sfera delle potenze psico-noetiche e di quelle specificamente personali, che si è soliti designare in modo sintetico con i concetti di intelletto e di volontà. Certo, v’è corrispondenza analogica tra le sensazioni e le rappresentazioni; tra gli impulsi e i motivi; tra le tendenze e gli scopi. Ma le rappresentazioni non si riducono alle sensazioni; i motivi agli impulsi; gli scopi alle tendenze, anche se tra ciascuna coppia di concetti sussiste una certa analogia. Più ancora, al di sopra del campo psico-noetico v’è la sfera, propriamente e specificamente umana, della libertà: ora, la componente soggettiva del reato, meglio, il reato a parte animi trova la sua radice proprio nella sfera personale, o della libertà, dell’uomo. E’ evidente che, in una rappresentazione a strati, non errata, ma certamente incompleta dell’uomo, occorre ricercare, prima della libertà, le sensazioni, poi le rappresentazioni, poi gli impulsi emotivi, infine le tendenze e gli scopi. Senza passare attraverso i singoli stadi non è possibile trovare la sfera del volontario eticamente e giuridicamente significativo. E’ ovvio che non può sottoporsi a pena la condotta che sia stata frutto di un costringimento fisico o di un ottundimento interiore della coscienza; ma non basta, per la valutazione etica e giuridica, che la condotta sia cosciente e volontaria, nel senso riduttivo di condotta non contrassegnata nella sua origine dallo stigma dell’ottundimento interiore o della violenza esterna. Occorre che la condotta sia stata spesa dalla persona come espressione di un suo libero impegno nel mondo, che prende le forme, allorché l’oggetto dell’azione integra una lesione a un bene giuridico, del dolo o della colpa, cioè della culpa in senso ampio, come volontario allontanamento dal bene, conosciuto intrinsecamente dal soggetto e additato come obbligatorio dalla norma.
L’ordinamento giuridico penale ripudia la responsabilità oggettiva. Per evitarla in guisa veramente radicale occorre considerare non soltanto il profilo della imputatio ad effectum, quindi la relazione della condotta all’evento, ma altresì il profilo dell’imputatio ad actum, cioè il legame tra il soggetto e il proprio atto esteriore, che deve essere di tal natura da esprimere propriamente il carattere personale dell’agire.

2. L’abbandono del profilo razionale dell’agire e le sue conseguenze sull’universo penale: il rifiuto dell’imputazione morale a fondamento della punibilità.

Il diritto penale dell’ ‘800 e del ‘900 è debitore, più di quanto si pensi abitualmente, a Paul Johann Anselm Feuerbach, che nel 1799-1800 pubblicò un’opera, divisa in due parti, significativamente intitolata “Revision der Grundsätze und Grundbegriffe des positiven peinlichen Rechts” .[1] Revisione, dunque, cioè messa in discussione dei concetti tradizionali del diritto penale e sua ricostruzione su nuovi princìpi. Una cosa non da poco, evidentemente, se si pensa che i princìpi e i concetti del diritto penale non erano all’inizio del diciannovesimo secolo una cosa recente, ma affondavano le loro radici in un discorso, sull’uomo e sulla sua vita in società, svolto ininterrottamente da e per secoli. Feuerbach dimostra una intelligenza sistematica e una organizzazione logica del pensiero veramente notevoli. Per un verso, egli è sostenitore quasi ingenuo dell’immagine del mondo e dell’uomo formatasi nell’ambito della corrente illuministica francese, sensistica quanto a teoria della conoscenza, materialistica quanto a orizzonte metafisico, deterministica sul piano della ragione pratica. Per altro verso Egli trova nella teoria dei due mondi di Immanuel Kant, quello fenomenico e quello noumenico, definiti rispettivamente come mondo della necessità e come mondo della libertà, la soluzione del problema del diritto in generale e del diritto penale in specie .[2] Il mondo del diritto appartiene rigorosamente e ineludibilmente alla necessità. Soltanto nell’esperienza morale v’è spazio per la libertà. Il diritto è sottoposto alla legge della necessità; il modello dell’uomo giuridico è quello dell’uomo schiavo delle sensazioni e degli impulsi che da esse scaturiscono. Modello che il naturalismo illuministico, soprattutto di scuola francese, aveva codificato. Ogni contaminazione tra il mondo giuridico e quello morale deve essere bandita.

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