IL QUARTO ASSENTE
A proposito della fenomenologia del terzo in E. Lévinas.
di Ugo Pagallo
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È apparso recentemente il secondo volume di Massimo Durante, incentrato sul pensiero di Lévinas: Fenomenologia della legge. La questione del Terzo nella filosofia di Emmanuel Lévinas (Thélème, Torino 2002). Si tratta di una articolata e complessa ricostruzione della riflessione del filosofo francese, che getta chiara luce su alcune delle aporie e le ineliminabili difficoltà cui, a mio giudizio, va incontro questa riflessione.
Il nocciolo della questione emerge sin dal titolo. Per un verso, infatti, Lévinas ha il merito di aver affrontato i complessi motivi dell’etica e dell’ordinamento giuridico e politico, lasciandosi alle spalle la tentazione moderna di ridurre il significato della legge, ora, a mero atto di volontà e/o a semplice regola d’azione (pag. 30 ss.), ora, a limite della violenza e dell’arbitrio intersoggettivo (pag. 40 ss.), ora, secondo quella tradizione di pensiero che da Rousseau giunge sino a Kant, come atto di autonomia e condizione di libertà (pag. 35 ss.). Seguendo il percorso interpretativo suggeritoci da Durante, Lévinas propone piuttosto, attraverso il tema della "legge", il classico problema del principio di misura comune (pag. 57 ss.) che dischiude l’ordine di giustizia inteso come "iscrizione del limite" (pag. 64 ss.).
Questa apertura alla dimensione classica dell’esperienza giuridica, d’altro canto, risulta però condizionata da un pregiudizio concettuale del tutto "moderno" e che, fenomenologicamente, si ritraduce nella figura della terzietà. Alla lettera, in effetti, il Terzo, come ben sapevano gli antichi Romani, è colui che ters-stes, è, cioè, il Teste, il Testimone, che è presente con il consenso delle parti, e che, come tale, come "terza parte", assiste all’affare tra due soggetti. Riformulando il concetto con le parole di un testo sanscrito, possiamo anche dire che "tutte le volte che due persone sono in presenza, Mitra è là come terzo" (si v. E. BENVENISTE, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, vol. II: Potere, diritto, religione [1969], tr.it. Einaudi, Torino 1976, p. 495).
Come testimone o teste, la figura del terzo va dunque accuratamente distinta dall’originaria figura di chi, in quanto arbitro, giudica (che, più spesso, sarà l’identificazione cui giungeranno poi i "moderni" a partire da Hobbes). Laddove, nella prospettiva more geometrico constructa dell’ordinamento, la funzione dell’arbitro nasce dall’arbitrio, poiché, con il filosofo di Malmesbury, auctoritas non veritas facit legem, in realtà, l’arbitrio non è che il risvolto degenerativo di un "arbitrare" più originario. Se infatti, come testimonia l’Aulularia di Plauto, arbitrari significa essere testimone, tuttavia, a differenza della figura del teste come terzo, l’arbitro è colui che vede (l’una e l’altra parte) senza essere visto. Questa "presenza" che si sottrae al consenso come semplice convergenza di volontà, è, cioè, la condizione affinché l’arbiter sia iudex, decidendo sine ira et studio il caso. Per cui, come tipo particolare di iudex, l’arbiter può svolgere la funzione di apprezzare il valore dell’oggetto di una controversia: arbitrium litis aestimandae.
D’altro canto, sul piano strettamente filosofico, la figura del Terzo e, più in particolar modo, del "terzo uomo", appare già esposta, nei dettagli, da Aristotele nella Metafisica (v. infatti 1079 a 13 e cfr. con 990 b 17), presentata, peraltro, come una "delle più rigorose argomentazioni" all’interno dell’Accademia. Pensiamo, solo a titolo d’esempio, a quello straordinario dialogo di Platone che è il Parmenide, in cui il deuteragonista, il "venerando e terribile maestro", confuta Socrate e la nozione che esista un "grande in sé" – si tratta della dottrina delle Idee di Platone – in quanto, ammesso che esista un "grande in sé" comune a tutte le cose grandi che sono, tuttavia, per ciò stesso dovrà esistere anche un’ulteriore forma di "grande" – il Terzo – comune al "grande in sé" e alle molte cose "grandi". Ma, prosegue ancora Parmenide, questo Terzo avrà bisogno di un’ulteriore forma di "grande", il Quarto, comune sia alle molte cose grandi che sono, sia al grande in sé, sia rispetto al Terzo, dando così luogo a quanto, con lessico hegeliano, possiamo definire die schlechte Unendlichkeit (Parmenide, 131 e 8 ss.). Quanto, cioè, i discepoli e gli allievi di Platone avrebbero compendiato all’insegna dell’"argomento del terzo uomo", è quel tipo di ragionamento che noi "moderni" designiamo ancora oggi come "regressione all’infinito".
Avendo presenti queste necessarie premesse d’ordine teoretico e storiografico, giunge quasi naturale la domanda. Come mai, più spesso, i "moderni" hanno individuato nella figura del Terzo, la chiave di volta, non solo dell’etica, come in Lévinas, ma, soprattutto, come in Alexandre Kojève, il criterio di demarcazione del giuridico? (Per la centralità della figura del Terzo in Kojève, basti v. Linee di una fenomenologia del diritto [1943], tr.it. Jaca Book, Milano 1988, ripresa per molti aspetti, sotto un profilo funzionalistico, dalla Critique de la raison dialectique di Sartre).
Come mai, in altri termini, si è sostituita con la centralità fenomenologica del terzo, da Kojève a Levinas, la classica configurazione della giustizia come INSIEME QUATERNARIO che, sia pure a titolo diverso, e per ragioni teoretiche spesso antitetiche tra loro, ritroviamo in Pitagora, Platone e Aristotele? Perché mai, ad esempio, nell’Etica Nicomachea, leggiamo che "necessariamente dunque il giusto comporta almeno QUATTRO elementi"? (1131 a 19).
A nostro avviso, la risposta va ricercata innanzitutto a partire da Hobbes e dal tentativo di neutralizzare formalisticamente l’argomento di Trasimaco, tramite la figura del Sovrano. Solo un "dio mortale" può incarnare l’esigenza di un Terzo unico che sia, al tempo stesso, l’Unico terzo. Naturalmente, da Kojève a Levinas, l’argomentazione, rispetto a Hobbes, è diventata, se possibile, meno scoperta o più smaliziata. Ma, al pari di Hobbes, la logica sottesa al Terzo, per propria natura, conduce a dover riflettere su di un ulteriore elemento, che, nel lessico neo-pitagorico oggi in voga, non può che essere espresso, evidentemente, con la figura di un Quarto! (Per il filosofo di Malmesbury cfr. il famoso "sistema-a-cristallo" di Carl Schmitt con la parte superiore della figura "aperta alla trascendenza": Veritas: Jesus Christus, in Il concetto di ‘politico’ [1932], tr.it. in Le categorie del ‘politico’, Il Mulino, Bologna 1972, p. 151).
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