LA DIGNITÀ UMANA NELLA SOCIETÀ POST-SECOLARE
di Paolo Becchi
Università degli Studi di Genova
Gli uomini hanno pagato l’accrescimento del loro potere tecnologico non solo con l’estraneazione da ciò su cui lo esercitano, ma anche con la distruzione di ciò che hanno imparato a dominare. Gli effetti delle nostre azioni non hanno più un ambito d’incidenza limitato nel tempo e circoscritto nello spazio, ma diventano estremamente potenti e indefiniti: con quello che noi facciamo qui ed ora possiamo influenzare la vita di altri uomini in altri luoghi e persino ipotecare il futuro di generazioni ancora inesistenti. Il cambiamento più importante del quadro tradizionale è dato dalla vulnerabilità tanto della natura, quanto dell’uomo. Con l’estendersi del potere tecnologico, infatti, si sono alterati i rapporti dell’uomo con la natura mettendo a rischio l’ecosfera e la nostra stessa natura umana, con gli interventi d’ingegneria genetica volti a manipolarla. È questa un’apocalisse strisciante che fa sì che il deserto avanzi fuori di noi e in noi e di cui ci accorgiamo soltanto quando d’improvviso avviene qualche grave calamità naturale. Fatichiamo invece ancora a prendere coscienza del fatto che è ormai l’uomo stesso, in quanto essere naturale, a venire messo in discussione. Tanto l’inizio quanto la fine della vita umana sono ormai sottoposti integralmente al dominio della tecnica e la manipolazione genetica dell’uomo, introdotta con le tecniche di fecondazione assistita, rappresenta per la sua dignità una minaccia di una portata mai vista prima.
È degno dell’uomo essere prodotto in provetta? Si lede la dignità quando si utilizzano cellulle staminali di embrioni umani per scopi di ricerca che comunque comportano la loro distruzione? O quando, addirittura, li si produce solo a questo scopo? E che fare comunque di quelli già prodotti in soprannumero dalle tecniche di fecondazione assistita? Dulcis in fundo: è lecito clonare individui umani o modificare il loro patrimonio genetico? E come metterla, alla fine della vita, con il prelievo di organi e tessuti da essere umani in stato di “morte cerebrale” utilizzati come banche di organi?
Ognuna di queste domande, al centro dell’attuale discussione bioetica, meriterebbe una risposta adeguata. Dirò qualcosa al riguardo discutendo alcuni punti della Convenzione di Oviedo. Qui però c’è anzitutto da chiedersi se con la manipolazione genetica non si corra effettivamente il rischio di far uscire la secolarizzazione dai suoi binari trasferendo la perduta onnipotenza di Dio ad un uomo produttore di una rivoluzione genetica della propria specie. La liberazione da ogni dipendenza esteriore che la modernità ha tenacemente perseguito si rivela oggi come il delirio di una libertà assoluta, la quale genera i mostri di una volontà di potenza che defrauda l’uomo persino della sua natura.
L’affrancamento dalla trascendenza, l’assolutizzazione dell’immanente, sta sortendo come effetto paradossale la riduzione dell’umano a oggetto di libera manipolazione: per dirla con Nietzsche, “l’uomo è finito su un piano inclinato e ormai va rotolando, sempre più rapidamente, lontano dal punto centrale.” Da soggetto di dominio l’uomo è diventato oggetto stesso di dominio, strumento passivo e inerte di sperimentazioni sempre più raffinate e sconvolgenti. Stiamo avanzando sempre più verso modelli di esistenza postumana – postorganico, cyborg, bionico – che stanno, insieme all’ingegneria genetica, erodendo fortemente il concetto di natura umana. C’è oggi persino chi afferma che l’uomo sia antiquato – e non con l’angoscia disperante di un Günther Anders – e difende l’idea di una dignità postumana. La specie umana, insomma, sembra arrivata al capolinea della sua evoluzione e già si delinea all’orizzonte una nuova realtà: la creazione di una nuova specie mediante l’intervento diretto sul codice genetico di quella esistente. È certo possibile contrastare questa folle corsa verso il nulla con norme morali e regole giuridiche. Se vogliamo continuare a comprenderci come esseri capaci di moralità dobbiamo far proprie delle regole che consentano la prosecuzione di condizioni di vita che rendano possibile quella comprensione. Ma ciò forse non basta. Perché dovremmo continuare a comprenderci in questo modo? C’è forse un obbligo morale a comprendersi come esseri morali? Questo è il punto. E non ne usciamo – io credo – se non ricorrendo ad un’opzione, in fondo, di fede, a un’idea atemporale, ontologica, dell’uomo che si richiami al suo essere genitum e non factum. Per impedire che il processo di assolutizzazione dell’uomo, il mito del superuomo, si rovesci paradossalmente nel suo totale annichilimento forse non possiamo fare a meno di recuperare il senso religioso del limite, riscoprire il brivido del sacro, come orizzonte ultimo di senso in un mondo inaridito che pare aver perduto il senso del senso. E il senso del sacro, per l’Occidente giudaico-cristiano, comincia con Dio che crea l’uomo “a sua immagine” dotandolo in questo modo di una dignitas trascendente. Nonostante la ragione secolare tenga a distanza la religione, il potenziale semantico del linguaggio religioso non sembra aver esaurito la sua funzione. Riappropiarsi di questo linguaggio, ritraducendolo in termini che possano essere universalizzabili, consentirebbe – come di recente ha mostrato Jürgen Habermas – di porre un freno al deserto che avanza, rendendo se non altro indisponibile la base naturale della dignità, vale a dire la nostra co-appartenenza di specie.
Questo, si badi, non fa venir meno la nozione moderna di dignità che ciascun individuo può realizzare come meglio crede, sviluppando le proprie capacità e rivendicando la propria autonomia di soggetto morale, ma rende tuttavia indisponibile un contenuto minimo di dignità, di cui ognuno è dotato per la sua appartenenza alla specie umana.
Nondimeno, resta in conclusione da chiedersi sin dove possa spingersi questa difesa (potenzialmente universalizzabile) dell’“immagine dell’uomo”, senza che ciò si trasformi nell’imposizione da parte di alcuni nei confronti di altri di una particolare immagine. Vorrei tentare di rispondere a questa domanda soffermandomi sul documento che ho richiamato all’inizio di questa conversazione, la Convenzione di Oviedo, nel quale la dignità umana ricopre un ruolo centrale.
Da tutta una serie di articoli risulta evidente la nozione di dignità umana come autonomia, nella fattispecie come autonomia del paziente o della persona che si presta a sperimentazioni scientifiche. Ma come vedremo non è soltanto su questa nozione che si appoggia la Convenzione.
Gi articoli 5-9 si occupano del consenso libero e informato, la cui acquisizione è considerata indispensabile per effettuare qualsiasi intervento nel campo della salute. Senza consenso, salvo situazioni di urgenza (art. 8), qualsiasi intervento è illecito. Anche la ricerca scientifica sugli esseri umani, oltre ad altre condizioni, è subordinata al previo consenso libero, esplicito e informato del soggetto interessato. E così pure il prelievo di organi e tessuti da donatori viventi a fini di trapianto è subordinato, oltre che ad ulteriori condizioni, al consenso esplicito del donatore. Particolare protezione viene offerta alle persone che non hanno la capacità di dare consenso, come bambini e persone sotto tutela (art. 6). L’art. 9 estende il rispetto per la persona anche a situazioni in cui il soggetto interessato non è più in grado di esprimere la propria volontà, ma lo aveva fatto quando le sue condizioni ancora lo consentivano. È il tema delle direttive anticipate, di cui in Italia si sta ancora discutendo l’approvazione di un controverso disegno di legge d’iniziativa governativa. Mi limito qui ad osservare che l’idratazione e la nutrizione artificiali, effettuate in presenza di un esplicito e documentato rifiuto dell’interessato, anche se espresso per il tramite di una direttiva anticipata, risulta lesivo della sua dignità, benché ciò possa servire a salvare la sua vita. La dignità è un principio superiore alla vita stessa. L’art. 10 relativo alla privacy e al diritto ad essere informato o meno sullo stato della propria salute, è espressione dell’autonomia del paziente che anche in questo vede tutelata la propria dignità.
In tutti i casi che abbiamo riportato il termine “dignità” compare per indicare il rispetto per le persone e per la loro autonomia in ambito medico. Ma è sufficiente fare ricorso a questa nozione di dignità quando in discussione non è più l’essere umano in quanto individuo, bensì in quanto appartenente alla specie umana?
La convenzione, com’è noto, si occupa pure delle tecnologie genetiche e riproduttive includendo negli articoli 11-13 due grosse proibizioni riguardanti la discriminazione genetica (artt. 11-12) e gli interventi sulla linea germinale, quegli interventi cioè che introducono modifiche sul genoma umano (art. 13). In un Protocollo Aggiuntivo (presentato per la firma il 12 gennaio del 1998) viene altresì proibita la clonazione umana, perché “contraria alla dignità umana”. Per la stessa ragione viene proibita la deliberata creazione di embrioni per finalità di ricerca e con riferimento all’espianto degli organi la loro commercializzazione.
Difficile fondare tutti questi divieti su una nozione di dignità umana esclusivamente finalizzata al rispetto dell’autonomia individuale.
Perché non dovrei essere libero di vendermi un rene per garantirmi una vita più dignitosa di quella che sto attualmente conducendo? Perché vietare la produzione di embrioni a fini di ricerca quando con essa vi è la possibilità di sconfiggere alcune malattie? Perché continuare ad affidarsi al caso quando la biologia molecolare ci offre oggi la possibilità di guidare e controllare l’evoluzione? Perché vietare la clonazione umana, dal momento che con essa si potrebbe replicare l’eccellenza umana?
Non intendo ora certo rispondere a tutte queste domande. Mi limito a constatare che molte di esse difficilmente potranno trovare una soluzione se interpretiamo la dignità soltanto nei termini di autonomia. Perlomeno, quando la tutela della dignità non riguarda più singoli individui, ma la specie umana in quanto tale, quell’idea rivela il suo limite e riaffiora prepotentemente il bisogno di qualcos’altro.
La dignità come autonomia da sola non basta, ha bisogno di nutrirsi di una sostanza che non riesce a produrre da sé. Questo nutrimento lo si può ritrovare in quel gran serbatoio di senso che la religione, nonostante il suo annunciato tramonto, continua ad essere. È l’“immagine di Dio” che è l’uomo, la sua “figliolanza divina” a tradursi in quel brivido di fronte all’intangibile che dovrebbe trattenerci dal compiere l’ultimo passo verso la propria nichilistica autodistruzione.
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