L’UOMO «VIRTUALE».
IL PARADIGMA ANTROPOLOGICO
DELLA TEORIA POLITICO-GIURIDICA MODERNA
di Antonio Vernacotola
Università della Calabria

Nel Seicento, dunque, a ridosso della Rivoluzione scientifica, prende così le mosse un processo di progressiva astrazione e di ridefinizione virtualistica dell’uomo e della persona che vedrà la sua esemplare configurazione, raggiungendo il proprio apice speculativo, nella riflessione del Rousseau ed, a seguito della rielaborazione in chiave dialettica operatane dagli hegeliani di sinistra, [38] come Bauer[39] o Feuerbach [40] verrà infine portato alle estreme conseguenze dalle prospettive anarchiche accreditate dall’egoismo radicale dello Stirner.[41] Invero, nel Contratto sociale di Rousseau o nell’opera L’unico e la sua proprietà di Stirner – oltre che, quasi paradossalmente, in quelle opere che sembrano sfociare in soluzioni politiche di ordine collettivistico, come i testi facenti capo alla dottrina del materialismo storico dialettico di Marx o Engels – si possono rinvenire gli assetti teorici più compiuti e perfezionati cui l’antropologia individualista e, ancor più precisamente, il postulato dell’unicità siano pervenuti. Del pari, è alla filosofia hobbesiana che occorre guardare per scorgere la genesi di una simile impostazione ; [42] un’impostazione che vede parimenti emergere una teoria artificiale dell’uomo assoluto ed una dottrina, altrettanto artificiale, dello stato assoluto: l’individuo-unità, cioè, nella funzione di protocollo di quell’ordinamento politico giuridico che, per adoperare la nota immagine gentiliana, si costituisce come l’ordinamento virtuale della geometria politico legale. “Ora – osserva il Gentile – non v’è dubbio che la rousseauiana sia, con quella di Max Stirner, una delle più radicali espressioni dell’individualismo elaborate nell’ambito della «geometria politica» moderna, ma non è la sola. Si può anzi dire, senza tema di smentite, che l’uomo come individuo solitario ed egoista, tale, infatti, viene per ipotesi definita la sua condizione allo stato di natura, costituisca il protocollo comune a tutte le moderne geometrie del potere: da Hobbes a Marx. E il pubblico? Si potrebbe rispondere con le parole usate da Thomas Hobbes per indicare «quel gran Leviatano chiamato comunità politica (commonwealth) o stato (state)». È l’«uomo artificiale»” . [43] In questo senso, Hobbes rappresenta uno snodo decisivo per lo sviluppo di quell’istanza di astrazione dell’individuo come pura entità numerica che già abbiamo visto comparire nella filosofia di Duns Scoto. Ogni prospettiva sostanzialistica, ancora presente in età moderna oltre che nella Neoscolastica spagnola anche, seppur con tratti peculiari, tra i Razionalisti, viene definitivamente abbandonata e l’individuo umano viene a connotarsi secondo i tratti di una «unicità» [44] assoluta ed eteroesclusiva, che non è soltanto psicologica, basata, cioè sui caratteri distintivi della vanagloria, dell’istinto autoconservativo e del timore reciproco fra gli individui, [45] ma è anche e soprattutto ontologica, in quanto risultante da un processo consistente in un’opera di astrazione concettuale ed in una successiva considerazione, su basi ipotetiche [46] , di una siffatta soggettività astratta nei termini di ente concreto, autenticamente vivente ed operante come soggetto dello stato di natura. A ben vedere, d’altronde, gli stessi caratteri di vanità, amor proprio e timore degli altri, altro non sono se non i postulati del paradigma dell’«unico», il quale non vede nulla al di fuori di se stesso, in quanto nulla può esistere di differente da lui, di oggettivo, se non nella forma di strumento della sua auto-esaltazione e del suo continuo incremento, oppure in quella di mero ostacolo al conseguimento di tali obbiettivi.
Da ciò emergono due dati, strettamente interconnessi, che risultano caratterizzare l’indole dell’uomo nella maniera più incisiva e radicale: la sua volontà di dominio sul mondo e sui propri simili ed il timore reciproco che viene ad ingenerarsi nei suoi rapporti con essi in conseguenza di tale desiderio .
[47] Atteggiamenti di questo tipo, per Hobbes, piuttosto che denotare un’indole naturale dell’uomo, da intendersi nei termini di una predisposizione, di ordine pratico, strutturale alla sua costituzione interna, definiscono, molto più semplicemente, le conseguenze operative, gli aspetti esteriori di un sentimento di diffidenza verso i propri simili; una diffidenza, però, che non deriva all’uomo da una ferinità intrinseca alla propria essenza, bensì dalla condizione di precarietà che contraddistingue lo stato di natura, in dipendenza della coesistenza, su un piano di uguaglianza, di una molteplicità di individui che vengono postulati come delle «unicità» cui non è dato di riconoscere alcuna pretesa, o alcuna legittima spettanza, circa la fruizione dei beni naturali, all’infuori delle proprie.
L’unico è capace di porre in essere soltanto atti di dominio, nei confronti delle cose; non può esperire, rispetto ad esse, altro genere di relazione che non sia quello basato sull’uso, sull’appropriazione e pertanto, sulla guerra contro chiunque, anche solo potenzialmente, possa in qualche modo minacciare questo suo dominio. “Dove il mondo è inteso come oggetto del dominio dell’uomo – osserva ancora il Gentile – l’altro per l’individuo è solo un concorrente nel padroneggiamento del mondo. Dove la libertà naturale è intesa come assenza di limiti, l’altro è solo un ostacolo da rimuovere, un nemico da eliminare. Ora, da questo punto di vista, allo stato di natura la violenza è la sola modalità di rapporto intersoggettivo ipotizzabile e quindi la guerra l’autentica condizione di vita. Tutto ciò Hobbes ha visto con una lucidità che può apparire disumana solo a chi non vuol riconoscere sino a che punto sappia essere «disumana» la scienza” .
[48] L’uguaglianza dello stato di natura, d’altronde, è un’uguaglianza sui generis, un’uguaglianza, cioè, che non ha nulla a che vedere con un’affinità morfologica o con un’omogeneità ontologica fra gli individui di una stessa specie, come viene asserito nella dottrina aristotelica ed in generale, nella prospettiva classica; [49] tale uguaglianza si basa sulla capacità che ciascuno ha di eliminare gli altri, una capacità, invero, che ognuno potrebbe legittimamente decidere di tradurre in azione laddove, secondo il suo insindacabile giudizio, avesse a ritenere che la propria vita, o anche soltanto i propri interessi, fossero in qualche modo minacciati. [50] Fondamento dell’uguaglianza fra gli individui è dunque, la possibilità di ciascuno di uccidere chiunque altro, e quindi di sottrarre il bene sommo che ognuno possiede, ovvero la vita. [51] Alla base della determinazione dello stato di natura nei termini di una condizione di assoluta precarietà, di un bellum omnium contra omnes, oltre alla mera «possibilità» che, da parte di chiunque e nei confronti di ciascuno, possa essere perpetrato un atto di violenza contro la vita, è necessario che si supponga, nell’uomo, una diatesi a recar nocumento ai propri simili, diatesi che Hobbes non dimostra – né potrebbe farlo, stante il necessario apriorismo delle scienze –[52] – in base ad un procedimento fondato sull’esperienza, bensì individua come conseguenza di una serie di comportamenti ed attitudini varie e, tuttavia, concorrenti a creare uno stato nel quale la «volontà di nuocere» si presenti come indefettibile costante . [53] Questa volontà di nuocere, dunque, si origina da cause diverse, dalla vanagloria, o anche dalla necessità di apprestare una valida difesa. Tuttavia, essa, in ultima istanza, esprime quello che rappresenta il tratto più caratteristico della natura umana «postulata» da Hobbes, e cioè il dato, anch’esso desunto da un’analisi fenomenologica della prassi umana non fondata su presupposti propriamente induttivi o essenzialistici, dell’insistenza, sull’individuo, di una bramosia assoluta ed universale, di un desiderio di possesso esteso su ogni cosa. [54] 4. L’aporia della libertà moderna tra determinismo materialistico e assolutezza della volontà. In vista del Leviatano
Emergono dunque, quivi, altri due importanti aspetti dell’antropologia moderna, che, nel momento stesso in cui vengono proclamate l’unicità e l’assolutezza dell’individuo, ne sanciscono l’orientazione in corrispondenza di un radicale riduzionismo materialistico. Tali aspetti possono essere complessivamente inquadrati sotto la specie di due distinti approcci, dei quali l’uno riduce l’uomo a mero centro d’imputazione di un complesso di impulsi passionali, [55] mentre l’altro afferma l’identificazione, sotto un profilo formale, di libertà, potenza e diritto.
Ad una siffatta impostazione soggiacciono le istanze di un determinismo materialistico che dal livello puramente fisico cui era stato relegato dal Copernico e dal Galilei, veniva ad assurgere, nei sistemi panteistici rinascimentali o nel monismo immanentistico di Spinoza, [56] ad una dimensione propriamente antropologica. Parimenti, risulta significativa, in ordine alla genesi di tale visione dell’uomo, quel radicale volontarismo potestativo che, inquadrato da Occam [57] in una prospettiva teologica, con la secolarizzazione modernistica delle categorie del divino,[58] , viene ad innervare, quale fondamentale struttura di caratterizzazione dell’unico, il modulo antropico tipicamente seicentesco. E bene Nietzsche riconosce, come fulcro della Modernità, a monte dell’assolutizzazione dell’individuo, un riduzionismo antropologico icasticamente prospiciente verso la auto-dissoluzione dell’uomo.
“Non è forse – si domanda il filosofo tedesco – da Copernico in poi, in un inarrestabile progresso l’autodiminuirsi dell’uomo, la sua volontà di farsi piccolo? La fede, ahimè, nella sua dignità, unicità, insostituibilità nella scala gerarchica degli esseri è scomparsa – è divenuto animale, senza metafore, detrazione o riserva, lui che nella sua fede di una volta era quasi Dio («figlio d’Iddio», «Uomo-Dio») […] Da Copernico in poi, si direbbe che l’uomo sia finito su un piano inclinato – ormai va rotolando sempre più rapidamente, lontano da un punto centrale – dove? nel nulla? nel «trivellante sentimento del proprio nulla?»”
[59] La Modernità dunque – ed è la lucida analisi di Nietzsche a riconoscerlo – si dibatte in una visione profondamente antinomica: l’uomo, elevato, ad una condizione di assolutezza, si scopre deprivato della propria autentica identità e strutturato nella forma di paradigma epistematico di una scienza civile che si costituisce come l’impianto logico – nominale posto a supporto e a giustificazione etica del potere statuale costituito. L’uomo moderno esalta se stesso per autodistruggersi; la liberazione dell’etica dalla teologia, dalla metafisica e, finanche, da una gnoseologia oggettivistica, non è diretta all’accentuazione della libertà dell’uomo, bensì al suo asservimento nei riguardi di quelle strutture rispetto alle quali la stessa natura umana è posta in guisa di modulo ipotetico e diventa, dunque, una mera funzione logica.

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