BREVI NOTE SULLE RADICI DELLA «SELVA» DEI DIRITTI UMANI.
L’EVOLUZIONE DEI DIRITTI TRA RELIGIONE E POLITICA
di Torquato G. Tasso
Università degli Studi di Padova

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Abstract

This paper begins by noting, endorsed by Prof. Francesco Gentile, that the first declaration of human rights in the strict sense, can be traced back to the Declaration of Independence of the United States of America of 1776, and then check whether the continental declarations of human rights have deep roots in pre-classical and classical culture and tradition. In his necessarily very short excursus, the author identifies what might be the beginnings of the statements and identifies in religion the key element of these early manifestations of human rights.

1. I diritti umani agli albori del diritto. Le iscrizioni reali
2. Il mondo classico e i diritti umani. I fondamenti evidenti della convivenza
3. Una prima (semplice) interlocutoria riflessione
4. Verso un’idea «moderna» dei diritti umani. Evoluzione dell’elemento religioso e centralità del Cristianesimo
5. La nascita dello Stato Moderno. La traslazione della rotta
6. Per una dialettica interculturale e pluralista dei diritti. Il ruolo di Stato e religione in una prospettiva futura.

Volendo fare una semplice ricostruzione di quella che sia l’origine e l’evoluzione dell’idea di diritti umani e della relativa intricata «selva» , [1] cercando di risalire agli albori del diritto, non possiamo non partire da una constatazione di Francesco Gentile secondo il quale la prima vera dichiarazione dei diritti dell’uomo la si può, storicamente, far coincidere con la Dichiarazione di indipendenza degli Stati Americani, siglata a Filadelfia nel 1776 , [2] dichiarazione nella quale, per la prima volta, si dà vita ad una «rivendicazione di un diritto astratto, assoluto, proprio dell’uomo in quanto individuo» . [3] La prima vera dichiarazione che è stata scritta e nella quale si prendeva in considerazione l’uomo in quanto tale (e non l’uomo quale cittadino di un determinato stato come per i Bills inglesi, per esempio) è stata certamente la dichiarazione di Filadelfia.
La domanda che ci poniamo a questo punto è se questa dichiarazione che, come è a tutti noto, trovava la propria matrice culturale nel giusnaturalismo moderno, pur certamente rappresentando il primo formale riconoscimento dei diritti umani in quanto tali, possa però rappresentare la (prima) formalizzazione di un’istanza che abbia radici molto più profonde nel tempo. Compito di questa (breve e, per questo, superficiale) indagine è, quindi, verificare se vi siano alcuni spunti di riflessione giuridica in materia di diritti umani anche nell’età culturalmente (molto) precedenti alla rivoluzione americana, ossia quella classica e preclassica, radici che, molto spesso, vengono ignorate dagli autori.

1. I diritti umani agli albori del diritto. Le iscrizioni reali.
Volendo risalire alle prime tracce giuridiche dell’esperienza umana, dobbiamo certamente ritornare a quello che è a tutti noto come il «Codice di Hammurabi».
In realtà, quello che notoriamente viene denominato come il «Codice di Hammurabi» non presenta (quanto meno in gran parte) i caratteri che generalmente vengono riconosciuti all’idea di Codice, ossia di un testo ufficiale che racchiuda un insieme di precetti legislativi, predisposti e promulgati da un organo legislativo e diretti a regolare la vita dei consociati, in quanto per gli stessi obbligatori e cogenti.
Come è stato osservato , [4] invece, il «Codice di Hammurabi» in realtà contiene solo in parte delle disposizioni di legge e, nella sua complessità, si può far rientrare in quella (più ampia) categoria che notoriamente viene detta delle «iscrizioni reali», tipiche della tradizione mesopotamica preclassica.
L’«iscrizione reale» altro non è che un testo, che enumera le valorose gesta di un sovrano durante il suo regno, generalmente diviso in tre parti; nella prima sono elencati i titoli di merito del re, nella seconda (c.d. res gestae) vi è l’indicazione delle opere onorevoli da questi compiute in vita nei vari settori (dalla politica alla guerra, dalla edificazione alla giustizia etc.) e nella terza vi sono benedizioni o maledizioni nei confronti del successore e di chiunque, in genere, si trovi, dopo la morte del re, a leggere l’iscrizione stessa, a seconda di quello che sarà la sua condotta (di osservanza o meno) delle indicazioni in essa contenute. Ed il «Codice di Hammurabi» contiene, nella sua struttura, tutte e tre gli elementi costitutivi che si sono appena indicati.
Per venire però a quanto è di nostro interesse, si deve dire che l’elenco delle «leggi» (così numerose da determinarne l’appellativo di Codice) è contenuto nella parte dedicata alle res gestae, ossia alla valorizzazione celebrativa dell’attività del sovrano durante il suo lungo regno.
Certamente significativa, ai nostri fini, è l’inciso iniziale della sezione dedicata all’enumerazione delle regole legislative, in cui Hammurabi disvela il suo intento programmatico:
«Quando Marduk (il dio di Babilonia considerato da tutti come il più potente degli dei) mi comandò di dare giustizia al popolo del paese, e di fargli avere un giusto governo, io posi diritto e giustizia sulla bocca del paese e feci prosperare il suo popolo». In questo inciso, dunque, Hammurabi si pone come il fedele interprete della risoluta volontà divina, quasi ad essere colui che è venuto a realizzare i dettami supremi e che assume (vista la struttura appena ricordata delle iscrizioni) anche l’onere di tramandare ai posteri tale sua opera.
Senza voler approfondire ulteriormente gli elementi semantici che giustificano tale assunto, che ha trovato terreno fertile nelle discussioni dottrinali, si può certamente concludere che, con il citato incipit, il re Hammurabi non vuole affermare di aver promulgato un atto legislativo che viene ad ordinare la vita degli uomini, quanto per converso ricordare, con un malcelato intento celebrativo, la sua opera di orientamento della comunità verso il riconoscimento e la condivisione di regole di convivenza generalmente accettate come «giuste» su incarico della divinità, vuole cioè porre l’accento sul suo compito di garante dell’applicazione delle regole e non sull’opera creativa delle stesse, che non gli appartiene.
Una lettura anche sommaria delle parti del c.d. Codice, che seguono l’introduzione così apodittica, ben fa comprendere come le regole, le leggi non sono prescrizioni imposte dall’alto, ma sono un’insieme di regole che, grazie all’opera educativa del sovrano, sono state seguite, rispettate e correttamente applicate durante il regno di Hammurabi. Queste regole, quindi, lungi da essere l’espressione di un comando del sovrano, rappresentano quasi una sorta di consuetudine sociale; non si è in presenza di un Codice classicamente inteso, ma è la rappresentazione di una vita della comunità, che viene organizzata e regolata all’interno di un quadro normativo, di matrice consuetudinaria, la cui osservanza è stata garantita dalla costante assistenza ed incessante intervento del re .
[5] Ai fini del presente contributo, è interessate soffermarci sul prosieguo dell’incipit ossia laddove nel Codice si legge la finalità principale dell’opera del re:
«Affinché il potente non opprimesse il debole, e per dare giustizia all’orfano e alla vedova, io scrissi le mie preziose parole sul mio narû (ossia l’iscrizione reale) (…) per “far elevare” l’oppresso».
Quindi, la principale finalità perseguita da Hammurabi era quella di dare ristoro all’ingiustizie sociali, con una sorta di riequilibrio dei torti patiti dai più deboli (orfani e vedove) da parte dei loro ingiusti oppressori.
A questo punto della nostra indagine, si deve ricordare come in realtà il «Codice», nonostante sia opera certamente importante per originalità, si inserisca comunque nella tradizione della produzione letteraria dell’età antico-babilonese, all’interno della quale forse spicca prevalentemente per la particolare integrità del testo recuperato, più che per l’effettiva novità del contenuto.
Molti altri sono i testi, anche notevolmente più antichi, che mostrano elementi strutturali molto simili a quelli del Codice appena visto ma, invece, pervenuti in una condizione di conservazione gravemente alterata. Tra questi gli studiosi annoverano il cosiddetto «Codice» di Ur-nammu re di Ur (città a sud di Babilonia, e risalente alla fine del XXII – inizi del XXI sec. a.C.), scritto in sumerico che in alcuni punti sembra testualmente sovrapporsi al codice di Hammurabi. Ed ancora, il «Codice» di Bilalama, re di Ešnunna, risalente al primo quarto del XX sec. a.C., il cui contenuto converge in gran parte con gli argomenti del testo di Hammurabi, per giungere poi al «Codice» di Lipit-Ištar, re di Isin, della seconda metà del XX sec. a.C., anche questo scritto in sumerico, che, malgrado la lacunosità del recupero testuale, appare anch’esso ad immagine e somiglianza dei codici precedenti e successivi.
Anche la stessa finalità sociale, di cui si è suaccennato, ed in particolare il topos delle vedove e degli orfani quali soggetti particolarmente deboli, era il frutto di una tradizione letteraria che aveva radici molto profonde all’interno delle iscrizioni reali: a partire dal re sumerico Uruinimgina di Lagaš (XXV secolo a.C.) questo topos del re protettore dell’orfano e della vedova si reitera in numerose occasioni in iscrizioni successive.
La particolare corrispondenza fra i testi dei vari Codici di età così diverse, ha fatto sì che una parte sempre più consistente degli studiosi ha cominciato a parlare di una sorte di common law, ossia di un bacino di norme di carattere consuetudinario, che avevano grande diffusione all’interno delle comunità mesopotamiche, recepite, custodite e fatte osservare dalle varie organizzazioni politico-costituzionali che avevano caratterizzato la vita politica della regione dal XXIV secolo a.C. fino ad Hammurabi (XVIII sec. a.C.).
Volendo quindi, vedere nelle iscrizioni reali e, in particolare, nei c.d. codici mesopotamici, i primi barlumi di diritti umani, si può dire che questi avevano trovato un primo nucleo proprio nella tradizione consuetudinaria di quei popoli che, come detto, avevano identificato una serie di diritti che dovevano essere riconosciuti a tutti, in quanto corrispondenti, nella tradizione, al trattamento minimo che doveva essere riconosciuto al più debole, e che da tutti venivano riconosciuti come essenziali alla pacifica convivenza.

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