SULLA CONCEZIONE AUTONOMA DELLA MORALE E DELL’ANTROPOLOGIA IN HANS KELSEN
di Alessio Musio
Università Cattolica “S. Cuore” – Milano

Kelsen insiste, però, nell’argomento e propone una nuova giustificazione della sua tesi per cui il sollen può essere in fondo solo wollen, una tesi diversa dalla pretesa contraddittorietà del concetto di ragion pratica. E questa volta la sua considerazione è decisamente significativa e teoreticamente rilevante (tutto questo intervento sta a testimoniare quanto sarebbe assurda una possibile dimenticanza di Kelsen ).
[47] Quando Kelsen scrive: «noi definiamo ragione la funzione conoscitiva dell’uomo. Però, la statuizione di norme, la legislazione, non è una funzione conoscitiva», argomenta l’affermazione come segue: «con la statuizione di una norma non si conosce [infatti] com’è un certo oggetto già dato, ma si richiede qualcosa che deve essere. In questo senso la statuizione di una norma è una funzione del volere, non del conoscere» .[48] » . Kelsen è attento qui a rispettare la legge di Hume : [49] la legge morale indica qualcosa che non è già, e che per questo appunto deve essere, di qui la citata conclusione secondo cui, il dover essere, non essendo già, non può essere conosciuto, ma solo voluto. Ebbene, questa tesi demolisce l’impostazione tomista della legge morale naturale cui Kelsen tanto si dedica con notevole acribia e forse per questo anche implicita ammirazione ?[50] A parere di chi scrive la riposta è negativa, dal momento che, anche argomentata in questo modo, la conclusione resta falsa; per Tommaso la norma indica, sì, un dover essere – come per Kelsen – ma ciononostante non sfugge alle prese della ragione e più generalmente della dimensione conoscitiva. Come sia possibile parlare in termini conoscitivi di qualcosa che non è già, ma che, appunto, deve essere – Tommaso parla in questi termini del valore, facendo della norma semplicemente la via che conduce alla sua realizzazione – lo mostra un’analogia piuttosto banale. Infatti, per fare degli esempi, noi facciamo abitualmente previsioni in merito a ciò che accadrà a un certo uomo, se per esempio mangia troppo, o a una pianta, se non viene innaffiata per lungo tempo – il che, come è stato notato , [51] rivela quanto spesso ci serviamo, senza alcuna mancanza di rigore, nel nostro linguaggio di proposizioni informative in cui parliamo non di ciò che è ma di ciò che dovrà essere (il fatto che dovremo comprare una nuova pianta per il nostro balcone, per restare nell’esempio). Se, dunque, anche il dover essere – come spiega l’analogia – può essere oggetto di conoscenza, proprio qui è possibile comprendere la ragione del nesso per cui Tommaso lega, pur nella specifica differenza di ambiti, l’etica al riconoscimento delle indicazioni presenti nell’antropologia. [52] Il riferimento di Tommaso alle inclinazioni naturali appare, in questa prospettiva, molto semplice e significa solo che, per capire quale sia il bene dell’uomo, occorre prendere in esame l’esperienza umana – un’esperienza che presenta alcuni tratti effettivamente permanenti (quelli che ci permettono di riconoscerci nelle vicende di uomini vissuti prima di noi, e di leggere autori come Musil, Shakespeare o Omero, ecc., non avvertendo in alcun modo la distanza temporale che ci separa dalle loro più o meno distanti epoche storiche) e altri assolutamente peculiari che sono però – gli uni e gli altri – per ciascuno sempre una scoperta personale. Basti questa annotazione per mostrare l’impossibilità di liquidare come statica e filosoficamente paralizzante la questione della natura umana.
L’impostazione di Tommaso sembra da questo punto di vista più consistente di quella kelseniana precipitata nell’arbitrarsimo di una volontà legislatrice che si scopre senza ragioni per la sua pretesa indipendenza dalla ragione. C’è un punto, però, in cui l’impostazione tomista sembra cadere sotto il peso dei colpi infertigli dall’analisi di Kelsen: ci riferiamo alla sua analisi delle inclinazioni naturali cui già abbiamo accennato.
In estrema sintesi, il problema di Kelsen è così formulabile: come è possibile indicare nella natura, come fa Tommaso, il criterio cui la libertà del soggetto è chiamata ad adeguarsi, se siamo noi a stabilire la naturalità e l’innaturalità delle inclinazioni, pur essendo le une e le altre presenti a pari titolo nella natura umana? E ancora: Tommaso vuole che le norme della legge naturale seguano l’ordine delle inclinazioni naturali. Ma Kelsen ribatte che l’ordine di cui parla Tommaso non risulta affatto. Anzi, la natura umana è confusa, gli uomini hanno comportamenti diversi e scelgono cose differenti. Dove sta questo ordine allora? Non si tratta, qui, ancora una volta del riferimento a un ordine progettuale ideale? E questo ordine ideale non finisce per sostituire il dis-ordine reale, per di più senza che di ciò vi sia esplicita consapevolezza ?
[53] Il problema posto qui da Kelsen è, a ben vedere, ineludibile e sembra, per così dire, portare acqua al mulino di quella autonome Moral citata all’inizio. Per quanto non risulti a chi scrive una connessione diretta tra la scuola tedesca dell’autonome Moral e Kelsen, sembra, anzi, che non sia possibile, dopo Kelsen, alcun riferimento a Tommaso che non ne riconfiguri la riflessione secondo il percorso effettivamente proposto dai pensatori dell’autonome Moral. Questa riconfigurazione si troverebbe, così, già articolata sulla base di quanto elaborato da autori come Böckle e Merks, per i quali, se è vero che «la formula tomista vivere secundum rationem non esclude un orientamento contenutistico dell’agire razionale in base alla natura umana» , [54] non si deve dimenticare che «la conoscenza del bene e del male, come il giudizio in proposito, non vengono per metà dalla ragione e per metà dalle inclinazioni, ma formano un tutto integrato attraverso la ragione» . [55] Per quanto questo ruolo positivo della ragione sia incompatibile con l’impostazione kelseniana, la lettura autonomista di Tommaso le è teoreticamente affine per la conclusione nel segno del positivismo – con la differenza secondo cui il riferimento a Tommaso, ossia alle inclinazioni, vorrebbe escludere ogni esito relativistico. Scongiurato questo pericolo, resta in ogni caso che le inclinazioni naturali «hanno la necessità di una guida e di una conduzione, come un cavallo cieco» , [56] sino alla tesi per cui «la conoscenza sia del compito di legiferazione in quanto tale, sia del significato dei beni per un’ordinata convivenza tra gli uomini poggia su un’attività creatrice […]» . [57] La domanda teoretica, a questo punto, è se questo esito – dal significato in fondo anti-metafisico[58] – sia inevitabile. È questa l’eredità che Kelsen consegna a chi ne colga lo spessore critico rispetto alle inclinazioni naturali e necessariamente ne rifiuti, non potendo intellettualmente fare altro, la dissoluzione del concetto di ragion pratica?


6. L’eredità di Kelsen

Non pare che sia così. È vero, infatti, che se in Tommaso la ragione ha un compito ordinativo rispetto alle inclinazioni naturali (l’ordine delle inclinazioni, in altri termini, non risulta già dato ma deve appunto essere istituito dalla ragione ), [59] ciò non implica in alcun modo la prospettiva creazionistica – vale a dire positivistica – teorizzata da Merks. La questione del ruolo della ragione è più semplice, tanto che permette anzi di chiarire il perché del riferimento a Tommaso, al di là dei pur significativi omaggi alle grandi personalità filosofiche, quando questi non ricadono, in modo incompatibile con la ratio stessa della filosofia, nel grande calderone del “principio di autorità”. Il ruolo della ragione, si diceva, è in fondo molto semplice ed emerge perché, come un rapido esame della fenomenologia della vita morale permette di evidenziare, il problema morale si pone proprio in relazione a possibilità alternative che in qualche modo devono pure avere delle ragioni di bontà per rientrare nel novero delle scelte. Ogni scelta, infatti, ha alle spalle dei motivi e trova la sua giustificazione in una determinata gerarchia dei beni con cui si stabiliscono delle priorità. Nella maggior parte dei casi, inoltre, non risulta evidente che cosa sia bene fare, proprio perché esistono valide ragioni a sostegno di ognuna delle diverse opzioni in gioco. Non si sceglie mai semplicemente tra due opzioni (fossero anche l’agire o il non agire), dal momento che entrambe risultano inscritte in una trama preesistente di rapporti e relazioni, a cui esse danno ulteriore avvio (per fare un’analogia esemplificante si può immaginare il caso della scelta di uno studente fra due diverse facoltà universitarie: qui è evidente che non si tratta solo di scegliere tra due opzioni, ma fra tutto ciò che è loro connesso: vicinanza/lontananza da casa; entità delle tasse universitarie; prospettive lavorative ed economiche; prestigio sociale, ecc. ): [60] scegliere significa, dunque, istituire delle priorità, ritenere, a torto o a ragione, che certi beni valgano più di altri.
Emerge qui il punto di debolezza critico della posizione kelseniana. Se quanto abbiamo detto a proposito del carattere della scelta morale è vero – ossia il fatto che essa delinea sempre una concreta gerarchia tra i beni in gioco in una determinata situazione –, ciò significa che la dimensione razionale dell’etica è ineliminabile e che il concetto di ragion pratica non può essere dismesso[61] : nello strutturare gerarchie dei beni, come giustamente mette in evidenza Scheler, occorre, infatti, evitare che si compiano sacrifici a vuoto, sacrificando beni che invece non possiamo mancare (proprio seguendo Kelsen è possibile riconoscere, infatti, nel sacrificio un atto “positivo”).
Chiariti gli “errori” di Kelsen, allora, che cosa rimane? Restano delle osservazioni molto pregnanti. Su questo punto sembra essere possibile, infatti, tenendo presenti le obiezioni di Kelsen, andare oltre Kelsen stesso e nello stesso tempo cogliere l’elemento di verità delle sue considerazioni. In primo luogo, perché le sue obiezioni sottolineano l’importanza di non intendere – come pure è stato fatto – la ragion pratica tomistica come un puro organo copiativo (per usare un’efficace espressione) di ciò che si troverebbe già codificato nella natura. Rovesciando il senso dell’accusa, si può sostenere che l’individuazione delle norme richiede un’esaltazione della ragione e non una sua liquidazione. È proprio il modo con cui Kelsen legge Tommaso, inoltre, a permettere di evidenziare sino a che punto nell’impostazione tomista il soggetto sia attivo e “creativo” nella vita morale. Se non è l’uomo a stabilire il valore oggettivo di un determinato bene, è solo lui che può decidere, attraverso la gerarchia dei beni, che posto deve avere il bene in questione nella sua vita – realizzando ciò che, in un altro contesto, Scheler chiama con un’efficace espressione, dal significato tutt’altro che relativistico, bene in sé per me .

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