IL “PROBLEMA MULTICULTURALE”
TRA SOCIOLOGIA, FILOSOFIA E DIRITTO:
UN APPROCCIO COGNITIVO
di Giovanni Bombelli*
Università Cattolica “S. Cuore” – Milano
È qui che prende corpo la vera “questione multiculturale”. Se è vero infatti, come qualcuno ha osservato, che la civiltà occidentale si origina dal modo greco di concettualizzare la “cosa”, [47] ciò che si prospetta è appunto il progressivo tramonto, o almeno la ridiscussione, di tale orizzonte teoretico, nel confronto con modelli cognitivi (o Weltanschauungen) radicalmente alternativi. In altri termini: ciò che è in discussione sono proprio le modalità occidentali di categorizzare il reale.
Del resto, e ben prima del dibattito attuale (dominato dal filosoficamente debole pensiero communitarian e dalle tesi neolluministe), la questione era già stata intuita, pur con tonalità diverse, ai primi del Novecento, ad esempio da autori come Max Weber [48] e Oswald Spengler[49] (peraltro quasi mai menzionati nel dibattito sul multiculturalismo).
In prospettiva, ciò innesca, ovviamente, una potenziale riarticolazione dell’intera famiglia occidentale dei saperi (filosofia, scienza, ecc.), e, quindi, della stessa nozione di “diritto”. La demarcazione, ad esempio, di quest’ultimo rispetto ad ambiti quali l’etica e la sfera religiosa, faticosamente guadagnata in epoca moderna, dovrà misurarsi con contesti (quali ad esempio quello islamico) in cui tali distinzioni appaiono meno salde.
Ma è a questo livello che si apre, in secondo luogo, il possibile spazio di confronto tra modelli cognitivi. Prima ancora che in chiave istituzionale, tale confronto va infatti articolato sul piano antropologico. I nuovi modelli di concettualizzazione della realtà, come del resto è sempre avvenuto nei rapporti tra “civiltà”, circolano, infatti, e passano attraverso la dinamica dei rapporti interpersonali e delle reti relazionali: la “questione multiculturale”, quindi, si intreccia con (e si traduce in) una “questione antropologica” o, più precisamente, antropologico-filosofica.
Qui si situa, in terzo luogo, il punto-chiave di quanto si va dicendo. Se, come appena osservato, in ultima analisi la “questione multiculturale” si risolve in una “questione antropologico-filosofica”, la dimensione (o orizzonte) propri dell’incontro-confronto tra sistemi culturali non può che essere costituito dalla questione del senso. Chiarisco il punto.
Ogni sistema “culturale” (stricto sensu) si confronta con tale sfondo concettuale, nel senso che, come già osservato, ogni costellazione socio-simbolica si caratterizza, come suo elemento dominante, per l’elaborazione di una lettura della realtà. Anzi, a ben vedere, sotto questo profilo lo scenario occidentale appare del tutto peculiare rispetto ad altri contesti: ormai incapace di articolare (a livello privato e pubblico) ogni problema di senso, l’Occidente sembra ormai risolverlo in via prassistico-funzionalista, e, cioè, come mera legittimazione gestionale del “dato”.
Contro questa “afasia”, spesso superficialmente intesa come “nichilismo” e che si profila come il vero tratto culturalmente distintivo dell’Occidente, occorre invece rimarcare come la “questione del senso” sia assolutamente decisiva. Non solo perché essa è in grado di aprire ad un’autentica prospettiva di “pluralismo”, ma perché evidenzia la radicale insufficienza, se non la natura datata, di alcune prospettive anche molto celebrate, come, ad esempio, quella già menzionata di Jürgen Habermas, sulla quale mi pare opportuno soffermarmi brevemente.
Sul piano teorico, infatti, la proposta formulata dal teorico tedesco [50] appare criticabile sia riguardo al suo impianto complessivo, sia in relazione ai riflessi socio-giuridici che ne derivano.
Sotto il primo profilo, il discorso di Habermas si impernia su un modello occidentale di “razionalità”, di matrice neoilluminista, ormai largamente discutibile e che, invece, il filosofo tedesco assume come autoevidente.
Ciò inficia, in secondo luogo, la validità dei corollari che, sul piano socio-giuridico, l’autore tedesco deduce da tale modello, soprattutto per quanto attiene alla dimensione comunicativa e il ricorso allo strumento giuridico.
Da un lato, infatti, Habermas sembra affidare esclusivamente allo strumento dialogico-comunicativo la via di soluzione del rapporto tra “culture”. In realtà, a prescindere dalla problematicità intrinseca della figura del “dialogo” di cui si è detto, e che Habermas non sembra tematizzare, è l’approccio habermasiano alla sfera linguistica che va rovesciato. In altri termini, non è la comunicazione in sé, e cioè la sua struttura trascendentale (auspicata da Habermas ma anche, in altra chiave, da Apel), a garantire, o facilitare, il “riconoscimento” reciproco tra “culture”. Semmai, ciò che veramente rileva, e accomuna, è l’orizzonte sotteso al comunicare e, cioè, il problema del senso. In una battuta: è il problema del senso ad aprire la comunicazione, non viceversa.
[51] Ne consegue che ad apparire discutibile è anche l’appello di Habermas alla sfera giuridica (cui il filosofo tedesco sembra conferire eccessiva centralità), e, segnatamente, all’apparato democratico, soprattutto ove quest’ultimo venga inteso come una sorta di articolazione, a livello istituzionale, della dimensione comunicativa. In realtà, come si accennava in precedenza, sul lungo termine la “questione multiculturale” è in grado di determinare un processo di profondo ripensamento anche dello strumento democratico in sé, sia sotto il profilo operativo- funzionale, sia, e soprattutto, per quanto attiene alle sue radici razionalistico-occidentali.
Questi rilievi consentono, inoltre, di riprendere un profilo della posizione di Charles Taylor già accennato in precedenza. Appare evidente, infatti, che, nel contesto del ragionamento qui proposto, la “fusione degli orizzonti” auspicata dall’autore canadese sul piano teoretico non ha ragion d’essere. Al contrario, ciò che è auspicabile è il mantenimento degli orizzonti: a ben vedere, infatti, è questa la condizione imprescindibile per un reale confronto tra “orizzonti” cognitivo-categoriali e, quindi, per l’autentico riconoscimento della “polidimensionalità cognitiva” di cui si va dicendo. La “fusione” evocata da Taylor, in realtà, deve vertere (come si accennava) sulla “questione del senso”, non sulle sue articolazioni storico-contingenti: l’incontro (o “fusione”) tocca, cioè, il problema, non le soluzioni puntuali.
Occorre, in sostanza, postulare una dimensione problematica universalmente comune la quale apre necessariamente a soluzioni (cognitivamente) particolari, ove peraltro entrambi i livelli si radicano a livello antropologico-identitario. Solo un’impostazione di questo genere consente di coniugare, senza cadere in sincretismi impraticabili, i due poli: da un lato, l’universalità della domanda (di senso), intesa come vero e proprio “universale transculturale”[52] ” o cornice e terreno comune, in tutte le sue molteplici e concrete articolazioni antropologico-esistenziali (identità, alterità, relazione, ecc. ); [53] e, dall’altro, la storicità delle possibili risposte.
Da ciò ne scaturisce, inoltre, che l’apertura a (e confronto con) altri sistemi culturali, o meglio ad altre antropologie, si configura propriamente come un dovere di carattere etico-cognitivo.
La consapevolezza del carattere universale del problema del senso non può, infatti, che spingere, da un lato, a riconoscere la relatività (non relativismo) della propria prospettiva, e, quindi, del contesto lato sensu comunitario (storicamente contingente) entro il quale essa viene elaborata e cui il singolo viene ascritto (o nel quale, comunque, si riconosce). D’altro canto, ciò fonda teoreticamente la piena legittimità della prospettiva dell’“altro”: se il senso si declina necessariamente in modelli storicamente determinati, ciò significa che quest’ultimi non sono in grado di esaurirlo.
[54] Quest’impostazione, va rimarcato, intende evidentemente distinguersi sia dall’approccio “interculturale”, che auspica il mero intreccio tra “culture” (analogamente a quanto prevede la “fusione degli orizzonti” tayloriana ), [55] sia dal “multiculturalismo” stricto sensu, il quale legittima, invece, la mera compresenza tra sistemi culturali. [56] Rimane aperto, infine, di là da ogni irenismo o prospettiva apocalittica, il problema della concreta traduzione in chiave giuridico-istituzionale di tale approccio che, in sé, fa riferimento ad un livello metacategoriale e, in qualche modo, pregiuridico. In questa linea si pensi soltanto, ad esempio, al profilarsi di una possibile riconfigurazione di alcuni istituti tipicamente “occidentali”, dalla nozione di “proprietà” (il diritto soggettivo par excellence) a quelli, strettamente apparentati, connessi alla ricerca scientifica (brevetti, ecc.), soprattutto se posti a confronto con modelli culturali (come quello indiano) nei quali tali figure giuridiche appaiono sostanzialmente sconosciute.
Ma in questa linea si rende, altresì, meglio comprensibile l’accennata necessità di un ripensamento dell’assetto democratico, che al momento appare ancora irrinunciabile, sia sul piano degli strumenti operativi, sia per quanto concerne la razionalità ad esso sottostante.
Si tratta, a ben vedere, di un ripensamento ormai in rebus, come del resto si evince dalla rapida trasformazione di alcune figure giuridiche che sostanziano il vivere democratico. Si pensi in conclusione, e ancora a titolo esemplificativo, all’idea di “famiglia”, e, per la sua carica identitario-antropologica, al diritto soggettivo costituito dalla “libertà di culto”.
Riguardo alla prima, l’attenzione va posta su due processi quasi contraddittori. Da un lato si registra l’emersione di modelli avvertiti come alternativi rispetto a quello “tradizionale” (ad esempio le cosiddette “coppie di fatto”), ma, in realtà, ancora interni alla sua logica. D’altro canto, in prospettiva potrebbe registrarsi l’istanza di riconoscimento (giuridico) per modelli di convivenza sentiti come radicalmente eterodossi rispetto alla recente storia occidentale (es.: famiglia poligamica) oppure la riproposizione, ma su altre basi, di modelli risalenti e ben conosciuti dalla nostra tradizione (famiglia patriarcale). Sono proprio tali processi che spingeranno a interrogarsi, o reinterrogarsi, sul senso della nozione universale di “famiglia”.
Ancora più delicato il punto relativo alla “libertà di culto” (o di preghiera) e l’esercizio del conseguente “diritto soggettivo”. È un tema, come noto, di grande rilevanza a livello esistenziale, oltre che molto “sensibile” in chiave multiculturale.