RONALD COASE E L’ANALISI ECONOMICA DEL DIRITTO.
OSSERVAZIONI CRITICHE
di Carlo Lottieri
Università degli Studi di Siena

Ancora una volta l’analisi austriaca appare di notevole utilità, con la sua teoria dell’azione e la stessa impossibilità che da ciò ne deriva di individuare – all’interno di una negoziazione – un vincente e uno sconfitto, uno sfruttatore e uno sfruttato. Il negoziante che da cui acquisto frutta e verdura mi serve e quindi io traggo beneficio dal suo lavoro (lui produce, io consumo), ma è ugualmente vero l’opposto, perché nel momento in cui vado nel suo negozio io gli sono utile, poiché egli trae un beneficio e un profitto, e io quindi mi metto ugualmente al suo servizio. D’altra parte, come più volte è stato sottolineato, il denaro che consegno al fruttivendolo è una “merce” esattamente come i pomodori e le patate che egli mi ha venduto.
[38] Per di più, nelle scelte di un individuo razionale non vi sono costi puri (e neppure, in generale, benefici puri), ma opzioni che comportano un mix di aspetti variamente positivi e negativi. Questo mix viene comunque scelto perché è preferito ad altre alternative.
Analogamente, nella transazione tra un “compratore” (colui che riceve il bene) e un “venditore” (colui che riceve il denaro) se si vuole vedere un costo bisogna indagare analiticamente all’interno di questo mix di aspetti positivi e negativi che ogni scelta comporta. Se si vuole in qualche modo salvare il concetto di costo entro un quadro teorico rigoroso bisogna usarlo per individuare quegli elementi a dispetto dei quali noi scegliamo comunque di entrare in una relazione con altri.
Nel mondo reale non vi sono azioni assolutamente costose o scambi assolutamente costosi. La nozione di costo è euristicamente difendibile solo entro una prospettiva che sappia estrarre, muovendo da una nostra concreta scelta o da una nostra negoziazione, ciò che accettiamo solo perché compensato da un beneficio maggiore, ma che avremmo scartato in assenza di quel complemento. In generale, in effetti, entro una scelta posso riconoscere – al tempo stesso – cose che gradisco e altre di cui farei volentieri a meno (anche solo perché compiendo quella scelta rinuncio ad ogni altra possibilità). Queste ultime sono i costi. Ma se io compio una certa azione (acquisto una motocicletta, compro un giornale specializzato, giro intere settimane per negoziare con proprietari, ecc.) è perché la parte onerosa è da me giudicata inferiore alla parte vantaggiosa. È perché i benefici sopravanzano i costi.
Se passo intere giornata entrando e uscendo da negozi, è possibile che questo sia un costo che sopporto in virtù del fatto che ciò mi serve a comprare un prodotto più soddisfacente. E questo non è più neppure vero se invece trovo rilassante e divertente frequentare boutique, provare vestiti, e così via.
La stessa rinuncia ad una somma di denaro non è necessariamente un costo se, ad esempio, sto acquistando a un prezzo “molto alto” un oggetto di “poco valore” – secondo categorie neoclassiche – in occasione di una manifestazione volta a raccogliere fondi per una causa di cui sono un fervente sostenitore (la lotta contro il cancro, la diffusione delle idee libertarie, l’annuncio della rivelazione cristiana, o altro).
Unicamente nella prospettiva soggettiva di un attore che compie una scelta è ancora possibile salvare la nozione di costo, che però risulta percepibile – ripeto – soltanto entro un quadro analitico e soltanto da chi valuti introspettivamente le componenti apprezzate e quelle che non lo sono (e cioè dall’attore stesso). Quando scelgo una data soluzione nonostante X, ecco che nonostante X è il costo che io accetto di sostenere. Nel mix che di elementi positivi e negativi che vado ad accettare, X è ciò di cui farei volentieri a meno, ma non al punto da rinunciare a quella transazione.
In generale possiamo dire che quando compro pomodori e patate il mio costo è la somma che do al fruttivendolo, e il suo costo è la verdura che mi consegna. Ma non è per nulla scontato che questo schema (con tutti i suoi sottintesi teorici: a partire dall’adozione di una moralità rigidamente utilitaria) possa essere utilmente impiegato in ogni caso e situazione.
Lo studioso che ha offerto la riflessione “austriaca” più approfondita e teoricamente rigorosa di tali questioni è un economista che, a rigore, difficilmente potrebbe essere collocato a pieno titolo entro quella tradizione: James M. Buchanan. È però vero che in Cost and Choice egli offre una solida interpretazione del carattere radicalmente soggettivo del costo la quale sviluppa, per esplicita ammissione dell’autore, temi che provengono proprio dagli austriaci.
[39] Riprendendo liberamente le sue riflessioni si possono analiticamente distinguere: (a) un giudizio soggettivo, totalmente mentale e scollegato da ogni alternativa, il quale descrive solo il nostro interiore apprezzamento di un certo bene; (b) un valore soggettivo, che fa i conti con altre realtà e con i vincoli dati dalle opinioni altrui: esso definisce – ad esempio – il limite al di sotto del quale il titolare non è disposto a cedere un proprio bene; (c) un valore di mercato, che emerge dalla concreta negoziazione e che – per restare al nostro esempio – può anche essere molto superiore al limite sotto del quale non sono disposto a scendere (la differenza tra valore soggettivo e valore di mercato delinea quello che soggettivamente reputo essere il profitto che ho tratto da questo scambio).
Il giudizio soggettivo è l’intensità dell’apprezzamento che io dentro di me esprimo a proposito di una motocicletta di mia proprietà; il valore soggettivo può essere definito dalla prima cifra in euro o in dollari che sono disposto ad accettare per rinunciare alla mia motocicletta; il valore di mercato è il prezzo effettivo che posso ottenere nel momento in cui cerco e trovo un acquirente.
Non c’è quindi alcuna identità tra valore soggettivo e valore di mercato, né vi è alcuna possibilità di conoscere il valore soggettivo che altri individui attribuiscono ai beni di cui sono legittimi titolari.
Quando assistiamo ad una concreta negoziazione (A cede una motocicletta a B in cambio di 10 mila €) ciò che sappiamo è che il valore soggettivo che A attribuisce alla motocicletta ceduta è inferiore a 10 mila €, mentre B attribuisce a quello stesso bene un valore soggettivo che è superiore a 10 mila. Solo per esemplificare quanto detto, possiamo supporre – ma non vi è alcuna possibilità di saperlo! – che per A la motocicletta valga 9 mila € (che questo sia il valore soggettivo attribuito da A) e che per B la motocicletta valga 12 mila € (che questo sia il valore soggettivo attribuito da B). Con la negoziazione è ovvio che entrambi hanno tratto un profitto, per definizione, e in particolare il profitto di A è stato di mille euro (10 mila meno 9 mila), mentre quello di B è stato di duemila euro (12 mila meno 10 mila).
Presentate le cose in questi termini si ha l’impressione che non si conosca il costo di A (la scelta di mettere 9 mila euro è del tutto arbitraria), mentre si conoscerebbe il costo di B (che rinuncia a 10 mila euro per avere la motocicletta). In realtà, però, questo è solo un effetto ottico indotto dalla monetarizzazione dell’economia e dal fatto che un bene tra gli altri abbia assunto il ruolo di numerario.
In un universo in cui il numerario fosse rappresentato dall’unità M (motociclette), così come in passato si usarono le pecore o le conchiglie, tutto il ragionamento verrebbe rovesciato. B rinuncerebbe a 10 mila monete da un euro in cambio 1 M, e quindi conosceremmo il costo sostenuto da B per avere tutte quelle monete, mentre sarebbe per noi un poco misterioso il valore in M dei pezzi di metallo da un euro a cui A rinuncia: il costo sopportato da quest’ultimo. Potremmo solo affermare con certezza che egli valuta il valore di 10 mila di quelle monete come superiore a 1 M.
[40] È del tutto evidente, insomma, che in senso proprio i costi esistono solo nella mente degli attori e che ogni pretesa di calcolare e sommare i costi (compresi quelli di transazione) è del tutto infondata.

6. Economia neoclassica, pianificazione, principi liberali

Come molti economisti neoclassici, Coase ha compreso in maniera assai limitata le ragioni della teoria soggettiva del valore. Certo egli ha inteso che nella negoziazione entrambi gli attori traggono beneficio e che quindi lo scambio produce un mutuo vantaggio in ragione del fatto che gli attori hanno preferenze e si trovano in condizioni assai diverse. Ma l’apparato concettuale positivista gli ha impedito di cogliere che anche nel corso della fase che precede la sottoscrizione di un’intesa o la rottura dell’accordo stesso gli attori ritengono di trarre benefici (altrimenti non sarebbero lì a cercare di raggiunge un’intesa!).
La (apparente) ragionevolezza della riflessione di Coase sui costi di transazione e sul ruolo del decisore pubblico quale “ottimizzatore” poggia sul fatto che in molti casi vi sarebbero iniziative assolutamente necessarie che non hanno luogo perché i negoziatori potenziali non si lanciano in alcuna trattativa o anche perché le trattative avviate non vanno in porto.
Sullo sfondo di tante analisi neoclassiche c’è l’ipotesi di una società libertaria, basata sul più rigoroso e “dogmatico” rispetto dei diritti di proprietà, in cui si sarebbe potuta costruire – ad esempio – una discarica per rifiuti solidi urbani assolutamente necessaria, che però non ha visto la luce per colpa di un alto numero di proprietari restii a cedere i loro terreni o farsi “invadere” da varie forme di esternalità. [41] Ai neoclassici appare evidente che il valore della struttura assolutamente necessaria sia maggiore della somma dei danni arrecati ai proprietari e che essa non si sia realizzata, a dispetto della razionalità economica degli attori, a causa degli alti costi di transazione. Oltre a questo, è molto frequente la tesi – variamente hobbesiana anche quando formulata nel linguaggio della teoria dei giochi – secondo cui l’interazione spontanea tra proprietari produrrebbe situazioni bloccate e perdenti, poiché in assenza di una costrizione esterna gli attori stessi sarebbero incapaci di raggiungere la soluzione per tutti più favorevole.

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