OLTRE L’OGGETTIVISMO, LA RISCOPERTA DELL’IMMAGINAZIONE.
UNA PRESENTAZIONE E UNA CRITICA DI FROM APOLOGY TO UTOPIA, DI MARTTI KOSKENNIEMI
di Luigi Crema
Università degli Studi di Milano
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Abstract
In a few paragraphs this article explains the main theses developed in the book From Apology to Utopia, the most important work of Martti Koskenniemi. The book analyzes and criticizes the structure of international legal argument, showing that international law does not provide a set of rules capable of settling contrasts and divergences among states in a neutral way, and that, for this reason, cannot be differentiated from politics: the sources and the principles at the basis of international law are structured in such a way that opposite solutions may be reached using the same arguments. The international lawyer is called to be aware of this undetermined aspect of law, and to imagine new solutions for new problems. The conclusions Koskenniemi reaches, however; leave open two questions, which this article seeks to bring to light.
1. Perché recensire oggi un libro uscito diversi anni fa? Le recensioni dei libri sono solitamente dedicate a nuove edizioni: ne mostrano i pregi, ne condannano i difetti. Però è anche vero che quando si leggono alcuni articoli di critica si nota che spesso essi muovono da una posizione contenuta in una qualche opera fondamentale, ne riassumono ampiamente alcuni passi, e da lì avanzano per dimostrare la propria teoria, il proprio punto, i propri convincimenti.
Si cercherà di stare nel mezzo: questa recensione non vuole mostrare qualcosa di nuovo: il libro è del 1989, quindi non può essere una recensione del nuovo. Questo libro, però è uno di quelli che vanno letti, e non può essere il fatto di essere stato scritto tanto tempo fa che esime dal parlarne. Nell’esplosione cibernetica della cultura il rischio di perdersi nei meandri delle informazioni è alto; quale posto è migliore di una sezione dedicata ai libri per trattare una di quelle opere che va letta?
Allo stesso tempo, però, è un’opera fortemente controversa, e merita qualche discussione critica. Si cercherà, perciò, di stare in equilibrio tra il saggio e la recensione, tra la presentazione di un libro, lo sviluppo possibile e la critica di quanto esso propugna.
2. Perché questo libro va letto? Quando il sottoscritto alcuni anni fa cominciò questo libro aveva molte aspettative, generate da diverse ragioni. La prima era il titolo: affascinante, riecheggiava dei concetti che chiunque si fosse formato a una scuola formale, come quella codicistica continentale, percepisce come fondamentali. La seconda era la conclusione del manuale di diritto internazionale del Prof. Treves, che chiude il climax storico che fa da Introduzione all’opera soffermandosi proprio sulle tesi di Koskenniemi. [1] Poi, terzo, la rarità della prima edizione, che rendeva l’opera ancor più desiderabile (un libro azzurrino, dalla copertina plastificata, pubblicato in Finlandia e circolato quasi privatamente, che ho avuto la fortuna di leggere oltreoceano). Quarta e ultima ragione, il fatto che si tratta di una tesi di dottorato, discussa presso l’Università di Turku, ma di fatto elaborata ad Harvard alla corte di David Kennedy: era, quindi, un ottimo esempio per il sottoscritto che si apprestava a cominciare il dottorato, e che credeva che la borsa di dottorato non fosse solo una compagna della pratica forense, ma anche una grande occasione per andare sino in fondo ad una propria tesi. Questo sono le ragioni pregiudiziali e soggettive che avevano portato il sottoscritto a cominciare questo libro.
Di ragioni, però, ve ne sono anche molte di più oggettive. Questo libro merita di essere presentato a una platea di filosofi del diritto innanzitutto perché in Italia questa pubblicazione ha avuto fortuna presso il solo pubblico degli internazionalisti, e nemmeno di tutti. Il suo contenuto fortemente speculativo e dialettico, poi, la rende una lettura interessante anche per chi si occupa di altre branche del diritto. Essa, pur rappresentando un caposaldo della dottrina dominante nel diritto internazionale, si rivela un’opera che abbraccia diversi ambiti del sapere, non solo quelli giuridici. Poi, essa non è pubblicata in italiano, ma in inglese, quindi una sua presentazione presso il pubblico italofono è dovuta. Infine, le questioni che pone in gioco sono fondamentali, e meritano di essere considerate; quali questioni? Di esse ce ne occuperemo più nel dettaglio nei prossimi punti.
3. L’opera. Il libro può essere diviso grosso modo in tre parti: una prima parte in cui vengono stabilite le premesse, fondandole con dovizia di argomentazioni e non dandole semplicemente per assunte; [2] una seconda, quasi manualistica, strutturata su alcuni aspetti fondamentali del diritto internazionale (sovranità, fonti, consuetudini); una terza, di critica vera e propria, dedicata alla struttura del ragionamento giuridico internazionale. Scopo dell’opera, quindi, è comprendere la struttura del ragionamento giuridico internazionale e criticare un certo modo di trattare il diritto internazionale.
A tal fine l’A. accosta il diritto al linguaggio, per leggerlo con l’approccio linguistico decostruttivista.[3] L’A. muove dal fatto che sia impossibile parlare di diritto prescindendo dalle teorie descrittive della vita sociale. [4] Il topos contro cui l’A. si scaglia è quello dell’asserita oggettività del diritto. Ne tratta al primo capitolo, e ne parla nell’ultimo, l’ottavo. Quindi lo scopo più ampio (e non dichiarato espressamente) dell’autore è quello di dare una scossa, di scuotere il lettore, il giurista, di ricordargli che è vivo, che può interagire con la realtà senza essere schiavo di un Giusto (o di uno Sbagliato) scritto in regole (o non scritto in esse) da applicare nella routine tecnicista che viene proposta oggi come unica via per evitare la violenza. [5] Per arrivare a questo l’A. scrive un’opera di seicento e più pagine, talvolta ripetitive nel loro continuo declinare gli aspetti alternativi che attraversano il diritto (apologia/utopia; concretezza/normatività; realismo/idealismo; diritto/sovranità; volontà/giustizia; diritto naturale/positivismo): forse l’A. poteva impiegare meno pagine, ma trattandosi d’una dissertazione dottorale (e redatta negli Stati Uniti…), la sovrabbondanza di giustificazioni e note a pie’ di pagina è comprensibile.
4. Prima premessa. L’asserita oggettività del diritto internazionale. Il primo capitolo comincia con la riaffermazione di alcuni dilemmi che fanno dubitare dell’oggettività del diritto internazionale. Innanzitutto perché non vi è una chiara distinzione tra politica (soggettiva) e diritto internazionale (oggettivo): [6] non è vero che il diritto internazionale è più oggettivo della politica; morale, politica e diritto non sono significativamente distinti , [7] e il ragionamento giuridico internazionale è intrappolato tra due eventualità: o trovarsi a difendere una pura scelta politica basata sull’interesse particolare, in cui il diritto ha poco o niente a che fare (apologia), o ridursi ad un mero discorso moralista, senza alcuna effettiva incidenza nelle scelte concrete di un governo (utopia). [8] In secondo luogo, il diritto internazionale è estremamente indeterminato, pieno com’è di standard, di termini vaghi, di termini che rimandano a una valutazione, e di questioni non regolate[9] (e tuttavia il problema dell’indeterminatezza sussisterebbe anche allorché il diritto internazionale fosse precisissimo).[10] ). I ragionamenti giuridici internazionali, così, si strutturano o lungo un percorso giustificativo utopistico-discendente, dai valori all’obbligo, o lungo percorsi giustificativi apologetici-ascendenti, dall’interesse nazionale alla giustificazione di esso col diritto. [11] Ogni teoria obiettiva di riconciliazione tra tali percorsi è impossibile; essa è di fatto arbitraria. [12] L’aspetto interessante di questa prima parte del libro è data dal fatto che l’A. prenda sul serio il sogno di poter fondare un sapere giuridico solido (Koskenniemi ha studiato diritto ed è tuttora membro del corpo diplomatico finlandese), ma si vede che nel farlo si sia ritrovato con un pugno di mosche in mano, e questa concezione del ragionamento come obiettivo, cioè necessitato, gli si sia rivelata limitata. Da qui, allora, comincia il libro, alla ricerca della struttura del ragionamento giuridico internazionale. L’opera non nasce contro un certo modo di concepire il diritto, ma nasce dal fatto che concepire il diritto come oggettivo, cioè come necessario, non tiene.
5. Seconda premessa. Storia delle dottrine recenti del diritto internazionale. La seconda questione affrontata preliminarmente dall’A. riguarda la condizione storica del diritto internazionale moderno e contemporaneo: perché siamo arrivati a questo bisogno di oggettività? Il secondo e il terzo capitolo sono dedicati a rispondere a questa domanda. Le dottrine liberali politiche hanno condizionato il diritto internazionale riducendolo, proceduralizzandolo.[13] Nel diritto contemporaneo all’opera (anni ottanta del secolo scorso) si notavano quattro approcci dottrinali diversi (approccio regolatore di Schwarzenberger; scetticismo di Morgenthau; approccio incentrato sulla politica di McDougal; idealismo di Alvarez) che avevano tutti in comune l’uso di un linguaggio neutro finalizzato a preservare una politica liberale, e i quali, nonostante le critiche reciproche, rivelavano di fondarsi su teorie materiali della giustizia, trattando della vita sociale tra gli stati come una premessa, quando invece era ciò che si sarebbe dovuto provare. [14]
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