IL “PROBLEMA MULTICULTURALE”
TRA SOCIOLOGIA, FILOSOFIA E DIRITTO:
UN APPROCCIO COGNITIVO
di Giovanni Bombelli*
Università Cattolica “S. Cuore” – Milano
La distinzione appena proposta sul piano operativo contempla, ovviamente, l’intreccio dei due livelli menzionati (descrittivo e normativo), ma va integrata con due osservazioni di carattere generale.
La prima. Il “pluralismo”, così inteso, si muove comunque all’interno di un “ambiente” (sociale, politico, giuridico, ecc.) sostanzialmente omogeneo e fondamentalmente condiviso, imperniato, cioè, sulla presupposta accettazione di alcuni elementi di fondo (Stato, democrazia, diritti, ecc.).
La seconda. Il concetto di “pluralismo” va distinto, per quanto possibile, dalla mera “pluralità” di posizioni sociali, o modelli teorici, riscontrabile in altre epoche della storia occidentale, come, ad esempio, quella medievale. Contrariamente a quanto avviene nello scenario odierno, le “anime” plurali che, sul piano culturale, caratterizzavano l’età di mezzo (cristiana, ebraica, islamica, ecc.), non si configuravano come un dato scomposto: esse, infatti, erano originariamente sintetizzate in un’unità superiore, di carattere politico-giuridico e teologicamente legittimata. A livello fondativo, quindi, veniva così a configurarsi in re una sorta di coordinazione, in chiave unitaria, delle molte istanze socio-culturali, teoreticamente sintetizzata nel principio tomista per il quale omnis multitudo derivatur ab uno. [17] . La pluralità degli ordinamenti, in sostanza, non originava alcuna forma, o alcuna questione, di “pluralismo” nelle due accezioni qui proposte.
b) Anche il termine-concetto di “multiculturalismo” si riferisce a un processo sostanzialmente occidentale, nel senso che la questione multiculturale “è questione di principio solo nelle società occidentali. Solo, infatti, in virtù di una stratificata cultura universalistica etico-giuridica[…]prende corpo l’ideale di una ‘libera’ convivenza delle differenze”. [18] Secondo una certa vulgata, di matrice (neo)illuminista, l’impostazione multiculturale costituirebbe la soluzione migliore per esprimere le molte “identità” che connotano le società contemporanee. Ne segue la facile equazione ‘tante culture = tante identità’, sul presupposto, di per sé del tutto discutibile (e tipico, ad esempio, della prospettiva comunitarista ) [19]
che l’identità coincida indissolubilmente con l’appartenenza ad una sola “cultura”, di per sé identificabile e circoscrivibile.
Anche qui si possono distinguere due livelli: descrittivo e teorico.
Con “multiculturalismo descrittivo” si vuole indicare la mera compresenza, nell’attuale contesto socio-culturale, di una molteplicità di modelli socio-culturali alternativi (o che intendono esserlo) a quello occidentale. È un profilo che si sovrappone, almeno parzialmente, al pluralismo descrittivo e con il quale, in realtà, si intreccia in modo dialettico (su ciò si tornerà).
A livello teorico, invece, la categoria “multiculturalismo” viene utilizzata (con un frequente accento lato sensu rivendicativo) come paradigma per conferire riconoscibilità storica, e legittimazione culturale, ad un insieme di processi sociali talora profondamente eterogenei: questioni relative alle minoranze razziali, preservazione di identità linguistico-culturali, sottolineatura di differenze di “genere”, ecc.
Riassumendo i due punti appena considerati: il “pluralismo”, almeno nell’unica accezione a noi disponibile (cioè quella occidentale), si articola all’interno di coordinate culturali sostanzialmente condivise, laddove il “multiculturalismo” si riferisce a Weltanschauungen e modelli sociali talvolta tra loro anche radicalmente eterogenei e, comunque, avvertiti come “altri” rispetto alla coscienza occidentale.
Rispetto a precedenti esperienze storiche, ciò che va colto è l’elemento di novità dello scenario sinora descritto, rappresentato dall’inedito intreccio del profilo “pluralista” con quello “multiculturale” e, quindi, dalla possibile ridiscussione o incrinatura del modello occidentale nel suo complesso. È tale profilo che rende (e renderà) le nostre società sempre più “multiculturali”, secondo un’accezione, però, più ampia e complessa che accosterò in conclusione.
c) La nozione di “multietnicità” si sovrappone frequentemente, almeno in parte, al concetto di “multiculturalismo” e, con essa, si vuole sottolineare la presenza nelle odierne società occidentali di molte “etnie”.
[20] Il concetto di “etnia” rappresenta, però, una categoria piuttosto ambigua, poiché oscilla (soprattutto a livello di dibattito pubblico) tra due accezioni fondamentali e spesso intrecciate: una d’impronta “genetico-razziale”, l’altra di matrice più chiaramente “culturale”.
Secondo la prima, il termine “etnia” indica l’appartenenza di un soggetto ad un gruppo umano geneticamente, o razzialmente, identificabile: “etnia”, quindi, come “gruppo umano”. Nella seconda accezione, invece, l’“etnia” va intesa come “cultura”, o, meglio, come la serie di elementi che individuano (sotto il profilo linguistico, religioso, ecc.) uno specifico gruppo sociale.
Nella definizione dell’identità etnica convergono, quindi, entrambi i profili. Qui, però, emergono i limiti di tale approccio. L’appartenenza ad un gruppo etnico “razzialmente” connotato, infatti, non si identifica necessariamente con l’appartenenza ad una “cultura”: o, meglio, il profilo “razziale” (posto peraltro che esso sia ben definibile, un dato affatto scontato) può anche non coincidere con quello “culturale-simbolico” (ciò che avviene, ad esempio, nella società indiana, in molte realtà africane, ecc.). In altri termini: tra “cultura” e “etnia” non sembra darsi perfetta sovrapposizione, così come tra “multiculturalismo” (o società multiculturale) e “multietnicità” (o società multietnica).
d) Infine, il termine “interculturalismo” (o “interculturalità”), talora confuso (o intrecciato) con l’impostazione multiculturale, indica l’orientamento che intende promuovere lo scambio reciproco tra i diversi sistemi culturali presenti nello scenario contemporaneo, e, cioè, l’intreccio tra “culture”, eventualmente mediato dalla possibile (e auspicata) “transizione” di un soggetto da un contesto culturale all’altro, da una “cultura” all’altra.
In ottica interculturale, ciò consentirebbe di incrementare l’intreccio tra le molteplici visioni del mondo veicolate dalle singole “culture”, nella prospettiva di un generale arricchimento socio-culturale.
È chiara, quindi, la linea di distinzione tra “multiculturalismo” e l’approccio interculturale: mentre il primo (come si osserverà anche più avanti) sembra propendere per la mera compresenza dei modelli socio-culturali, l’interculturalismo, viceversa, propugna lo scambio strutturale tra di essi.
[21] Da questo breve excursus lessicale, e dal dibattito ad esso sotteso, emergono essenzialmente due dati.
In primo luogo, l’evidente difficoltà (o tortuosità) nella precisazione dei termini e delle categorie ingenera la loro frequente sovrapposizione. Ciò, però, non è addebitabile esclusivamente a mancanza di rigore scientifico, poiché spesso tale “imprecisione”, come si accennava precedentemente, in realtà risulta spesso strumentale alla legittimazione di ben definite opzioni politico-istituzionali.
Emerge, in secondo luogo, un elemento comune: tutte le categorie menzionate sono di matrice occidentale. È un punto, quest’ultimo, di particolare rilevanza e sul quale tornerò in conclusione.
3.2 Livello critico-problematico: “cultura”, orizzonte statuale e diritti delle collettività
L’analisi lessicale approntata consente, ora, di considerare più da vicino, in chiave critico-problematica, alcuni profili di natura concettuale della “questione multiculturale”. Nel dibattito appena sintetizzato emergono, infatti, molteplici punti critici, che si dispongono in qualche modo su tre piani: concettuale, socio-politico-istituzionale e, infine, strettamente giuridico. Il primo attiene alla nozione di “cultura”, il secondo all’orizzonte statuale e il terzo ai cosiddetti “diritti delle collettività”. Li analizzo distintamente.
In primo luogo, molte categorie considerate al paragrafo precedente (segnatamente i concetti di “multiculturalismo” e “interculturalismo”, ma in parte anche quello di “multietnicità”) sottendono la nozione di “cultura”. Quest’ultima, tuttavia, appare un concetto tutt’altro che chiaro, a livello sia intensionale (cioè sul piano definitorio), sia “estensionale”, relativamente alla sua articolazione e al rapporto con la sfera soggettiva.
Com’è noto, il concetto di “cultura”, largamente invalso nel dibattito multiculturale, rappresenta, in realtà, un prestito dell’antropologia strutturale. [22] Esso, quindi, sconta i limiti epistemologici che affliggono tale impostazione, soprattutto in relazione alla definizione delle sue categorie interpretative. Inoltre, la nozione di “cultura” sottende, quasi sempre, la sua assimilazione (o coincidenza) con quella di “comunità”: in altri termini, l’appartenenza ad una “cultura” si identifica, o si ritiene che si identifichi, con l’appartenenza ad un contesto comunitario. A prescindere dalla complessità che connota l’idealtipo comunitario, [23] si tratta, però, di un’identificazione (o assimilazione) profondamente discutibile, come attesta, ad esempio, l’appartenenza alla “comunità” islamica (propriamente detta umma) che, come noto, contempla al suo interno aree e posizioni “culturali” profondamente diverse.
Dalla mancata (o problematica) definizione della categoria “cultura” discende, inoltre, la difficile precisazione della sua “estensione”: dove comincia, e finisce, una “cultura”? Ma, e soprattutto, se l’esistenza di alcuni “confini” (linguistici, territoriali, ecc.) appare indubitabile, chi e come li definisce? L’interrogativo, ovviamente, non è ozioso, poiché la risposta ad esso apre il campo, soprattutto nello scenario odierno, a possibili strumentalizzazioni in chiave demagogica .
Si pone, infine, il problema, in qualche modo “classico”, di quale rapporto intercorra tra l’orizzonte “culturale” e la singola soggettività o, detto in altri termini, tra l’universalità della “cultura” e l’individualità-singolarità dei membri che la compongono. Occorre chiedersi, cioè, a quale titolo (autoritativo, opzionale, “tradizionale”, ecc.) avvenga l’ascrizione del soggetto ad una “cultura” (e, quindi, ad una “comunità”: anche questo è un punto che riprenderò più avanti).
[24] A livello politico-istituzionale, e segnatamente statuale, è possibile distinguere, per così dire, due sottolivelli strettamente connessi: uno, di carattere “empirico-operativo”, attiene alle soluzioni istituzionali concretamente elaborate in ordine alla “questione multiculturale”; l’altro, invece, tocca profili di carattere maggiormente teorico.
Riguardo al primo aspetto, a livello storico la fenomenologia delle soluzioni adottate si lascia ricondurre a tre tipologie essenziali, talora intrecciate, e approssimativamente coincidenti con un modello “pluralista”, “multiculturalista” e “interculturale” [25]