L’UOMO «VIRTUALE».
IL PARADIGMA ANTROPOLOGICO
DELLA TEORIA POLITICO-GIURIDICA MODERNA
di Antonio Vernacotola
Università della Calabria
2. L’individualismo moderno. Dal sostanzialismo metafisico al convenzionalismo ipotetico
In età moderna le cose mutano considerevolmente e tanto la nozione di persona quanto la stessa definizione dell’idea di sostanza sono fatte oggetto di una profonda trasformazione che ne modifica il semantema originario, ribaltandone radicalmente la funzione, in corrispondenza di una visione filosofica e di finalità teoriche del tutto nuove. Come mostra l’Abbagnano , [20] nell’ambito dell’indirizzo razionalistico, prevalente tra i filosofi continentali, il discorso relativo all’idividualità continua ad essere raccordato alla teoria della sostanza. In Cartesio ove pure ha luogo quella separazione tra res cogitans e res extensa cui si deve la primigenia destrutturazione dell’unità della nozione di uomo, [21] si evidenzia un’interpretazione della sostanza che ancora risente, sotto taluni aspetti, delle istanze della Classicità: “Quando concepiamo la sostanza – afferma il Descartes – concepiamo solo una cosa che esiste in tal maniera che non ha bisogno per esistere d’altro che di se stessa.” [22] .” In Leibniz, poi, si avverte preclara la tensione verso un recupero dell’unità sostanziale dell’ente e dei caratteri formali e finalistici della sua fondazione, cui continua ad ancorarsi anche lo stesso carattere dell’individualità . [23] . La nozione di individuo viene invero preservata nei termini di una fisionomia concreta anche nella filosofia di Wolff , [24] , mantenendo quivi un preciso collegamento a quella dottrina della sostanza che aveva individuato il contesto della sua genesi.
Il concetto di ente individuale, invece, nel quadro della filosofia empirica, tipica del mondo anglosassone, subisce un processo di decomposizione strutturale, in forza del quale esso viene sottoposto ad una procedura di astrazione virtualistica o, addirittura, diviene oggetto di un’opera di rimozione dall’ambito di pertinenza della stessa ricerca filosofica, che finisce per relegarlo in una posizione di fondamentale insignificanza speculativa. Così, al pari di quanto è avvenuto in merito al problema della sostanza , [25] nelle filosofie empiristiche e nelle antropologie virtualistiche delle quali il sistema hobbesiano rappresenta, insieme, un compendio ed un ineludibile punto cardinale, lo stesso principio d’individuazione viene a perdere il proprio incardinamento ad una visione realistica delle cose e, di conseguenza, resta privo di una sua propria funzionalità.
Una simile impostazione apre il varco ad una serie di prospettive di ricerca di respiro assai vasto. La direzione lungo la quale si posiziona il pensiero antropologico moderno, avente in Rousseau il suo teorico più fine ed incisivo, è quella tracciata da Duns Scoto, che già s’è avuto agio di citare: la direzione ovvero, delineata dall’identificazione dell’individuo, nella fattispecie dell’individuo umano, con l’«unità numerica», ovvero la singolarità elevata a concetto astratto, avulso da ogni determinazione particolaristica.
Deprivato del proprio ancoraggio sostanziale e divelto da una struttura referenziale autenticamente realistica, l’individualità umana si trova ad essere ridotta ad ente logico, puro concetto astratto, la cui definizione risulta funzionale allo svolgimento di un discorso dimostrativo sul quale si pretende di costruire una nuova disciplina, dotata di uno specifico statuto scientifico: quella cosiddetta scienza civile alla quale il Gentile ha felicemente attribuito la nota denominazione di geometria politico legale. Non si verifica, tuttavia, in questa prospettiva, una diversificazione dell’individualità umana rispetto alla nozione di persona: l’una e l’altra, infatti, sono pariteticamente sottoposti ad un processo di astrazione e di virtualizzazione che ne configura la struttura in corrispondenza di una fondamentale artificialità. Ne è tipica espressione la messa a punto che ne fa Hobbes:
“Una persona – leggiamo nel Leviathan – è colui le cui parole o azioni sono considerate o come sue proprie o come rappresentative delle parole o azioni di un altro uomo oppure di ogni altra cosa a cui vengono attribuite in verità o per finzione. Quando le parole si considerano sue, allora egli si chiama persona naturale e quando si considerano come rappresentative delle parole e delle azioni di un altro, allora egli è una persona fittizia o artificiale.”
[26] Ciò che va principalmente sottolineato, nella definizione di persona formulata dal filosofo inglese, è l’utilizzo dei verbi scelti per l’identificazione del soggetto cui viene predicato statuto personale, verbi, questi, alludenti non ad una afferenza reale degli atti selezionati per siffatto riconoscimento ad un dato ente, naturale o artificiale che sia, ma alla loro «considerazione» come atti propri di un dato soggetto . [27] Il momento discretivo per l’individuazione di una soggettività personale è dato, quindi, da un puro atto di volontà, totalmente svincolato da qualsivoglia ancoraggio «naturale». La persona, dunque, non presenta più alcun presupposto ipostatico: sia che venga riguardata come persona naturale, sia che venga invece concepita come persona artificiale, essa appare contrassegnata da una nota di costitutiva virtualità. “Quando le parole si considerano sue, allora egli si chiama persona naturale e quando si considerano come rappresentative delle parole e delle azioni di un altro, allora egli è una persona fittizia o artificiale”. [28] Il termine «uomo», pertanto, esattamente come il termine «persona» cessa così di possedere uno specifico riferimento alla realtà concreta delle cose. Uomo non è più «questo singolo individuo» appartenente alla specie umana; uomo è un dato ente che, per ipotesi, si possa concepire in guisa di soggetto dotato di volontà ed arbitrio: l’«uomo artificiale», lo stato, riguardato in una forma puramente soggettiva – anzi, personificato in un soggetto, il Leviatano – che, in quanto fornito di una volontà incondizionata, rappresenta l’esempio antonomastico della persona; e, parimenti, l’«uomo naturale», la cui naturalità, invero, non ha nulla di autenticamente «naturale», concreto, realistico, né, tanto meno, può riportarsi ad una «natura» ontologica delle cose, intesa in un senso essenzialistico; è, questa stessa naturalità, un mero paradigma ipotetico – convenzionale.
3. Il protocollo dello stato di natura e i diversi significati di «natura». Il paradigma dell’unico
Il metodo che viene ad affermarsi, dunque, è quello proprio della scienza geometrica, sviluppato attraverso le procedure della risoluzione e della composizione ed impiantato su principi primi aprioristicamente connotati da una strutturale positività. Nella fattispecie della filosofia giuridico politica – insegna magistralmente Gentile [29] – il protocollo di riferimento è costruito attraverso un procedimento ipotetico e consiste, precisamente, nella teoria dello stato di natura.
Sulla circumlocuzione fraseologica «stato di natura» va condotta una preliminare chiarificazione di ordine terminologico e concettuale. Per il lemma «stato» utilizzato in tale espressione, anzitutto, bisogna intendere una particolare «condizione» che si assume come la forma tipologica nella quale le relazioni intersoggettive, in una data situazione, circoscritta nello spazio e nel tempo, siano venute a configurarsi. Si tratta dunque di una specifica «condizione» e non invece, di un dato «modo di essere», di un habitus, quindi, dal quale possa inferirsi un qualche tipo di «ordinamento» dei rapporti umani.
Un secondo ordine di riflessioni va sviluppato intorno alla nozione di «natura»: Nicola Abbagnano identifica quattro diversi significati nei quali essa può essere intesa in filosofia : [30] Un primo significato è quello, propriamente metafisico, di «essenza sostanziale», ovvero principio dell’identità e del movimento di un dato ente individuale.[31] In siffatto contesto, la natura si identifica con il concetto di forma o essenza necessaria. La natura è, pertanto – afferma esplicitamente Aristotele – “la sostanza delle cose che hanno il principio del movimento in se stesse.” [32] La seconda accezione nella quale il concetto di natura è stato declinato, nella storia del pensiero, è quella, di origine stoica, coincidente con l’idea di un ordine metastorico, di una necessità fatalistica che deve ineluttabilmente tradursi ad effetto. [33] Tale concezione appare impregnare di sé tutta la cultura greca, soprattutto in età arcaica, trovando la propria più significativa manifestazione nelle tragedie di Eschilo e di Sofocle . [34] In una sua versione moderata[35] , essa ha concorso, in modo affatto cospicuo alla determinazione del giusnaturalismo classico, dottrina – com’è ampiamente noto – d’importanza capitale per la costituzione del diritto romano nonché fondamentale per tutta la giurisprudenza di età pre-moderna e per l’intera storia del pensiero giuridico.
Un terzo significato della natura è quello che la vede come una «esteriorizzazione» dello spirito immateriale di grado qualitativo inferiore rispetto all’originale. In questo senso, essa non è altro che un spirito diminuito, deprivato dei suoi caratteri propriamente interiori.
[36] Una quarta determinazione semantica, filosoficamente rilevante, del termine natura può essere rintracciata nel principio di delimitazione dell’ambito nel quale vengono analizzate, e sperimentalmente riprodotte, le tecniche percettive tipiche della conoscenza umana; in questo senso, tale concetto può ben essere rappresentato dalla nozione di campo naturale, considerato tanto come settore di ricerca circa le facoltà conoscitive dell’uomo, quanto come l’ambito di studio, il laboratorio, nel quale ha sede quell’attività di sperimentazione e di riproduzione dei fenomeni naturali che tipizza in modo precipuo la scienza moderna. [37] È in questa concezione scientifica, sperimentale, della natura che va collocata l’elaborazione moderna della figura dello «stato di natura». Quest’ultima pertanto va riguardata nei termini puntuali di un’«ipotesi» di carattere scientifico, un’ipotesi che nulla ha a che vedere con il dato propriamente conoscitivo della filosofia pratica, ma che, invece, trova la sua premessa fondativa nel fattore esclusivo dello specifico quadro teleologico in vista del cui conseguimento essa è stata posta, e cioè, in quell’attività di controllo coercitivo della prassi sociale – o, con fraseologia gentiliana, delle relazioni intersoggettive – nella quale il giusnaturalismo laico scorge l’unica garanzia per l’instaurazione ed il mantenimento della pace sociale.