APPLICAZIONE DEL DIRITTO COMUNITARIO ANTITRUST
E (IN)CERTEZZA DEL DIRITTO: IL CASO ASTRAZENECA
di Vincenzo Grasso
Università Commerciale L. Bocconi – Milano

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Abstract
The principle of legal certainty requires that rules involving negative consequences for individuals should be, a priori, clear and precise and their application predictable for those subject to them. For a number of reasons, within the E.U. competition law, too often this does not happen, with remarkable consequences for economic subjects, which must chose if operating (and investing), risking fines by competition authorities, or not operating (and not investing). AstraZeneca case law flatly demonstrates this assumption, in a market (pharmaceutical) in which undertakings need to invest a lot of resources in the field of R&D: in this contest, the lack of legal certainty is heading for decrease incentives for these investments, with negative consequences for healthcare and citizens.

Introduzione
Rispetto ad altri ambiti dell’ordinamento giuridico, il diritto antitrust ha una origine piuttosto recente: se i primi testi normativi, emanati in Canada e USA, infatti, risalgono alla fine del 1800, le prime applicazioni di tali norme hanno luogo soltanto agli inizi del secolo scorso(1).
In Europa, addirittura, bisogna attendere fino al secondo dopoguerra per avere riscontri di norme antitrust comunitarie (col Trattato di Roma del 1957), mentre in Italia una legislazione all’uopo predisposta viene approvata, con colpevole ritardo rispetto alle altre realtà europee, soltanto nel 1990(2). Se si considera, poi, che le disposizioni normative emanate all’interno dell’Unione Europea in materia di concorrenza sono racchiuse in pochissimi articoli del Trattato (nove, per l’esattezza, contenuti nel titolo 7, capo 1, del TFUE(3)), si comprende quanto possa essere importante, in questo ambito, il ruolo svolto dalle autorità preposte alla tutela della concorrenza (in primis, Commissione Europea, Tribunale di Primo Grado e Corte di Giustizia), le quali hanno il compito di definire, mediante le decisioni sui singoli casi concreti, o mediante propri atti (come nel caso della Commissione), i comportamenti contrari alle norme antitrust, cui le imprese sono tenute a conformarsi.
In un simile contesto, dunque, la giurisprudenza, oltre agli altri atti vincolanti del diritto comunitario derivato, svolge un ruolo determinante per l’elaborazione del diritto e, segnatamente, per definire compiutamente le condotte vietate di cui agli articoli 101 e 102 TFUE. Assieme a tali fonti, il diritto della concorrenza si fregia anche dell’uso (non infrequente) di atti non vincolanti “atipici”, ossia quegli atti non previsti espressamente dall’art. 288 TFUE ed elaborati dalla prassi, tra cui spiccano le comunicazioni della Commissione Europea.
Conseguenza di un sistema normativo assai scarno, invece, è una costante incertezza nella quale si trovano ad operare i soggetti economici sul mercato, spesso ignari, a priori, della possibile illiceità dei loro comportamenti, che apprendono essere tali solo in conseguenza della prassi applicativa delle autorità antitrust. Al punto che, anche la regola fondamentale di diritto secondo la quale tutto ciò che non è espressamente vietato è da considerarsi lecito, subisce delle eccezioni in ambito antitrust(4). Vedremo nel prosieguo come il principio di certezza del diritto, che oltre ad essere obiettivo di qualsiasi legislatore rientra espressamente tra i principi generali del diritto comunitario, pur costituendo una fonte di diritto primario per l’Unione Europea(5) è spesso costretto a cedere il passo dinanzi alla prassi giurisprudenziale delle autorità antitrust.
A tal fine, verrà di seguito esaminata proprio una pronuncia che dimostra abbastanza chiaramente come comportamenti ex ante in apparenza leciti vengono considerati, ex post, contrari al diritto della concorrenza. La decisione in questione, emanata dalla Commissione Europea nel giugno del 2005 nei confronti del gruppo AstraZeneca(6) (operante nel mercato farmaceutico), è stata sostanzialmente confermata dal Tribunale di Primo Grado nel luglio del 2010(7). L’emanazione, tra le due pronunce, di una comunicazione della Commissione sul tema oggetto del procedimento è sintomatico della scarsa chiarezza della normativa antitrust sul punto, tanto da far sentire in obbligo la stessa Commissione di delineare la propria prassi applicativa in circostanze come quelle oggetto del caso AstraZeneca.

La decisione della Commissione e i due abusi contestati
Il gruppo anglo-svedese AstraZeneca (di cui fanno parte la AstraZeneca AB e la AstraZeneca Plc(8)) è attivo nel campo della produzione e distribuzione di farmaci a base di omeprazolo -di cui il Losec costituisce la denominazione commerciale più conosciuta all’interno di molti Paesi europei- usato, tra l’altro, per la cura di una patologia conosciuta col l’acronimo “Gerd” (il c.d. reflusso gastroesofageo)(9).Questo farmaco, brevettato da AstraZeneca e commercializzato sotto forma di capsule sin dal 1988, costituisce il core business del gruppo, rientrante nella categoria dei c.d. farmaci blockbuster, vale a dire quei farmaci il cui fatturato annuo supera il miliardo di dollari (US)(10). A partire dal 1998, tuttavia, AstraZeneca aveva anche introdotto sul mercato una versione del Losec in compresse(11), ( ), anch’essa brevettata, ritirando dal mercato la vecchia versione in capsule e chiedendo, contemporaneamente, l’annullamento dell’AIC (Autorizzazione all’Immissione in Commercio) di quest’ultima versione in alcuni Paesi (in particolare: Danimarca, Svezia e Norvegia).
Qualche anno prima, invece (esattamente tra il 1993 ed il 1994) Astrazeneca aveva richiesto dei certificati complementari di protezione (CCP) per il proprio prodotto(12).Le dichiarazioni rese al fine di ottenere tali CCP e l’annullamento dell’AIC in alcuni Paesi relativi alla vecchia versione del Losec sono i due comportamenti posti alla base della decisione della Commissione Europea, pubblicata nel 2005, con la quale l’organo comunitario ha irrogato, nei confronti di AstraZeneca, un’ammenda pari a 60 milioni di Euro. Con i suoi comportamenti, quest’ultima avrebbe infatti illecitamente ritardato l’ingresso nel mercato farmaceutico di alcuni operatori concorrenti (produttori di generici), al fine di contrastare l’entrata nel mercato di alcuni farmaci generici prodotti da questi ultimi, nonché sfavorito le importazioni parallele del medesimo farmaco.

In particolare: il “MUPS abuse”
Definito il mercato rilevante(13) e accertata la posizione di dominanza di AstraZeneca all’interno di esso(14),la Commissione ha stabilito che AstraZeneca avrebbe introdotto (sistematicamente e pretestuosamente) nuove versioni del Losec (in particolare quelle in compresse, denominate “Losec MUPS”), chiedendo la de-registrazione delle formule precedenti, e ciò al fine di contrastare le importazioni parallele ed il lancio di versioni generiche del prodotto, posto che per gli operatori che sono intenzionati ad importare un prodotto farmaceutico o a commercializzarne una versione generica è necessario che il prodotto di riferimento goda già di una precedente autorizzazione. Secondo il giudizio della Commissione, dunque, la condotta tenuta da AstraZeneca costituisce una violazione dell’art. 82 TCE (ora art. 102 TFUE) in quanto: i) lo scopo delle strategie poste in essere (c.d. “LPPS”, vale a dire “Losec Post Patent Strategies”) era quello di minimizzare le conseguenze per AstraZeneca della scadenza del brevetto (o dei CCP, oggetto, tra l’altro, del primo abuso) per l’omeprazolo, attuando una serie di condotte volte ad impedire l’ingresso nel mercato dei produttori di generici e di impedire le importazioni parallele; ii) le società appartenenti al gruppo AstraZeneca avevano a tal fine richiesto la de-registrazione del Losec in capsule in Danimarca, Svezia e Norvegia, rimpiazzandole con i Losec MUPS; iii) la de-registrazione era stata richiesta proprio in quei Paesi dove, secondo le previsioni del gruppo anglo-svedese, si sarebbero concentrate le importazioni parallele nonché l’ingresso dei produttori di generici.
L’espressa liceità dei singoli comportamenti contestati
Ciò che più impressiona, nel giudizio della Commissione Europea, consiste nell’affermazione secondo la quale anche se, nel complesso, le condotte prese in considerazione sono state valutate come una violazione dell’art. 82 TCE (ora art. 102 TFUE), nessuna di queste, prese singolarmente, integra gli estremi previsti dalla fattispecie dell’abuso di posizione dominante(15).
Tale non può essere considerato, per ovvie ragioni, il lancio sul mercato di un nuovo prodotto; così come non può esserlo il ritiro dal mercato stesso di una vecchia versione del medesimo prodotto farmaceutico. Ma neppure può considerarsi illecita la richiesta di de-registrazione della AIC relativa alla vecchia versione del farmaco, in quanto questa comporta degli obblighi per l’impresa che l’ha richiesta, connessi alla farmacovigilanza(16) (in particolare, quello di aggiornare l’elenco delle possibili reazioni avverse del farmaco medesimo). Del resto, la giurisprudenza conferma che, secondo la legislazione comunitaria, il soggetto che inoltri la richiesta di AIC è titolare della relativa procedura amministrativa ed ha, in quanto tale, la piena libertà di decidere se e quando inoltrare la domanda, come anche di ritirare la tale domanda prima che venga concessa l’autorizzazione. Principi identici valgono anche dopo che l’AIC sia stata concessa, in quanto il titolare della stessa può domandare in qualsiasi momento che venga ritirata, senza essere peraltro obbligato a fornire alcun tipo di giustificazione al riguardo (essendo sconosciuta, alla legislazione farmaceutica, l’istituto delle licenze obbligatorie)(17).Eppure, nel caso di specie, la Commissione ha ritenuto che tutti e tre i comportamenti delineati costituiscono, nel loro complesso, un abuso di posizione dominante ai sensi dell’art. 82 TCE (ora art. 102 TFUE).

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