IL “PROBLEMA MULTICULTURALE”
TRA SOCIOLOGIA, FILOSOFIA E DIRITTO:
UN APPROCCIO COGNITIVO
di Giovanni Bombelli*
Università Cattolica “S. Cuore” – Milano
(anche se, come subito si dirà, tutte queste soluzioni hanno mostrato di essere profondamente problematiche).
La prima tipologia trova nell’impostazione “assimilazionista” francese la sua esemplificazione più chiara, anche perché essa evidenzia la tendenza del “pluralismo” a tradursi, in realtà, in un “monoculturalismo”. L’esperimento francese, infatti, pur originando da un orizzonte lato sensu pluralista di matrice illuminista, poggia, in sostanza, sull’idea di “ri(con)durre” le “differenze” (in particolare attraverso il sistema formativo-educativo) ad un modello culturalmente omogeneo.
La via “multiculturalista” ha trovato, invece, terreno fertile, per precise ragioni storiche, soprattutto in area anglosassone e, in particolare, nel Regno Unito. Quest’impostazione verte su un modello di società “a puzzle”, in cui, cioè, la contiguità o convivenza tra i vari modelli (o sistemi sociali) non solo è consentita ma, ancora di più, auspicata.
Infine, l’ipotesi “interculturale” può farsi grosso modo coincidere con la soluzione affermatasi negli Stati Uniti e sintetizzata attraverso la formula del melting pot, attraverso la quale si enfatizza l’interscambio tra “culture”. Si tratta, evidentemente, di una soluzione fortemente legata alla storia americana, e, cioè, alle vicende di una nazione sorta originariamente dall’intreccio di più matrici “culturali” (segnatamente europee).
Tuttavia, la concreta articolazione delle tre impostazioni appena accennate, che si potrebbero rispettivamente identificare attraverso la categoria dell’“assimilazione” (pluralismo-monoculturalismo), della “contiguità” (multiculturalismo) e dell’“interscambio” (interculturalità), ne ha evidenziato un tratto comune e, cioè, la progressiva usura. In tal senso, alcuni fenomeni di protesta sociale verificatisi negli ultimi anni, che hanno visto protagonisti immigrati di “seconda” o “terza generazione” (dalle banlieux parigine ai movimenti statunitensi di rivendicazione dell’identità etnica degli afro-americani) hanno evidenziato, pur in contesti e secondo gradualità diversi, i limiti di “tenuta” delle impostazioni considerate.
[26] Al di là delle soluzioni adottate, sul piano teorico il dibattito ruota, invece, essenzialmente intorno a un punto: la capacità, o meno, del modello liberal-democratico (egemone nelle società occidentali) di far fronte ad un quadro sociale del tutto innovativo, radicalmente inedito rispetto a quello “tradizionale” originatosi tra Seicento-Settecento e (se si prescinde dal “caso” americano) imperniato su una sostanziale omogeneità socio-culturale.
In merito si possono distinguere chiaramente due linee di pensiero.
Da un lato si collocano quanti vedono ancora nel modello liberale, di cui si auspica un significativo aggiornamento, il sistema migliore di articolazione delle identità, soprattutto in virtù della “neutralità” che ne caratterizzerebbe l’apparato. A questa linea si può ricondurre, ad esempio, la riflessione del già menzionato Will Kymlicka, ma anche, benché in chiave diversa, quella di Jürgen Habermas, che, notoriamente, annette grande rilevanza allo strumento giuridico e politico-istituzionale (segnatamente: la democrazia) in funzione dell’interazione tra le “differenze”.
[27] Ma, accanto a tale impostazione, va annoverata la linea di coloro che, pur accettando nel complesso l’impostazione liberale, ne propugnano una rilettura (e una riforma) radicale. In tal senso la posizione di Charles Taylor è paradigmatica della complessità, e delle contraddizioni, che affliggono il dibattito. Sono due i punti intorno ai quali ruota la proposta del filosofo canadese e che qui interessano più direttamente: la politica del riconoscimento e il liberalismo ospitale.
Nella “politica del riconoscimento” emerge innanzitutto l’istanza, o meglio, le “lotte” per il “riconoscimento” della “differenza”. [28] ”. Si tratta, in sostanza, di riscoprire le istanze del “riconoscimento” che fondano l’identità soggettiva, contro l’universalismo egualizzante che comporta la neutralizzazione delle “differenze”. Ciò significa che la mera tolleranza, o convivenza, tra le “culture”, come del resto una prospettiva interculturale che si affidi alla dinamica dell’intreccio spontaneo, appaiono a Taylor del tutto insufficienti.
Se infatti “dobbiamo riconoscere la particolarità e addirittura coltivarla”, occorre, allora, attivare positivamente una politica che ne garantisca la tutela. O, meglio, si tratta di far sì che “tutti riconoscano l’uguale valore di culture diverse”. [29] La richiesta, allora, è “di non lasciarle soltanto sopravvivere, ma di prendere atto che sono preziose”, poiché il fatto nuovo è che “oggi la richiesta di riconoscimento è esplicita; ed è stata resa tale[…]dalla diffusione dell’idea che è il riconoscimento a formarci.[…][T]utte [le] culture umane che hanno animato intere società per un lasso di tempo considerevole [hanno] qualcosa di importante da dire a ogni essere umano.[…][È] necessaria quella che Gadamer ha chiamato «fusione degli orizzonti».” [30]
A livello operativo, e istituzionale, il punto si lega al “liberalismo ospitale” propugnato dal teorico canadese. L’accettazione da parte di quest’ultimo dell’impianto liberale, infatti, non impedisce di condannarne la “cecità verso le differenze” (soprattutto nelle versioni “proceduraliste”) e di aprire, appunto, ad un “liberalismo ospitale verso le differenze”. Più precisamente, “un vero giudizio di valore presuppone[…]la fusione degli orizzonti normativi: presuppone che lo studio dell’altro ci abbia trasformato al punto che non giudichiamo più solo coi nostri criteri originari.[…]La politica della differenza, invocando implicitamente i nostri criteri come metro di giudizio di tutte le civiltà e culture, può finire per rendere tutti uguali.[…]Deve pur esserci una via di mezzo fra la domanda, inautentica e omogeneizzante, di un riconoscimento di uguale valore da un lato e il murarsi da soli entro i propri criteri etnocentrici dall’altro. Le altre culture esistono, e dobbiamo vivere sempre più insieme, sia su scala mondiale sia, strettamente mescolati, in ogni singola società.[…][L’orizzonte ultimo è quello nel quale]il valore relativo delle varie culture potrebbe esserci evidente[…].” [31] La formula tayloriana del “liberalismo ospitale”, con la sottesa “politica del riconoscimento”, benché apparentemente accattivante, si mostra, in realtà, profondamente ambigua e contraddittoria. A prescindere dalla sua insufficiente fondazione a livello filosofico,[32] come del resto dalla sua tortuosa traduzione sul piano politico-istituzionale (un aspetto non irrilevante), essa non sembra cogliere lo specifico della “questione multiculturale”.
Da un lato, infatti, la proposta del filosofo canadese si mantiene all’interno della radice occidentale (di cui, ad esempio, accetta a priori il modello liberale), d’altro canto essa risulta di natura concessiva: si suggerisce, cioè, una sorta di apertura al “diverso” che, pur accolto come “ospite”, rimane appunto tale. Taylor, in sostanza, sembra non radicalizzare quella “fusione degli orizzonti” (peraltro problematica e sulla quale si tornerà in conclusione) che pur auspica sulla scorta di Gadamer. In realtà, come si dirà, occorre accedere ad una prospettiva di “polidimensionalità cognitiva” nella quale gli “orizzonti” non vengono fusi, ma mantenuti.
Gli ultimi rilievi consentono, infine, di considerare un profilo più prettamente giuridico e, in particolare, i cosiddetti “diritti delle collettività”. Nell’impostazione tayloriana appena considerata, ma analogamente in altre prospettive di matrice più chiaramente liberale, [33] , emerge il possibile configurarsi di “diritti delle collettività” (o “gruppi e/o soggetti collettivi”). Tale nozione riposa, in realtà, almeno su due presupposti profondamente discutibili.
In primo luogo, essa suppone che le “soggettività”, o le “culture” o “comunità”, cui ascrivere tali diritti siano ben identificabili. Tuttavia, come osservato precedentemente, non solo la delimitazione di una “cultura” rappresenta concettualmente (oltre che pragmaticamente) un’operazione tutt’altro che scontata, ma questa stessa nozione rinvia ad un modello di identità europeo-occidentale, e a un modello di relazione con l’“altro”, tutto da ripensare.
[34] In secondo luogo, la proposta di elaborare “diritti delle collettività” suppone che “quest’ultime”, ove sia possibile identificarle, e le “culture” che attraverso di esse si esprimono, vadano in qualche modo preservate in termini quasi di biodiversità, in modo sostanzialmente analogo a quanto propugnato dalla cosiddetta deep Ecology a proposito delle “specie naturali”. [35] In tal senso appare ancora paradigmatica la posizione tayloriana riguardo al “caso canadese”. [36] A prescindere dalla sua concreta praticabilità, la soluzione federale auspicata dal filosofo nordamericano sembra in realtà contraddire la premessa teorica su cui si fonda, e, cioè, il pluralismo ermeneutico radicato nella “fusione degli orizzonti” di cui si è detto. Se, infatti, si sostiene che vanno riconosciute e promosse le “diversità”, come e perché proteggerne alcune e non altre? A quale titolo riconoscere in via esclusiva un “diritto” alla protezione giuridica, con inevitabili vantaggi, alla minoranza francofona? Un tale diritto non andrebbe allora accordato, ancora prima, all’originaria popolazione indigena? Emergono, qui, non solo i limiti che affliggono l’impostazione tayloriana (e il comunitarismo nel suo insieme), ma, soprattutto, il nesso concettuale ‘cultura-comunità’.
4. Problema “multiculturale”: alcune proiezioni giuridiche e approccio teoretico-filosofico
I termini e le tensioni che attraversano i due livelli del dibattito sinora considerati, empirico-descrittivo e critico-problematico, diventano maggiormente comprensibili se collocati in un orizzonte più vasto, al cui interno si possono intravedere, in prospettiva, alcuni nodi concettuali (non certamente soluzioni) relativi alle questioni evocate.
Anche qui provo a distinguere due piani di discorso, tra loro strettamente intrecciati e consequenziali. Il primo è di natura stricto sensu socio-giuridica, benché ripensato in chiave concettuale; il secondo, che in qualche modo retroagisce sul primo, è d’impronta più accentuatamente filosofico-giuridica o, lato sensu, culturale.
Le questioni che emergono a livello socio-giuridico ruotano intorno al seguente interrogativo: sul piano teorico gli strumenti giuridici di cui disponiamo sono sufficienti ad affrontare la complessità presentata dai nuovi scenari socio-culturali? Oppure: in che modo oggi può rileggersi il nesso ‘identità-istituzione’, un tema centrale della filosofia del diritto occidentale?