IL “PROBLEMA MULTICULTURALE”
TRA SOCIOLOGIA, FILOSOFIA E DIRITTO:
UN APPROCCIO COGNITIVO
di Giovanni Bombelli*
Università Cattolica “S. Cuore” – Milano
In sostanza, “il dialogo è sempre, insieme, invocato e naufragato”, anche se “ricompare tra le righe del racconto stesso della sua impossibilità”, come “polemica contro il monologo della modernità”, contro “la lingua unica di un certo Occidente” (compreso il tessuto comunitario: “Il dialogo amicale/comunitario non risulta così troppo distante dal monologo della ragione indifferente della modernità. Al monologo vuoto e formale (l’universale) della Ragione si sostituisce adesso il monologo pieno e concreto (il particolare) della comunità”). Se, quindi, in una società “relativamente omogenea il dialogo evidenzia perlopiù la dimensione amicale della condivisione di valori e di cultura”, in una società pluralistica e complessa “il dialogo sociale incontra invece delle difficoltà crescenti”: tuttavia “il problema del dialogo diventa la sua stessa possibilità”, nel senso che il pluralismo “costringe a prendere il dialogo sul serio; e a considerare che si richiedono forse delle forme più duttili e più varie di pr atica”. In conclusione, “la possibilità impossibilità del dialogo nasconde un’impossibile possibilità”, e, quindi, “il logos del dialogo è spezzato perché perde il carattere univoco, monosignificante, o culturalmente preferenziale e dominante; perché non è mono-logo: dia-logo.[…]Il logos è condiviso perché vive nella pluralità, in forza della pluralità.” (corsivi nel testo).
46 Sul tema della “reciprocabilità” della relazione dialogica si veda, ad esempio, B. Montanari, Potevo far meglio? Ovvero Kant e il lavavetri. L’etica discussa con i ventenni, Cedam, Padoa, 20083, in particolare cap. 2 e Id., Libertà, responsabilità, legge, in Id. (a cura di), Luoghi della filosofia del diritto. Un manuale, Giappichelli, Torino, 2009, pp. 27-63, passim; S. Amato, Identità umana e processi di identificazione politica. Il problema della reciprocità, in C. Vigna – S. Zamagni (a cura di), Multiculturalismo e identità, Vita e Pensiero, Milano, 2002, pp. 293-317 (con attenzione particolare all’Islam).
47 Si veda, in particolare, E. Severino, La strada. La follia e la gioia, Bur, Milano, 1983, p. 57, per il quale “un unico senso della cosa è giunto ormai a dominare i popoli della terra: il senso greco della cosa” (corsivi nel testo). Ma sul punto, ad esempio, rinvio anche, sempre del medesimo autore, a La legna e la cenere. Discussioni sul significato dell’esistenza, Rizzoli, Milano, 2000, pp. 9-10, e, in generale, alla produzione del filosofo bresciano.
48 Il riferimento va, in particolare, alla sua celebre Religionssoziologie: M. Weber, Sociologia delle religioni, UTET, Torino, 1976 (Tübingen, 1918).
49 Si veda il noto Il tramonto dell’Occidente. Lineamenti di una morfologia della Storia mondiale, Guanda, Parma, 2002 (Wien- München 1918-1922).
50 Al riguardo, oltre al già citato volume scritto con Charles Taylor, si vedano, a titolo paradigmatico, i saggi raccolti nel suo L’inclusione dell’altro. Studi di teoria politica, Feltrinelli, Milano, 1998 (Frankfurt am Main, 1996).
51 È vero, quindi, che “Habermas pretende troppo poco dalla sua concezione intersoggettiva dell’identità: secondo il filosofo tedesco, la normatività implicita nell’agire comunicativo dei soggetti è costituita soltanto di mere regole tecniche, di cui tener conto nella formulazione delle politiche di integrazione sociale. In altri termini, si tratta certamente di una forma di ‘intersoggettività’, ma che riguarda soltanto la strategia di giustificazione delle istituzioni fondamentali di una società giusta. Non è in gioco la sostanza dell’idea di libertà che, infatti, resta ancora individualistica.” P. Gomarasca, Identità e differenza nelle politiche multiculturali, cit., p. 44; tuttavia, se “la strada indicata da Habermas resta valida”, a patto di “svincolare il fondamento della morale dall’idea (kantiana) di libertà come autodeterminazione del soggetto[…][e]ancorarlo alle concrete relazioni intersoggettive”, permane problematica “quella ‘logica comunitaria’ che, essendo la struttura di ogni con-vivere umano, è autenticamente universale. È questa sostanza etica delle relazioni intersoggettive, è questa normatività pre-giuridica (e pre-culturale)[…]che la sfera del diritto ha il compito difficile di consolidare a livello istituzionale[…].” Ibidem, pp. 44-45 (corsivi nel testo). A mio avviso è proprio tale dimensione che va meglio sondata, cogliendone le dinamiche interne e, sulla linea di quanto invoca l’Autore, la sua complessa articolazione a livello giuridico (come ho cercato di proporre in “Comunitarismo” e “comunità”, cit., passim).
52 Mutuo l’espressione da M. Marassi, L’universale transculturale, in V. Cesareo (a cura di), L’Altro. Identità, dialogo e conflitto nella società plurale, cit., pp. 45-56, il quale, proponendo l’“universale transculturale” come “principio regolativo del multiculturalismo”, da egli essenzialmente identificato con la “dignità umana”, vede in esso l’“espressione di una struttura originaria dell’esperienza che non è né singolare né plurale, bensì comune[…], previa al sorgere dell’«io» e del «tu».” Infatti, se il multiculturalismo “è evidentemente e in prima istanza un problema sociologico, dal punto di vista filosofico invita a riconsiderare quelle categorie, presunte assolute e incontrovertibili, che in passato hanno permesso di assolutizzare il valore culturale dell’Occidente tanto da giudicare ogni diversa cultura come inferiore e quindi semplicemente da sottomettere e sfruttare fino all’estenuazione.” In sostanza: “Indico con universale transculturale una norma che, sebbene in sempre diverse configurazioni , è oggettivamente e realmente operante.[…][Di conseguenza]il contenuto dell’universalità non può essere identificato stabilmente e per sempre e la sua forma sarà sempre soggetta a revisione.”
53 Sulla necessità di “un rinnovato pensiero dell’identità relazionale o della differenza identitaria, cioè dell’insuperabile relazione di identità e differenza” insiste F. Botturi, Etica e politica dell’alterità, in V. Cesareo (a cura di), L’Altro. Identità, dialogo e conflitto nella società plurale, pp. 69-81 (citazione da p. 70). Dall’impostazione dell’Autore divergo, però, su due punti: circa la nozione di “religiosità” e in merito alla dimensione narrativa.
Riguardo alla prima, ritengo, infatti, che “la compossibilità degli identici-differenti, come nel caso della convivenza delle culture”, non trovi “in un’autentica religiosità la sua massima possibilità”, bensì, come si è cercato di argomentare, nella “questione del senso” (a meno di far coincidere quest’ultima, ma in che senso, con l’“autentica religiosità”): si veda ibidem, p. 70, n. 35.
Riguardo alla dimensione narrativa, mi pare sia da discutere la centralità ad essa conferita, se intesa come “circolo dell’interpretazione narrativa” che “include sé e l’altro come momenti di un unico avvenimento sempre in atto”, nel senso che “il potere del riconoscimento si esercita come interpretazione di altri e da parte di altri”, per cui “la stessa situazione ermeneutica dei soggetti e delle loro comunità è cosa sicuramente universale” (ibidem, pp. 71-75, corsivi nel testo). A me pare che la stessa dinamica narrativa, anche nei suoi riflessi identitari, muova, in realtà, da una più originaria questione del senso: altrimenti, in cosa si radica l’operazione antropologia del narrar(si)? Peraltro, occorre guardarsi da una certa retorica della “narratività”, che può indulgere a certe criptoassolutizzazioni delle “tradizioni” (come a mio avviso avviene, nonostante le apparenze, in alcuni autori come MacIntyre ivi citato: p. 75; ma sul punto si veda anche ivi, p. 74, n. 40). Su MacIntyre, anche per l’ultim o profilo menzionato, mi permetto di rinviare al mio “Comunitarismo” e “comunità”, cit., in particolare i capp. 2-3.
54 Sul punto rinvio alle pregnanti considerazioni proposte in V. Melchiorre, Quale dialogo? Quale tolleranza?, in V. Cesareo (a cura di), Per un dialogo interculturale, cit., pp. 3-11, che, impostando la questione in termini radicalmente filosofici, fonda la “tolleranza” situandola “fra l’astrazione perversa di verità totalitarie e quella altrettanto perversa della rassegnazione relativistica.” Ibidem, p. 11.
Condivido anche, in gran parte, i rilievi proposti in G. Cacciatore, Identità e filosofia dell’interculturalità, cit., benché formulati in rapporto all’interculturalità, in particolare ove si osserva che una filosofia “che voglia mostrarsi all’altezza delle radicali trasformazioni del mondo contemporaneo e che voglia contribuire alla comprensione e all’analisi della contraddizione di fondo che oggi si manifesta, in termini rinnovati, tra l’assolutismo dell’universalità astratta del pensiero unico della globalizzazione economica, sociale e culturale, e l’identità storica delle particolari individualità di popoli e società, non può che proporsi che come impegno etico, ma anche come impegno di discussione e rielaborazione delle classiche categorie filosofiche e dei tradizionali apparati concettuali.” (Ibidem, p. 235).
In particolare l’Autore, che, come detto, si riferisce soprattutto ad un’impostazione di carattere interculturale, osserva che quest’ultima “si pone consapevolmente come «mutamento di paradigma» filosofico, giacché la dimensione interculturale mette in campo non soltanto diversi e plurali profili sociologici e antropologici, ma anche differenziate prospettive teoriche. Viene così ad esser bandita ogni pretesa filosofica di carattere monoculturale[…]e si costituisce la prassi di un pensiero che dal riconoscimento del suo limite può aprirsi all’illimitata e tollerante concorrenza degli altri universali culturali.[…]Cosicché quel diritto ad una cultura propria che costituisce la condizione di possibilità della stessa relazione interculturale, è strettamente connesso ad un concetto di pluralità delle visioni del mondo. L’ampliamento di prospettiva da un’idea meramente filosofica di pluralismo delle Weltanschauungen a una pratica storica ed etico-politica della interculturalità può esser dato proprio dalla gar anzia che ogni cultura può pretendere della trasformazione delle proprie visioni del mondo in mondi reali.” (Ibidem, p. 239; così pure, alla pagina successiva, si rileva: “Naturalmente è possibile subito scorgere il nesso che lega la dimensione conoscitiva ed epistemologica che il rapporto particolarità/universalità assume nella filosofia interculturale con la dimensione etica, giacché il concorso delle pratiche e dei saperi attivati dall’interculturalità[…]si rivolge essenzialmente alla finalità di una vita umana degna di essere vissuta.”).
In sintesi: “Ha dunque ragione Panikkar quando insiste a segnalare la differenza tra interculturalità e relativismo culturale (o, peggio ancora, indifferenza culturale). Possono esserci, egli osserva, «invarianti umane», ma la loro struttura assume il carattere proprio della trascendentalità, nel senso che le invarianti possono essere percepite soltanto nella dimensione storico-empirica di «universali culturali».” (Ibidem, p. 242, corsivi nel testo: ivi, alla nota 14, il riferimento a Panikkar). A mio avviso, tuttavia, l’evocato “mutamento di paradigma” non va inteso soltanto come confronto tra paradigmi, bensì come confronto sulla “questione del senso”.
55 Faccio mia quindi, pur non condividendo l’impostazione interculturale, la posizione di “quegli esponenti della filosofia dell’interculturalità (Fernet, Betancourt, ad esempio) che prendono decisamente le distanze dalle classiche impostazioni analitiche ed ermeneutiche, nel senso che non appaiono più sufficienti né solo la coerenza logico-linguistica né solo le procedure della comprensione.” Ibidem, p. 237.
56 In questa direzione ci si distingue anche da quanti, pur osservando che la questione “tendenzialmente non è sud-nord o est-ovest, ma globale”, auspicano la “costruzione di un’identità globale (universale individuale) oltre l’assimilazione e la società multietnica locale. Un’identità universale individuale come base delle regole di tolleranza e di democrazia tipiche delle società moderne[…][e diversamente] dalle «radici cristiane» irreversibilmente limitate dall’universalismo escludente della verità e dal proselitismo a senso unico.” G. Mari, Crisi del multiculturalismo e radici universali dell’Europa cit., p. 37. La controproposta che si va formulando in queste pagine intende, invece, superare sia la nozione di “identità globale”, sia il suo presupposto logico (la distinzione universale-individuale) che l’Autore formula rileggendo alcuni snodi del pensiero moderno (Machiavelli, Lutero, Humboldt, Tocqueville, Mill) i quali configurerebbero “una preoccupazione universale ispirata ad un universalismo non sos tanziale” (ivi p. 33, corsivi nel testo). Se la questione del senso si dà in modo universale, l’identità non può che definirsi, in relazione a tale domanda fondativa e sostanziale, in modo universale.
57 C. Taylor, Gli immaginari sociali moderni, Meltemi, Roma, 2005 (London, 2004), pp. 185-186 (sul punto si veda anche il mio Una chiave di lettura. Per un’introduzione, cit., p. 31, n. 55).