LA DIGNITÀ UMANA NELLA SOCIETÀ POST-SECOLARE
di Paolo Becchi
Università degli Studi di Genova
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Abstract
The theme of human dignity is treated by Paolo Becchi under an historical perspective. The Christian tradition, founded on the biblical idea that man is created as image of God, has been replaced by the secularized conception of human dignity as autonomy. In view of the recent bioethical problems, that have to do with human dignity, Becchi suggests to return to the Jewish-Christian conception, nevertheless without forgetting the conquests of Modernity.
“Modernizzazione della società e secolarizzazione”, è questa, forse, l’ultima delle grandi narrazioni ad entrare oggi in crisi. Il leit-motiv che ha dominato sino alla fine del secolo scorso l’autocomprensione della società moderna (perlomeno leggendo il suo sviluppo con gli occhi della razionalità occidentale) è l’autonomia della ragione, rispetto alla quale la fede non poteva più aggiungere nulla di rilevante, anzi era costretta al silenzio della propria coscienza. “Silete teologi in munere alieno!”, questa celebre affermazione del giurista Alberico Gentili (1612) segna nella sua icasticità l’inizio della ragione laica quale si è sviluppata in Europa a partire dalla prima modernità. Nasceva così una nuova forma di autocomprensione dei rapporti umani. Il pluralismo delle visioni del mondo, il “politeismo dei valori”, veniva neutralizzato da un diritto autonomo fondato sulla ragione. È questo il risultato del processo occidentale di razionalizzazione e di disincanto di cui parlava Max Weber.
Questo modello di autointerpretazione secolare della modernità ha avuto come esito non soltanto il dissolversi della metafisica nelle scienze particolari, ma altresì la riduzione di valori e norme morali, in modo analogo alla religione, alla sfera privata della coscienza individuale. Al positivismo scientistico orientato al paradigma della razionalità di una scienza neutrale rispetto ai valori, ha fatto così da pendant la perdita della dimensione pubblica tanto dell’etica quanto della religione, ridotte entrambe a questioni private: rispetto alla razionalità tecno-scientifica, le scelte etiche e religiose erano decisioni individuali, frutto di sentimenti personali, in ultima istanza irrazionali.
Di fronte al persistente rilievo sociale delle religioni e ai conflitti che sollevano tutta una serie di scottanti questioni bioetiche, oggi siamo costretti a rivedere il senso di quella razionalità.
Allo stesso modo dobbiamo pure ripensare il significato di un principio, quello della dignità umana, che è messo a dura prova soprattutto dalle nuove potenzialità bio-tecnologiche applicate all’uomo.
Cercherò di delineare nel modo più sintetico possibile la trasformazione che si è compiuta nell’epoca moderna rispetto alla visione giudaico-cristiana, per poi abbozzare un tentativo di recupero del nucleo profondo di quella visione, senza per altro abbandonare quella che definirei “la pretesa legittima della modernità.” Concluderò mostrando come uno dei documenti giuridici più significativi del Consiglio d’Europa, La convenzione europea sui diritto umani e la biomedicina, firmata a Oviedo il 4 aprile del 1997, possa offrire un buon esempio di come una concezione della dignità imperniata sul rispetto della persona e della sua autonomia possa essere integrata da una difesa della dignità che alla fine traduce nel linguaggio secolare del diritto un contenuto di senso ereditato dalla visione giudaico-cristiana dell’uomo.
Dal punto di vista della tradizione giudaico-cristiana la dignità è fondata sull’idea biblica che l’uomo sia stato creato “a immagine e somiglianza di Dio” (Genesi 1, 26-27). L’essere umano ha un posizione del tutto speciale nel mondo della natura proprio per questa somiglianza con il suo creatore. Con la sua presenza si manifesta qualcosa d’inscalfibile, d’indisponibile, perché l’uomo è l’unica traccia del divino: un’idea rafforzata dall’incarnazione di Dio. È questa una visione ontologica, “essenzialistica”, della dignità, che presuppone una concezione statica, invariante dell’uomo e della sua natura. La dignità non ha bisogno di essere realizzata, può soltanto essere rispettata come qualcosa che c’è sempre quando c’è un essere umano: gli si addice in virtù del suo particolare statuto ontologico. Questa attribuzione lo riguarda nella sua unità psicofisica. L’uomo non è riducibile alla sua capacità razionale: il suo modo d’essere corporeo è parte integrante del suo essere creato a immagine di Dio. Emerge così l’idea che laddove vi sia un essere appartenente alla specie umana, vi sia comunque qualcuno da rispettare incondizionatamente, senza che possa essere subordinato a qualsivoglia altra finalità: sostanzialmente un che di sacro. È soltanto dell’essere che noi siamo che si predica nella totalità degli enti la dignità e questo perché nella sua concreta finitezza esistenziale, nella sua vulnerabilità, egli resta inscindibilmente legato alla trascendenza. L’uomo non è Dio, ma è sfiorato da Dio.
La secolarizzazione ha implicato una sfida senza precedenti a questa idea della dignità umana.
Il De hominis dignitate (1486) di Giovanni Pico della Mirandola, manifesto dell’Umanesimo, esprime meglio di qualsiasi altro documento l’inizio di un processo che attraverso il giusnaturalismo moderno giungerà sino all’Illuminismo. La dignità non è qualcosa che si deve conquistare. Nasce qui l’idea che l’essere che noi siamo sia incompleto, una realtà aperta, non ancora compiuta (“libero artefice di te stesso, conforme a quel modello che ti sembrerà migliore”!) La dignità perde il suo spessore ontologico per diventare un valore, qualcosa che un essere razionale com’è l’uomo deve socialmente meritarsi.
Non deve dunque sorprendere se per Bacone è degno anzitutto lo scienziato che con le sue ricerche e le sue scoperte procura la felicità degli uomini. Le acquisizioni della rivoluzione scientifica e le sue ricadute in ambito tecnologico rappresentano il riconoscimento dell’assoluta superiorità dell’uomo nel mondo, di più la totale estensione del suo dominio. Questa nuova visione umanistica concepisce la dignità dell’uomo come un compito e come una conquista: di nuove terre e di nuove conoscenze. La vocazione dell’uomo diventa la vita attiva: è l’inizio del trionfo dell’homo faber: ormai consapevole di tutte le sue forze in definitiva non ha più bisogno di Dio per autocomprendersi. È un uomo orgoglioso di sé quello che si afferma e la sua dignità s’immanentizza progressivamente.
Il “disincanto” è già tutto evidente in Hobbes quando dirà che “il valore, o pregio di un uomo, è, come in tutte le altre cose, il suo prezzo, vale a dire quanto si darebbe per l’uso del suo potere, non è perciò una cosa assoluta, ma dipendente dal bisogno e dal giudizio altrui (…) Il pregio pubblico di un uomo, che è il valore attribuitogli dallo Stato, è ciò che gli uomini chiamano comunemente dignità.”
La dignità non è più in connessione con una base naturale (la natura umana) e neppure con la trascendenza: diventa qualcosa che si consegue nel reciproco riconoscimento tra gli esseri umani. La si può acquistare, ma anche perdere. Al culmine dell’Illuminismo sarà Kant a rispostare i termini della questione considerando l’uomo dotato di un “valore intrinseco”, assoluto, come se questo bastasse – avrebbe obiettato Carl Schmitt – a sottrarre la dignità dalla logica micidiale della valorizzazione. Ma nel punto che qui più interessa Kant non fuoriesce dalla concezione moderna della dignità. Non è dalla natura dell’uomo che discende la sua dignità, ma dalla sua determinazione morale, in quanto propria di un essere razionale.
È l’idea della libertà a conferire dignità all’uomo. Tale libertà è il presupposto dell’esistenza di un ordine morale del tutto separato dall’ordine della natura. L’idea della dignità presuppone l’esistenza di un soggetto morale agente che deve essere anzitutto riconosciuto titolare di diritti e doveri al pari di qualsiasi altro soggetto: primo fra tutti il diritto ad essere trattato nel rispetto della propria dignità. Dio, certo, compare ancora sullo sfondo come garante dell’attuabilità del sommo bene, ma quella di Kant resta una religione entro i limiti della semplice ragione, che può tutt’al più essere d’aiuto per la conversione morale. L’imperativo categorico (nella terza formulazione) è costruito “sul fondamento dell’idea della dignità di un essere ragionevole che obbedisce solo alla legge da lui stesso istituita.” È significativo che proprio in questo contesto compaia espressamente il riferimento alla dignità umana. L’uomo non è soltanto un ente naturale, biologicamente appartenente alla specie umana, ma un soggetto, un individuo capace di porre autonomamente dei limiti al proprio agire, di sottoporsi a leggi che egli stesso si è dato. È l’autonomia della volontà, ossia quel carattere della volontà per cui essa è capace di autodeterminarsi, a costituire il proprio principio supremo della moralità. Ed in quanto capace di moralità l’uomo acquista quel valore assoluto con il quale ora si identifica la sua dignità: essa perde il connotato ontologico che contraddistingue la specie umana per acquistare un carattere deontologico. Il valore intrinseco dell’uomo gli deriva dall’essere portatore di un imperativo morale incondizionato. Dunque per Kant l’uomo è titolare di dignità non semplicemente perché è dotato di ragione, ma in quanto capace di moralità. E tuttavia è soltanto un essere ragionevole, se lo vuole, sa essere in grado di agire moralmente. L’autonomia morale è l’altra faccia dell’autonomia della ragione. Entrambe hanno contribuito alla modernizzazione della società e al dissolvimento delle immagini metafisiche e religiose dell’uomo e del mondo. Oggi però c’è il rischio – bene individuato negli ultimi scritti di Habermas – di un “deragliamento” della modernizzazione, che ci costringe anche ad un ripensamento del senso della dignità.
L’effetto illuminante della ragione critica, con l’avvento della scienza moderna e lo sviluppo di una morale e di un diritto autonomi, ha comportato in un primo momento, per dirla ancora con Kant, l’uscita dell’uomo da uno stato di minorità e l’affermazione della sua supremazia sulla terra. La somiglianza dell’uomo con Dio si è trasformata nella sua assoluta sovranità sull’esistente: signore della natura senza più essere servo di Dio. Ma con l’estendersi del dominio dell’uomo si sono andati alterando i rapporti con la natura sino al punto a cui siamo giunti oggi di mettere a repentaglio la sua stessa sopravvivenza sul pianeta.
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