ALLA SCOPERTA DELLA LUCE ATTRAVERSO
LE TRE STANZE DELLA FILOSOFIA DEL DIRITTO.
di Romina Amicolo
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Mentre dorme, forse sogna, Francesco Gentile si ritrova nel «buio pesto» (p.83) di un «locale chiuso ed affollato» (p.83), travolto dal muoversi disordinato e scomposto di gente che, costretta a procedere a tentoni, si scontra continuamente: è questa la condizione dell’uomo, che, pur avvolto nell’oscurità di relazioni intersoggettive generatrici di incertezza, per l’assenza di punti di riferimento, si muove alla ricerca di regole che illuminino il percorso esistenziale di ciascuno ed, ad un tempo, dell’intera comunità.
Se il bisogno imprescindibile di regole, per muoversi e difendersi, è all’origine del viaggio sia dell’uomo, che cerca di dare un senso alla propria esistenza, sia del giurista, cui è affidata la regolamentazione dei rapporti interpersonali, è il filosofo del diritto Francesco Gentile ad intraprendere la fatica di percorrere le tre stanze di Legalità Giustizia Giustificazione[1] , alla ricerca della luce che, dissolvendo le nubi di una pretesa insanabile frattura tra il disordine dei fatti e l’ordine della regole, consenta alla filosofia del diritto di alimentare, con lo studio dei fondamenti filosofici, storici e legali, la formazione del giurista, scaduta, come denunciato «nel 1991 dal Consiglio Superiore della Magistratura» (p.9), per effetto sia del «“rilievo maggiore, almeno in termini quantitativi, dato allo studio analitico della normativa anziché a quello dei principi che lo regolano ed ai criteri logici per interpretare i testi”» (p.9), sia della «“trascuratezza verso materie formative rispetto a quelle di mera specializzazione» (p.9).
La problematicità dell’iscrizione della filosofia del diritto nel piano degli studi giuridici, emergente dal «preambolo di carattere storico e storiografico sulla fortuna della filosofia del diritto nell’accademia italiana» (p.8), è un riflesso della tendenza a considerarla «appendice di una filosofia generale» (p.16), che, in quanto sviluppata in termini di deduzione dal nucleo teorico di un sistema filosofico, sarebbe «eclettica» (p.16), per la coesistenza di significati filosofici e nozioni giuridiche, o, secondo il giudizio di Norberto Bobbio, «“esclusivamente scolastica”» (p. 16), essendo la genuinità e la spontaneità della filosofia soffocata per effetto della sua implementazione nel campo del diritto, caratterizzato da una pretesa di sistematicità e da un conseguente vizio di genericità.
Se la filosofia del diritto è un adattamento al diritto di costruzioni generali, che prescindono completamente dalle specifiche problematiche giuridiche, prodotto di questo processo ideologico di mescolamento è un «filosofico ircocervo» (p. 18), espressione utilizzata, per sottolineare il carattere caotico e confuso del nesso tra diritto ed etica, da Benedetto Croce, con specifico riferimento all’«universale giuridico» (p.18), «che sarebbe giuridico, ma avrebbe un carattere etico» (p.18) ed il cui «solo ufficio sarebbe fornire una base teorica alla cattedre di filosofia del diritto» (p. 18), nella polemica innescata dalla critica di Giorgio Del Vecchio alle argomentazioni crociane, «incapaci di consentire l’abbandono o la correzione di categorie che la stessa esperienza dimostrava erronee o insoddisfacenti» (p.18). É questo un esempio di quella incomunicabilità tra giuristi e filosofi, che se rinviene la sua genesi nella «mescolanza di dottrine filosofiche e concetti tecnico-empirici di cui erano rimaste vittime, sia pure in forme diverse, sia l’indirizzo positivistico sia quello neo-kantiano» (p. 21), finisce per attraversare «tutto il Novecento» (p.23) – come sostenuto in modo «molto fermo e documentato» «da Federico Casa» (p.23) – essendo state sia «la filosofia della Scuola analitica, per ammissione della stessa» (p.23), sia «la filosofia del cosiddetto circolo ermeneutico, nonostante il merito specialissimo di problematizzare sia la struttura che il significato dell’attività giurisdizionale» (p.23), incapaci di «cogliere il reale significato dell’esperienza giuridica» (p. 24), e di gettare quel ponte tra filosofi e giuristi, che pure Giorgio Del Vecchio aveva ideato, fondando, nel 1921, la Rivista Internazionale di Filosofia del diritto, pensata quale ideale punto di incontro e fruttuoso luogo di dialogo tra chi, fingendo di ignorarsi ed ostentando una reciproca indifferenza, non solo ha alimentato le incomprensioni, escludendo che la filosofia del diritto potesse essere coltivata come «problematizzazione dell’esperienza giuridica» (p.16), ma ha contribuito, in modo catastrofico, alla «crisi della verità del diritto» (p.24), progressiva perdita del legame del diritto con la verità, spintasi fino alla constatazione di Enrico Opocher, che il diritto del nostro tempo, in quanto strumentale e formalistico, è «un diritto senza verità» (p. 24).
L’«incontro tra i filosofi ed i giuristi», che non si è «mai realmente stabilito nella costruzione dell’esperienza giuridica» (p.26), si è verificato nell’esplosione della comune tragedia, di avvertire da un lato, l’imprescindibile «necessità di dare un contenuto concreto alla verità giuridica» (p.25), che non si opponga alla storia, pena la negazione dello stesso concetto di verità e la riduzione del diritto ad una mera forma, dall’altro l’impossibilità di riempire quest’ultima di qualsiasi valore giuridico, senza cadere nella contraddizione di negare la verità nel momento stesso della sua affermazione, «meramente ideologica» (p.25), per effetto del consumato sacrificio «alle istanze della storia» (p.25). La pretesa formalistica e nichilistica di uscire dall’impasse attraverso la rinuncia alla consapevolezza di questa verità per l’impossibilità di coglierla nella sua concretezza, ha chiuso i filosofi ed i giuristi nella gabbia del «laicismo giuridico» (p.27), quale «pretesa sia di isolare l’esperienza giuridica dalla complessa trama dei problemi, delle istanze e delle certezze implicite nell’azione, sia di fondare e far valere la verità del diritto nel mondo sociale, indipendentemente dalle connessioni profonde che la legano alla complessa trama del mondo morale, prescindendo da una unitaria e coerente concezione del significato metafisico dell’azione e dei suoi valori» (p.27). Una via di fuga da questa «metafisica dell’antimetafisica» (p.28) che segrega la filosofia ed il diritto nell’immanenza della storia e nella finitudine e temporalità del divenire, precludendo la ricerca delle essenze, in nome dell’efficienza del funzionare e della regolarità del procedere, è aperta dalla filosofia dell’esperienza giuridica, la cui «anima» (p.29), Giuseppe Capograssi, non solo ravvisa la causa della crisi nella pretesa di elaborare una teoria razionale del diritto «etiamsi Deum non esse» (p.28), ma intuisce che imprescindibile per il suo superamento è «tentar le essenze» (p.29), ad opera di una filosofia del diritto non più mera applicazione della filosofia generale al campo del diritto, ma «una delle possibili vie o belvederi all’esperienza» (p. 30)
La filosofia del diritto diviene problematica ed è nella problematicità della nozione di diritto come esperienza che risiede la ragione della simpatia di cui il movimento della filosofia dell’esperienza giuridica gode sia tra i filosofi, che, per cogliere il valore dell’esperienza giuridica, devono seguire il lavoro dei giuristi, sia tra i giuristi, che, per portare alla luce i motivi profondi ed in sostanza filosofici del loro operare, devono attendere alla fatiche dei filosofi.
Se la sfortuna della filosofia del diritto è imputabile alla sua concezione quale «spiegazione di fatti, che persegue lo scopo della razionalizzazione delle procedure operative attraverso una esercitazione meramente filologica sul discorso giuridico, con la conseguenza inevitabile dell’abbandono dell’intera esperienza giuridica alla irrazionalità del fatto compiuto ed in buona sostanza alla forza» (p.31), per risollevarne le sorti è necessario problematizzare «il fenomeno giuridico inteso come esperienza», attraverso il riconoscimento del carattere originario del «“riconoscimento della verità” come ciò senza di cui l’esperienza, anche quella giuridica, neppure sarebbe» (p. 31), ribaltando il rapporto tra filosofia e scienza: «il momento filosofico» non solo non sopraggiungendo ma anticipando «l’operazione stessa», viene «prima di quel particolare modo di riflettere sul fenomeno che risponde al nome di scienza giuridica» (p.31).
Se l’esperienza giuridica, «momento originario» (p. 32) nella individuazione della «trama fatta di teoria e prassi» (p.32) e «forma prima» nella comprensione delle cose «in un tutto fluente, in cui soggetto ed oggetto della conoscenza sono intimamente connessi»(p.32), è un «fiume»(p.32), «per il carattere di mobilità e varietà degli elementi che viene convogliando» (p.32), funzione della filosofia del diritto, come intuito da Marino Gentile, la cui idea della filosofia quale «attitudine mentale» «prima e piuttosto» che «sistema concettuale» (p.33) è fondamentale nella individuazione del ruolo che la filosofia del diritto è chiamata a giocare nella formazione del giurista, è scoprire, «sotto la crosta gelata degli irrigidimenti intellettualistici» (p.33), frutto della «precoce e perciò intempestiva formazione dei concetti» (p.33), ad opera della conoscenza analitica attraverso la segmentizzazione infinitesimale dei suoi oggetti, «la corrente liquida dell’esperienza» (p.33), «non adulterata dalla operatività scientifica»(p.33), ma fluente con la libertà dell’intuizione filosofica, instancabilmente impegnata nella ricerca «dell’essenziale» «al di là del contingente», «del vero» «al di là dell’opinabile», e «del giusto» «al di là del legale» (p.34).
La domanda, che sempre più urgentemente, a partire dagli anni Settanta, i giuristi si pongono sul che cosa ci sia a fare il diritto nell’ambito dell’esperienza umana, non solo apre «la stagione della caccia alle ideologie» (p.37) sottostanti alle geometrie legali, disvelate da un gruppo nutrito di filosofi del diritto, raccolti, negli «Incontri dell’Ircocervo su “Teoria e prassi alle radici dell’esperienza giuridica”, «per cinque anni, tra il 1984 e il 1988» (p.37), intorno a giuristi quali «Perlingieri, Grasso, Ziccardi, Giannini e Fazzalari» (p.37), per ascoltare la loro esperienza ed inaugurare la problematizzazione filosofica di temi di diritto civile, costituzionale, internazionale, amministrativo e processuale, ma contribuisce, in maniera decisiva, all’attribuzione di un nuovo significato all’espressione «ircocervo filosofico», non più miscuglio impossibile ed incongruo di teoria e prassi, in quanto tale inesistente, secondo la definizione crociana, ma approccio problematico all’esperienza giuridica, intesa non plasticamente ma dinamicamente, quale fluire dei fatti che sono non solo un semplice insieme di goccie, ma diventano un fiume se ed in quanto incarnazione dell’idea di fiume.
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