RONALD COASE E L’ANALISI ECONOMICA DEL DIRITTO.
OSSERVAZIONI CRITICHE
di Carlo Lottieri
Università degli Studi di Siena

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Abstract

The paper investigates Ronal Coase´s article on social cost (so important for the development of Law & Economics) and it points out how it gave important contributions for the understanding of the reality, but at the same time it had negative effects on the theory and the practice of law.
The economic analysis of law implies the reject of the property rights as natural rights, postulates an objective theory of value and, by consequence, supports the idea there are actions which are costly per se.

 

L’analisi economica del diritto (nel mondo anglosassone: Law and Economics, L&E) occupa ormai una posizione di rilievo all’interno delle scienze sociali. A partire dagli anni Sessanta gli studi su tematiche giuridiche e politiche che utilizzano gli strumenti dell’economia si sono moltiplicati ed è innegabile che il ricorso a tali metodi si sia spesso rivelato fecondo, producendo risultati di notevole interesse.
Ovviamente non sono mancate, e neppure mancano tuttora, opposizioni anche nette. A questo proposito ha ragione Bertrand Lemennicier quando afferma che la diffusa reticenza ad accogliere l’analisi economica all’interno della discussione su questioni sociali e morali discende spesso dal fatto che numerosi studiosi – e in questo i giuristi non fanno difetto – rifiutano di essere chiamati a fare i conti con la realtà e con i vincoli che impone.
[1] È ad ogni modo abbastanza comprensibile che sia subito emersa una sintonia tra gli economisti e i giuristi più sensibili alla tesi secondo cui il diritto sarebbe il frutto di relazioni interpersonali (l’idea del “diritto come rapporto”). In linea generale, la scienza economica adotta una metodologia individualista e quindi sottende l’idea che per comprendere i fatti economici si debba muovere dalla comprensione dell’azione dei singoli e del loro imprevedibile comporsi. Ugualmente, l’economia è disciplina che implica un’ipotesi di razionalità (sebbene in senso “limitato”) dell’attore e quindi i giuristi che si sono accostatati alla L&E hanno dovuto in qualche modo fare loro questo presupposto. [2] Questa enfasi sull’individuo razionale aiuta a comprendere come la L&E sia stata percepita fin dall’inizio come una tradizione di studi largamente liberale. Oltre a ciò è sicuramente vero che molti dei suoi esponenti maggiori (da Ronald Coase a Harold Demsetz, a Richard Posner) si collocano tra quanti in vario modo valorizzano il ruolo del libero mercato nella società.
Ma è importante sottolineare che nel momento in cui il diritto incorpora l’economia (e lo stesso si può dire per l’incontro tra economia e scienza politica, nel caso degli studi di Public Choice) quello che viene ad imporsi è un paradigma teorico assai ben definito. Sullo sfondo delle riflessioni giuseconomiche è riconoscibile il modello neoclassico, basato su una prospettiva teorica che – anche se si vuole “neutrale” e avalutativa – è in realtà fortemente dominata da una prospettiva culturale di matrice positivista, come è confermato dal consenso ottenuto da quegli studi econometrici che pretendono non soltanto di esaminare la vita produttiva utilizzando la matematica, ma che di fatto operano una costante riduzione delle relazioni interpersonali a schemi assai semplificati.
[3] In questa riflessione ci si propone allora di offrire un’analisi di taluni presupposti teorici che sono alla base dell’analisi economica del diritto e in particolare di quell’articolo scritto nel 1960 dall’economista inglese Ronald Coase con cui si sono poste alcune delle basi fondamentali di tale ambito di ricerca. [4] L’attenzione si concentrerà su tre aspetti distinti.
In primo luogo si richiamerà l’attenzione su come in Coase si sia operata una critica molto dura nei riguardi della welfare economics di Arthur Pigou[5] : dall’idea del costo sociale si è quindi passati alla nozione di esternalità economica. L’impresa che emette fumi non inquina più un’indefinita “società”, ma invece soggetti ben individuati, anche se non sempre questo riconoscimento può essere agevole. Per questo motivo l’alternativa alle soluzioni pigouviane (tasse e regolamentazioni) può venire da una contrattazione tra chi vorrebbe inquinare e chi è disposto ad accettare tale danno solo a determinate condizioni.
Una particolare considerazione sarà però riservata anche alle implicazioni etico-politiche. Lo sfondo della riflessione coasiana è chiaramente utilitaristico, come quello della maggior parte degli economisti contemporanei. Se Coase è spesso ritenuto un liberale proprio per l’attenzione riservata ai diritti di proprietà e al ruolo che la negoziazione gioca all’interno della sua teoria, è però evidente come in tale riflessione (e di conseguenza in larga parte della L&E) si assista a una dissoluzione della tradizione propriamente lockiana, basata sull’idea di diritti naturali individuali. A partire dal “teorema di Coase” [6] si è infatti chiamati a fare i conti con un autentico imperialismo economico, dato che l’economia non si limita ad offrire qualche servizio strumentale alla riflessione giuridica, ma finisce invece per individuare nell’efficienza e nella massimizzazione economica il criterio ultimo in grado di distinguere tra ciò che è legittimo e ciò che non lo è. [7] È chiaro che nel presentarsi quale disciplina neutrale e avalutativa l’economia contemporanea lascia spesso intendere di voler lasciare ad altro ambito (in qualche modo valoriale) la decisione ultima: ma già questa prospettiva – che pretende di immaginare scienze umane che prescindano da ogni antropologia filosofica e da ogni comprensione dell’uomo e dei suoi fini – si espone alle difficoltà che sono proprie della Wertfreiheit weberiana e della cosiddetta legge di Hume. [8] In terzo luogo, si affronterà il tema dei costi di transazione alla luce della analisi austriaca sul valore soggettivo e anche sulla peculiare riflessione in merito al tempo. In tal modo ci si propone di evidenziare alcuni tra i limiti teorici più evidenti del paradigma economico neoclassico (specie nei suoi schemi concettuali walrasiani) e di sottolineare come il giurista – soprattutto nel momento in cui svolge una funzione sociale cruciale (quale giudice, ad esempio) – non debba fare affidamento su schemi esplicativi e su modelli che rinviano a ipotesi assai astratte e irrealistiche e che, per tale motivo, appaiono inadeguati ad offrire un ausilio nella soluzione di controversie e vertenze.
A ben vedere, tutti questi temi sono intrecciati, così che nel presente scritto la critica ai limiti dell’economia teorica mainstream – quale sotteso implicito alla L&E – si convertirà a più ripresa in una contestazione dell’idea che l’economia possa essere considerata una scienza estranea a ogni dibattito morale, quale disciplina integralmente avalutativa (wertfrei).

1. Ronald Coase e le origini della L&E

Nella storia della L&E l’importanza del teorema di Coase non può essere sottostimata, ma tale saggio non è l’unico lavoro di rilievo che si deve allo studioso inglese.
Già nel 1937, infatti, egli aveva realizzato un testo di notevole spessore – “The Nature of the Firm” – nel quale contrapponeva la logica dello scambio (propria del mercato) e quella dell’organizzazione (caratteristica dell’impresa). [9] L’istituzione produttiva verticale emergerebbe proprio per ridurre i costi di transazione e in questo modo essa offrirebbe un’alternativa efficace alla complessità di costose interazioni puntuali: scambi e contratti, in primo luogo. [10] Storicamente, la stessa impresa industriale moderna si è affermata soppiantando una miriade di artigiani che contrattavano e sostituendo tutto ciò con una struttura unitaria basata sul rapporto gerarchico tra l’impresa come insieme e i singoli dipendenti. [11] Quando si assiste al sorgere della fabbrica, è proprio l’efficienza dell’organizzazione aziendale centralizzata che soppianta l’inefficienza della rete delle piccole realtà artigiane.
Un altro articolo coasiano molto celebre è successivo di alcuni decenni (risale al 1974) e prende di petto – sia sul piano storico che su quello teorico – il tema dei beni pubblici. [12] Al centro del testo c’è la questione del faro, classicamente inteso come un bene pubblico e quindi, negli schemi tradizionali, bisognoso di essere finanziato con la tassazione. Come sottolinea lo stesso Coase, «il faro è stato usato da molti dei maggiori economisti – da John Stuart Mill a Samuelson – come esempio di un servizio che deve essere prodotto dallo Stato»: se si mostrasse che le cose non sono andate così, allora, si potrebbe mettere in discussione uno dei pilastri della teoria economica prevalente. [13] Nei manuali di scienza economica, si parla della necessità di riconoscere l’esistenza di beni pubblici di fronte a due questioni essenziali: la non escludibilità nel consumo (così che, a causa del free-riding, in talune situazioni sarebbe impossibile evitare che qualcuno si avvantaggi della produzione di un bene che egli stesso non finanzia) e l’assenza di rivalità nel consumo (che si ha quando l’utilizzo da parte di alcuni individui di un dato bene non ne fa diminuire la quantità a disposizione di altri). Nel caso dei fari impiegati per la navigazione si è sempre ritenuto che si fosse di fronte a tipici beni pubblici dato che l’utilizzo della luce notturna da parte di qualche nave non diminuisce il servizio a disposizione per gli altri; inoltre si afferma che esso non potrebbe essere prodotto privatamente in ragione del forte incentivo a utilizzare in maniera parassitaria quanto è finanziato da altri. Ciò porterebbe a un disincentivo – in assenza di intervento pubblico – a realizzare fari, poiché solo alcuni sarebbero costretti a sostenerne il costo a beneficio di tutti, e quindi si avrebbe una produzione subottimale di tale servizio.
Nel suo scritto, Coase offre un’analisi storica nella quale evidenzia come nell’Inghilterra del Settecento i fari fossero prodotti privatamente, senza ricorso all’imposizione fiscale. A quel tempo, «i proprietari delle imbarcazioni e gli spedizionieri marittimi potevano richiedere alla Corona di concedere ad un privato di costruire un faro e di fare pagare un pedaggio (specifico) alle imbarcazioni che ne beneficiassero».
[14] Entrambi i saggi, risalenti al 1937 e al 1974, danno importanti indicazioni sul contributo di Coase alla teoria economica contemporanea e mostrano punti di contatto con i temi e l’intenzione del saggio del 1960. È quest’ultimo testo, ad ogni modo, che rappresenta il punto di partenza fondamentale per l’analisi economica del diritto, e quindi per quell’ambito di ricerche che negli ultimi decenni ha in vario modo condizionato l’agire di giudici e legislatori. In taluni ambiti – basti pensare all’ambiente – le tesi coasiane vanno acquisendo un rilievo crescente e la loro influenza è davvero significativa nella formazione dei nuovi economisti e giuristi. [15] Quando fu pubblicato sul Journal of Law and Economics, l’articolo fu accolto da più parti quale espressione di una rinascita dell’economia liberale e come premessa ad una rivalutazione dei diritti di proprietà. Questo giudizio si deve al fatto che nel saggio di Coase viene sottolineato come le esternalità vadano affrontate definendo e/o riconoscendo i titoli di proprietà, per poi lasciare operare quanto più spontaneamente sia possibile quella negoziazione dei titoli in grado di favorire soluzioni preferibili a quelle dettate dalla regolamentazione.

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