RONALD COASE E L’ANALISI ECONOMICA DEL DIRITTO.
OSSERVAZIONI CRITICHE
di Carlo Lottieri
Università degli Studi di Siena
In una società basata sul più rigoroso rispetto del diritto dei titolari, l’elevato numero di proprietari terrieri da interpellare (al fine di acquistare il terreno e il diritto a “invadere” con cattivi odori e altre immissiones le proprietà vicine) e l’alta probabilità di trovare ostacoli (poiché qualcuno sarà certamente indisposto a vendere) hanno fatto sì che un progetto tanto importante non abbia visto la luce. La ricorrente obiezione alle tesi proprietariste è che se esse fossero coerentemente accolte non si potrebbe realizzare nulla.
Ma tale riflessione è figlia non soltanto di una limitata comprensione delle dinamiche di mercato (e dei loro effetti anche sul diritto), ma anche di un deplorevole oggettivismo che non dovrebbe mai segnare discussioni che vertono, in un modo o nell’altro, sulla teoria del valore. La discarica assolutamente necessaria forse non era poi così utile e neppure tanto necessaria, se vi sono persone che non vogliono trovarsela nel loro terreno, e se quanti ne trarrebbero beneficio – direttamente o indirettamente – non sono disposti a pagare ciò che i titolari ritengono essere il giusto compenso per il bene a cui rinunciano.
Se intendo costruire una discarica non devo soltanto chiedermi quale possa essere il costo della sua costruzione materiale: devo anche domandarmi quanto vorranno i proprietari in cambio dei danni che subiscono e quanto mi costerà organizzare un apparato commerciale e negoziale necessario ad ottenere tutte le autorizzazioni di cui ho bisogno. Se non tenessi in considerazione tali oneri sarei come un imprenditore che pretendesse di ignorare, tra i costi da sostenere, gli stipendi per i propri dipendenti o i pagamenti dei fornitori. E se devo fare i conti con fornitori (in questo caso, i proprietari dei terreni che devo acquisire e/o danneggiare con le esternalità delle mie iniziative) non posso certo presumere che sarò io a fissare il prezzo in maniera unilaterale.
Va aggiunto che lo stesso valore dei titoli di proprietà sull’aria salubre che vado a inquinare, così come viene percepito dai proprietari, è fortemente influenzato dalla mia decisione di avviare il progetto di una discarica. [42] Nel momento in cui mostro interesse a realizzare tale impianto le pretese altrui si modificano. D’altra parte, la corsa di ogni titolare ad aumentare le proprie richieste, giocando in maniera opportunistica, è tutta inscritta nei feedback risultanti da queste interazioni e sarà semmai un mio problema saper gestire al meglio le relazioni con i potenziali venditori, in modo da contrastare quanto più è possibile la loro tendenza ad aumentare le pretese e in modo da evitare che ci possano essere titolari in grado di valorizzare a mio scapito, quali proprietari residuali (devo acquistare cento autorizzazioni da cento proprietari privati, ne ho già acquisite 99 e me ne manca soltanto una), la loro posizione strategica. In questo caso, ad esempio, sarà necessario sottoscrivere soltanto contratti condizionati.
Nel momento in cui la soluzione proprietaristica è considerata irrealistica (troppo complicata, costosa, destinata a moltiplicare le difficoltà di quanti intendono “fare” e “costruire”) è importante avere sempre di fronte agli occhi lo stallo – soprattutto all’interno di società non autoritarie – conosciuto dalle procedure di tipo verticistico, le quali pretendono di vittimizzare questo o quel gruppo sociale e scaricano su una zona ben determinata i costi connessi ad opere di cui si avvantaggeranno primariamente altre persone. I cosiddetti “effetti NIMBY” sono l’esito naturale e prevedibile di procedure che prescindono dal riconoscimento dei diritti di proprietari e che quindi si rifiutano di avviare una seria trattativa con chi è interessato dalle conseguenze negative di questa o quella realizzazione.
Quanti ritengono che un ordine economico-sociale basato sulla proprietà risulterebbe troppo barocco e alla fine bloccherebbe la possibilità stessa di realizzare qualsiasi tipo di infrastruttura sottostimano anche la capacità degli ordini di mercato (rectius, degli imprenditori) di trovare soluzioni giuridiche e tecniche atte a sormontare simili ostacoli. In un suo formidabile scritto sull’ordine urbanistico liberale dell’Inghilterra del XVIII e del XIX secolo – senza zoning e senza pianificazione del territorio – Stephen Davies ha mostrato come la crescita urbana inglese sia stata «spontanea e non dovuta per nulla a pianificazioni o regolamentazioni statali. (…) La chiave fu l’uso sofisticato dei diritti di proprietà, che produssero una forma di sviluppo e crescita decentralizzati e che reagirono al mercato». [43] In sostanza, in assenza di un potere che pretendesse di espropriare e pianificare, erano proprio quanti costruivano quartieri e lottizzavano terreni a definire sui loro stessi beni quei vincoli in grado di permettere il più agevole sviluppo di infrastrutture comuni e che fissavano titoli collettivi atti a semplificare i processi di negoziazione e a migliorare la convivenza.
Ovviamente è questa la logica del condominio o delle stesse servitù, grazie a cui è possibile determinare per via contrattuale [44] titoli comuni in grado di semplificare tutta una serie di ipotetiche situazioni future, pur senza rappresentare in alcun modo una violazione dei diritti di proprietà. A ben vedere, ritroviamo qui – in un ambito appena in parte differente – la stessa logica dell’azienda esaminata da Coase nel suo scritto del 1937: a dimostrazione che in linea di massima è il mercato, da intendersi come interazione volontaria e consensuale, a rinvenire le migliori soluzioni ai problemi della cooperazione e della convivenza.
In assenza di una pianificazione coercitiva ci si può ragionevolmente attendere l’emergere di autolimitazioni tali da permettere che in molti casi non sia necessario interpellare ogni proprietario, poiché la forma stessa della titolarità sui beni è stata concepita in modo da confidare a qualche soggetto una speciale delega a negoziare su determinate questioni.
[45] 7. Conclusione
Alla base dell’analisi neoclassica prevalente nelle riflessioni in tema di esternalità ci sono allora tre premesse implicite.
La prima – non già di carattere economico, ma di carattere filosofico-politico – è che il beneficio di quanti trarranno vantaggio ad esempio dalla discarica (i non proprietari) debba prevalere sul danno subito da quanti non vogliono che le esternalità causate dai rifiuti altrui invadano i loro beni e ne comportino un deprezzamento (i proprietari), i quali ultimi magari non individuano alcun prezzo che possa compensare la menomazione delle loro case. Il quadro normativo dell’economia mainstream ignora i diritti di proprietà, in quanto trasforma questi ultimi in semplici attributi legali e quindi predispone a ridistribuire i titoli dagli uni (nel caso evocato, i proprietari) agli altri (i titolari della discarica). Ma la radice profonda di questo atteggiamento va riconosciuta nel mito moderno dell’interesse generale: nell’idea che quando io opero come costruttore di una discarica e sono investito di ciò dai poteri pubblici, il mio agire in nome della volontà generale e nell’interesse di tutti debba farmi abbandonare quelle considerazioni giuridiche fondamentali che focalizzano l’attenzione sui diritti dei proprietari terrieri.
La seconda premessa è che sia possibile misurare benefici e costi, e che quindi si possa individuare la scelta più razionale: quella che aumenta il benessere complessivo. È chiaro, però, che tutto ciò è incompatibile con una teoria sufficientemente avvertita di ciò che è davvero il valore e con una seria riflessione, come abbiamo visto, sui benefici soggettivi (psichici) che possono derivare ad una persona o ad un’altra.
La terza premessa è che esistano azioni costose in assoluto (da qui la nozione di costi di transizione) e che, se queste sono eccessivamente numerose, molte negoziazioni semplicemente non avranno luogo.
A tale proposito, riprendendo il caso sopra descritto, se davvero molte persone che vivono in una data area hanno assoluto bisogno di una discarica, è ragionevole attendersi alcune conseguenze. Per l’impresa interessata a costruire l’opera è chiaro che la prevista alta utilità dell’infrastruttura è indice della possibilità di realizzare consistenti profitti. Questo significa, che l’impresa – anche grazie al mercato del credito – è in condizione d’avere enormi risorse a propria disposizione per comprare il consenso degli proprietari, riducendo la possibilità che pochi di loro rendano impossibile il progetto.
Se questo non avviene, è lecito sospettare che si tratti di un’iniziativa non così remunerativa e, quindi, non in grado di compensare i danni arrecati a quanti sono chiamati a subire le esternalità di quell’azione.
Per giunta, l’eventualità di trovarsi in un’area scarsamente servita da infrastrutture fondamentali potrebbe indurre molti attori economici ad optare per altre regioni, dove una o più imprese abbiano già provveduto ad acquistare i titoli legittimi necessari a realizzare tali realtà davvero essenziali per la vita civile e anche per la produzione. Questo può indurre molti proprietari a mutare atteggiamento (al fine di non vedere deprezzato il proprio capitale immobiliare) e può pure rappresentare una forma di pressione “sociale” sui proprietari più ostili all’ipotesi di vendere il bene posseduto o accettare il pacchetto includente il danno e la compensazione.
Se vi è un interesse consistente da parte di molte persone a che quell’opera sia realizzata è difficile supporre che i costi di negoziazione siano tanto alti da scongiurarne la realizzazione.
Per di più, questi costi non solo sono ignoti, ma sono pure essenzialmente (come abbiamo visto) di natura informativa. C’è però da chiedersi per quale ragione il pianificatore centrale possa essere posto in condizioni migliori dei singoli attori: l’impresa e i proprietari terrieri. Come spesso succede nella vita, non vi è alcuna certezza che l’ipotesi prospettata sia razionale o, in altri termini, che il progetto di costruire quella discarica – lì e con quelle determinate tecnologie – sia economicamente vantaggioso. Certo è meglio lasciare l’onere del rischio ai soggetti imprenditoriali, che dispongono di informazioni “locali” e disperse e che, soprattutto, essendo chiamati a sostenere direttamente gli oneri (e quindi a pagare le conseguenze di un eventuale fallimento dell’iniziativa) sono più orientati ad operare in maniera avveduta di quanto non faccia un decisore pubblico.
Anche sul piano di un’analisi strategica dei probabili comportamenti degli individui, è insomma ragionevole ipotizzare che la scelta di tutelare rigorosamente i diritti di proprietà possa portare a soluzioni largamente soddisfacenti. Perché, in linea di massima, bisogna sempre ricordare che il prevalere di buone teorie (conformi ai principi di giustizia e non in dissidio con la razionalità umana) favorisce lo sviluppo di una migliore convivenza.