IL “PROBLEMA MULTICULTURALE”
TRA SOCIOLOGIA, FILOSOFIA E DIRITTO:
UN APPROCCIO COGNITIVO
di Giovanni Bombelli*
Università Cattolica “S. Cuore” – Milano

D’altro canto, si assiste, quasi paradossalmente e in modo simmetrico, ad una sorta di radicalizzazione della/delle “identità”. A livello collettivo, infatti, le dinamiche appena accennate si traducono spesso in una sorta di ostensione dell’“identità”, presuntivamente vera o, come accade più frequentemente, mitizzata (o “immaginata” ).
[9] Quanto appena osservato può essere meglio colto se ci si sposta sul piano dei vissuti collettivi, ove la “questione identitaria” è percepibile a molteplici livelli. La crisi dello Stato, cioè del soggetto politico-giuridico attraverso il quale la modernità ha “interpretato” le “identità”, ha infatti determinato il problema della ridefinizione dei “soggetti collettivi” (secondo un’espressione di matrice sociologica) e, quindi, della rivendicazione della loro “identità”.
Di seguito ne considero sinteticamente tre esempi, disposti secondo uno schema in qualche modo “ascendente”: entità locali, aggregazioni sociali (extralocali) e dimensione statuale.
È a livello di entità locali che si registra, in primo luogo, l’evocazione del tema dell’identità. La “riscoperta” delle “identità locali” (o delle “radici”), secondo quanto un antropologo ha felicemente definito il revival etnico, [10] rappresenta ormai un fenomeno trasversale agli assetti statuali contemporanei e mostra quanto sia ormai compromesso il tradizionale (e quasi “naturale”) ruolo esponenziale attribuito, a livello giuridico, agli enti locali. [11] Ad un livello ulteriore, vanno annoverate quelle che si potrebbero definire le “formazioni sociali extralocali”. Con quest’espressione ci si riferisce alla presenza sul territorio di aggregazioni sociali che si autopercepiscono, o vengono avvertite, come in qualche modo “irriducibili” al restante contesto. Ciò solleva il problema dell’(auto)definizione e rivendicazione della loro “identità”, che, come noto, rappresenta il terreno specifico del tema multiculturale.
Sul piano statuale, infine, occorre registrare un fenomeno per certi versi contraddittorio. Se è vero, infatti, che la sovranità statuale è andata incontro a processi di compressione (ad esempio in rapporto alla configurazione dell’Unione Europea), è anche vero che da tempo quest’ultimi si intrecciano con una progressiva riscoperta, spesso strumentale, del profilo “identitario” dello Stato.
[12] In realtà, a ben vedere tutti questi fenomeni (dal livello locale fino all’orizzonte statuale) presentano un elemento comune. Essi sembrano, infatti, delinearsi in termini profondamente contraddittori, secondo, cioè, un processo di continuo rimando dal “locale” al “globale” sintetizzabile attraverso la formula, ormai invalsa, “glocal” (“global+local”). L’impressione, in sostanza, è che l’appello contemporaneo alle identità (locali) non possa prescindere dal riferimento ad un orizzonte più vasto.

2.1 Segue: profilo filosofico-giuridico
I fenomeni di cui si è appena detto, oltre che da un punto di vista sociologico, si possono accostare anche a partire da una prospettiva più specificamente filosofico-giuridica, forse meglio in grado di coglierne alcuni aspetti più radicali.
L’attenzione va appuntata, in particolare, su alcuni elementi che connotano l’attuale scenario culturale, e, in particolare, la “deistituzionalizzazione”, la transizione dall’“identità” all’“appartenenza” e i processi di “risimbolizzazione”.
[13] In primo luogo, non v’è dubbio che sia in atto un processo di radicale “deistituzionalizzazione”. Questo termine, va precisato, non va assunto nel significato ordinariamente ad esso conferito, e, cioè, come “crisi delle istituzioni”. Con esso, in realtà, ci si vuole riferire ad un fenomeno ben più radicale, imperniato sulla ridiscussione dell’idea stessa di “istituzione”, o meglio, in termini più precisi, dell’“istituzione” come “mediazione”.
In altre parole, ciò che appare sempre più precario è il profilo radicalmente antropologico del concetto (in primis giuridico, ma anche sociologico e politico) di “istituzione” e, cioè, la capacità di quest’ultima di porsi come “luogo (terzo) di relazione e riconoscimento”. L’“istituzione”, cioè, non sembra più in grado di (né sembra necessaria per) leggere l’istanza identitaria, un tema, questo, di grande ampiezza e che, in sostanza, coinvolge il tema della modernità e la sua crisi: in tal senso, verrebbe da chiedersi quale senso possa avere una soggettività privata di un luogo “terzo” di “riconoscimento”.
È nel contesto di questo processo di deistituzionalizzazione che, sul piano culturale, va collocata la transizione dall’“identità” all’“appartenenza”, di cui il primo non rappresenta che la premessa teorica. A ben vedere, infatti, molti dei fenomeni (individuali e collettivi) accennati al paragrafo precedente in realtà non toccano il profilo identitario, bensì, quello più immediato, rappresentato dall’“appartenenza”. Ciò significa, in sostanza, che gli spazi vuoti lasciati dai processi di deistituzionalizzazione, invece di favorire la maturazione delle identità (soprattutto collettive), sembrano aprire il campo, spesso in modo estetizzante, alla mera rivendicazione delle “appartenenze” (siano esse di carattere politico, economico, religioso, ecc.).
A livello socio-culturale si profila, così, un dato di grande rilevanza, e, cioè, il processo in virtù del quale l’“identità” viene progressivamente fatta coincidere (fino a risolversi in esso) con “l’esser parte di”. Il punto si intreccia strettamente con la “questione multiculturale”, nel senso che gli appelli retorici alla “cultura” e all’“identità”, che ne contrassegnano il relativo dibattito (e sui quali si tornerà), risultano spesso funzionali all’accreditamento di semplici “appartenenze”, precludendo ogni apertura alla dimensione identitaria (in realtà ben più complessa e responsabilizzante).
La dinamica appena messa in luce (sovrapposizione dell’“identità” all’“appartenenza”) “legittima”, in qualche modo, il terzo elemento su cui richiamare l’attenzione: i processi di risimbolizzazione.
La rivendicazione delle “appartenenze” comporta infatti, per sua struttura interna, la strumentale creazione o produzione (rectius invenzione) di “contesti di appartenenza” (va ribadito: non “identità”). Sul piano filosofico-culturale emerge, cioè, un fenomeno di risimbolizzazione strumentale, imperniato sull’evocazione di apparenti eredità culturali: ciò si traduce, in sostanza, in una rilettura fortemente semplificante della dimensione simbolica, e, in particolare, di alcuni “simboli” che appartengono alla tradizione occidentale (remota o più recente). Avviene così, ad esempio, che concetti come “patria”, “popolo”, “classe lavoratrice”, “religione”, “comunità”, ecc. vengano veicolati in chiave puramente strumentale e demagogica, ai fini, cioè, della rivendicazione di un’“appartenenza” politica, sociale, religiosa, culturale o, appunto, “multiculturale” (con i molteplici fenomeni di incrocio tra questi livelli).

3. Questione “multiculturale”: livelli di analisi
Le precisazioni formulate in merito al tema identitario consentono, ora, di affrontare più da vicino la “questione multiculturale”. In tal senso, propongo di distinguere due livelli di analisi: a) empirico-descrittivo e b) critico-problematico.
Al primo livello proporrò una sorta di explicatio terminorum relativa ad alcune nozioni ricorrenti nel dibattito sui temi multiculturali, così da mettere in evidenza, successivamente, alcuni aspetti di carattere più squisitamente filosofico-giuridico che emergono nel contesto di tale dibattito.

3.1 Livello empirico-descrittivo: pluralismo, multiculturalismo, multietnicità, interculturalismo
La focalizzazione di alcune categorie (o termini) legati alle questioni multiculturali non appare un’operazione inutile. Il ricorso, o l’introduzione, a livello teorico di una specifica categoria interpretativa in realtà spesso sottende, o veicola, precise opzioni politiche.
Il tentativo di definizione delle “categorie” in gioco (che prescinda, in linea di principio, dalle loro eventuali e immediate traduzioni politico-istituzionali) risponde, quindi, essenzialmente a due esigenze: lessicale e concettuale.
Per un verso, si proverà a mettere ordine nel quadro straordinariamente confuso che connota il dibattito in materia, nel tentativo di compiere, nei limiti del possibile, una sorta di “igiene linguistica” (per sua natura ovviamente discutibile).
D’altro canto, tali precisazioni consentiranno di individuare già, sul piano propositivo, alcune linee concettuali a partire dalle quali impostare successivamente l’intera questione del multiculturalismo.
Nello specifico, si tratta di soffermarsi sinteticamente sui seguenti termini: [14] a) pluralismo; b) multiculturalismo; c) multietnicità e d) interculturalismo (o interculturalità). Come si vedrà, benché teoricamente distinguibili, in realtà tali termini, e le categorie che essi veicolano, si intersecano frequentemente, a livello sia teorico, sia operativo.

a) Il “pluralismo” (propriamente detto) rappresenta un fenomeno peculiarmente occidentale, o, meglio, interno all’Occidente, di cui secondo alcuni, distinguendolo nettamente dal “multiculturalismo”, costituisce una sorta di “codice genetico”. [15] Più precisamente, esso sarebbe legato alla nascita della “modernità”, rappresentandone un frutto tipico, e si porrebbe, quindi, in contrapposizione al precedente ordinamento cetuale-medievale.
All’interno di questo contesto il termine “pluralismo” presenta, però, una notevole polisemia. [16] Si possono così distinguere, in chiave necessariamente sociologica (o socio-giuridica), due livelli (o accezioni): descrittivo e normativo.
Con “pluralismo descrittivo” si fa riferimento al mero dato, in quanto tale “scomposto”, costituito dalla problematica (com)presenza, nel contesto socio-culturale contemporaneo, di una molteplicità di rappresentazioni della realtà (sul piano culturale, politico, religioso, ecc.), tutte maturate prevalentemente nel contesto dello scenario occidentale. Ciò costituisce un elemento radicalmente innovativo. Da un lato, infatti, esso rende la società contemporanea maggiormente “pluralista” rispetto a quelle precedenti (si pensi, ad esempio, ai contesti sette-ottocenteschi). D’altro canto, esso rappresenta, va ribadito, un profilo in se stesso problematico e necessariamente del tutto assente nelle teorie socio-politiche “classiche”, facendo da spartiacque tra lo scenario passato (grosso modo fino alla metà del Novecento) e quello presente o futuro.
L’espressione “pluralismo normativo”, invece, vuole riferirsi alla tensionalità che intercorre tra le istanze appena menzionate e la loro articolazione a livello lato sensu giuridico-istituzionale. Storicamente ciò si è tradotto, e si traduce, nella ricorrente richiesta di strumenti concretamente operativi (carte costituzionali, dichiarazioni universali, codici, ecc.) attraverso i quali rendere visibili, e socio-giuridicamente rilevanti, le varie posizioni. Sotto questo profilo, la dialettica sociale che ha percorso soprattutto gli ultimi decenni potrebbe sintetizzarsi nel seguente interrogativo: in quale misura, a quali condizioni e secondo quali modalità le varie istanze sociali possono diventare rilevanti sul piano giuridico?

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