OTTAVIO DE BERTOLIS, Elementi di antropologia giuridica, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2010
(«La crisalide». Studi filosofici di critica civile a cura di Francesco Gentile, 32), pp. 127.
di Franco Todescan

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L’antropologia cioè, secondo le incisive parole di Nicola Abbagnano (Dizionario di filosofia, Torino,1964, p. 54), l’esposizione sistematica delle conoscenze che si hanno intorno all’uomo, sta assumendo una rilevanza sempre maggiore anche nel campo degli studi giuridici. Già i filosofi dell’Ottocento avevano sovente sottolineato la sua importanza come disciplina filosofica, in particolare come determinazione di ciò che l’uomo deve essere, nei confronti di ciò che è. Humboldt, per esempio, auspicava che l’antropologia, pur determinando le condizioni «naturali» dell’uomo, scoprisse, per loro tramite, l’ideale stesso dell’umanità. E prima ancora Kant aveva formulato la nota distinzione fra un’antropologia fisiologica che considera quello che la natura fa dell’uomo e un’antropologia pragmatica che considera invece quello che l’uomo come essere libero può e deve fare di se stesso. Assai di recente è stata autorevolmente sottolineata l’importanza del discorso antropologico per una visione moderna della legge naturale: «L’idea di una legge naturale si giustifica anzitutto sul piano dell’osservazione riflessa delle costanti antropologiche che caratterizzano una umanizzazione riuscita della persona e una vita sociale armoniosa. L’esperienza riflessa, veicolata dalle sapienze tradizionali, dalle filosofie o dalle scienze umane, consente di determinare alcune delle condizioni richieste perché ciascuno dimostri al meglio le proprie capacità umane nella sua vita personale e comunitaria. Così si riconosce che certi comportamenti esprimono un’esemplare eccellenza nel modo di vivere e di realizzare la propria umanità. Essi definiscono le grandi linee di un ideale propriamente morale di una vita virtuosa “secondo la natura”, cioè in modo conforme alla natura profonda del soggetto umano» (Commissione Teologica Internazionale, Alla ricerca di un’etica universale: nuovo sguardo sulla legge naturale, n. 61).
D’altra parte sono pure stati evidenziati taluni dubbi che permeano parte della cultura contemporanea: «L’idea di legge naturale, raccomandata da una lunga tradizione di pensiero, dà espressione a un profilo formale della legge che appare innegabile. La legge non è tale, non è cioè un imperativo categorico per la libertà umana, se non a questa condizione, ch’essa sia imposta dalla natura stessa dell’uomo. Che d’altra parte all’agire di ogni singolo uomo, e rispettivamente alla generalità dei rapporti umani, s’imponga una legge appare indubitabile. Subito inciampiamo in difficoltà appariscenti, che minacciano di paralizzare immediatamente il discorso. Mi riferisco anzi tutto a questa difficoltà: la figura de la legge è diventata nella cultura contemporanea assai indeterminata. Penso alla cultura intesa, in prima battuta, quale complesso dei discorsi mediante i quali sono articolati i significati elementari della vita comune. La cultura così intesa corrisponde alla cultura intesa in senso antropologico? Intesa dunque come complesso delle forme simboliche mediante le quali trovano articolazione i significati fondamentali del vivere nell’esperienza comune effettiva? Circa tale identità appare giustificato il dubbio. Esso ha la figura più precisa di un sospetto: nelle società occidentali tardo moderne una grande distanza separa i discorsi pubblici dalle forme effettive che assume la vita dei singoli; questa seconda rimane per molta parte clandestina» (G. Angelini, La legge naturale e il ripensamento dell’antropologia, in La legge naturale. I princìpi dell’umano e la molteplicità delle culture, Glossa, Milano, 2007, p. 187).
Alcune risposte a siffatti dubbi possono trovarsi in questo aureo libretto di Ottavio De Bertolis, docente di Filosofia del Diritto nella Pontificia Università Gregoriana: «Potrebbe sembrare strano asserire – rileva De Bertolis – che un discorso giuridico debba necessariamente fare riferimento all’antropologia, cioè a una scienza che studia l’uomo, i suoi bisogni, le sue esigenze imprescindibili. Questo sembra a molti un discorso, diciamo così, troppo “filosofico”, che non pare avere niente a che fare con il diritto “puro”, una teoria cioè non contaminata da considerazioni esterne alle leggi stesse, una reine Rechtslehre, secondo l’espressione di H. Kelsen. Ma è evidente che ogni ordinamento giuridico presuppone una determinata concezione dell’uomo, dei suoi fini, dei suoi bisogni, ossia, per dirla con una parola ormai desueta, della sua natura» (p. 7). L’Autore, ottimo conoscitore del pensiero di S. Tommaso, ripropone in chiave suggestiva una concezione che in altra sede ha definito reicentrica: «L’intelligenza della giusta misura, la consapevolezza che esiste un bene nel quale e dal quale si danno i singoli beni particolari, pur non confondibile con alcuno di essi, e attingibile soltanto attraverso l’approccio filosofico, e non puramente scientifico, costituisce la condizione del formarsi di ogni particolare nel grandioso quadro del reale; è garanzia dell’adeguatezza di ciascuno di essi alla ragione particolare in funzione della quale si sono formati; è disciplina dei loro rapporti reciproci e quindi degli spazi a ciascuno convenienti; è fattore d’equilibrio in vista del bene comune. Questa giusta ragione, o giusta misura, è appunto l’uomo, per il quale il diritto è stato costituito». In questo senso egli tratta di antropologia, un tema sempre più urgente, visto che oggi si invoca il diritto per legittimare una ri-costruzione dell’uomo, ora temuta ora invocata, della sua natura sessuata, della sua nascita, della sua morte. Non è possibile infatti ripensare il problema bioetico se non ricercando l’antropologia oltre le antropologie, oltre le singole, parziali descrizioni del comportamento umano. Come osserva Benedetto XVI la «questione sociale è diventata radicalmente questione antropologica, nel senso che essa implica il modo stesso non solo di concepire, ma anche di manipolare la vita, sempre più posta dalle biotecnologie nelle mani dell’uomo […] Dietro questi scenari stanno posizioni culturali negatrici della dignità umana» (Caritas in veritate, n. 75), nel senso giuridico del termine, cioè della libertà e dell’uguaglianza (pp. 12-13).
Il punto di partenza della riflessione di De Bertolis è che l’uomo si qualifica essenzialmente come un animale dotato di linguaggio, a differenza di tutti gli altri animali, che usano soltanto segni. Il linguaggio rappresenta il problema costitutivo, e al tempo stesso rivelativo dell’uomo. Se nel mondo naturale e le cose diventano significative in funzione dell’uomo, non è così nel mondo del linguaggio, che l’uomo costituisce e nel quale egli già si trova, e vi entra apprendendone il senso, già da tutti condiviso. L’uomo potrebbe bensì distruggere ogni senso comune delle parole, potrebbe ri-plasmare a proprio piacimento ogni parola, riscrivendo un mondo a propria immagine e somiglianza, ma lo dovrebbe pur sempre fare accettando e inscrivendosi nelle regole di una lingua già data, a pena di parlare una lingua tutta e solo sua, compresa dunque da sé solo: cadrebbe cioè nel delirio, o nell’idiozia intesa nel senso etimologico del termine. Il discorso, la lingua comune, è la prima ragione comune, e costituisce uno degli aspetti imprescindibili del bene comune, in cui consiste il diritto (pp. 15-16). Ineludibile punto di partenza per l’Autore è che «in noi la libertà è originariamente caratterizzata dal nostro essere e dai suoi limiti. Nessuno plasma la propria coscienza arbitrariamente, ma tutti costruiscono il proprio “io” sulla base di un “sé” che ci è stato dato. Non solo le altre persone sono indisponibili, ma anche noi lo siamo a noi stessi» (Caritas in veritate, n. 68). Scopo tuttavia di queste riflessioni non è tanto delineare compiutamente l’antropologia giuridica, presumendo di avere una ricetta già bella e pronta: piuttosto è quello di provare a indirizzare il lettore lungo una via unitaria che possa costituire il punto di partenza per affrontare nuovi problemi, che richiederanno sforzi più ampi e condivisi (pp. 18-19).
Il libro si articola in cinque capitoli. Nel Capitolo I: Diritto e libertà l’Autore sostiene che «due sono i polmoni con i quali l’ordinamento giuridico respira: il diritto, come antecedente logico e indisponibile alla volontà umana, come semplice realtà da tradurre in termini normativi, e la legge, prodotto logicamente successivo ma indispensabile della volontà umana, negli stessi termini del positivismo ma in un quadro costitutzionale giuridicamente significativo». Per questo motivo nella giurisprudenza romana si trova che non il diritto è tratto dalle regole, ma è la regola che deriva dal diritto. Questo ci permette di ancorare le leggi ad un significato sottratto al potere del legislatore (p. 29). Il diritto «non può essere pensato conchiuso in se stesso, come del resto nessuna scienza lo può essere, pena l’autoreferenzialità, e dunque l’impossibilità della sua verificazione o falsificazione. Non esiste un sapere giuridico se non inserito tra altri saperi, i quali stanno tra di loro come le caselle esagonali di un alveare: si appoggiano le une alle altre, e in qualche modo si rinviano reciprocamente». L’intelligenza consiste nel cogliere la necessità logica del reciproco rinvio delle interdipendenze tra i saperi che «dicono» le cose, e tra i saperi e le cose stesse, poiché essi non possono verificarsi (o falsificarsi) rimanendo conchiusi nel proprio orizzonte; sapienza infatti è continuamente reinserire questo sapere nell’orizzonte antropologico del diritto, che è la persona umana. Il diritto, inteso come res da normare, è la norma presupposta; la persona è il termine a partire dal quale e nel quale il diritto, e dunque le leggi, trovano significato, poiché le cose significano qualcosa solo in relazione ad un soggetto significativo (pp. 44-45).
Nel Capitolo II: Dalle pretese ai diritti: circuito e controcircuito acutamente De Bertolis osserva che «nei fatti noi troviamo dei valori, perché gli atti umani non sono fatti naturali, e la stessa distinzione giuridica tra atti e fatti è significativa: se Hume ha ragione nel dire che i fatti della natura, il loro accadere, non devono essere, ma solamente sono, questo però non è vero degli atti umani, che si distinguono dai fatti naturali perché volontari, e quindi dotati di significato per chi li fa e per i destinatari». Certamente, restando all’interno dell’orizzonte mentale segnato dalla propria opzione di partenza, che in tal caso si rivela al limite come pre-giudizio, non si può mai falsificare, cioè avvicinarsi alla realtà, e dunque al vero. La metafisica aiuta pertanto l’uomo rivolgendogli un pressante appello a uscire da se stesso per avere uno sguardo non divino, cosa che gli sarebbe impossibile, ma sicuramente più ampio (pp. 64-65).
Nel Capitolo III: Il tranello intellettualistico ci troviamo «al punto centrale dell’equivoco sul quale si giocano le pretese delle biotecnologie: l’equiparazione tra diritto e altre tecniche è infatti assurda perché contraddice lo stesso statuto epistemologico (il “che cosa è” del diritto) tanto quanto quello delle scienze, e rivela nei suoi sostenitori una sconcertante mancanza di habitus non solamente filosofico ma più propriamente giuridico». Lo stesso paralogismo in cui spesso ci si imbatte quando sentiamo dire che gli animali mostrano sentimenti di altruismo o “carità”, assume di fatto un comportamento peculiare all’uomo per spiegare quello degli animali, affermando che questi si comportano come quello, in altri termini che uomo e animali obbediscono alle medesime regole. In realtà si dice soltanto – e qui è il non-detto che conta, e che passa come messaggio subliminale – che non v’è differenza tra uomo e animale. Questo significa quanto meno delegittimare l’antropologia, rendendola una mera parte della zoologia (p. 81).
Nel Capitolo IV: Diritto ed ecologia p. De Bertolis sostiene che tra diritto ed ecologia v’è un parallelismo intrinseco: «in entrambi i casi abbiamo infatti una tecnica, il diritto o le varie tecniche industriali, e un mondo esterno, la comunità umana oppure l’ecosistema, sul quale si opera. In entrambi i casi ci si può legittimamente domandare quale sia l’ambito di tale intervento, quale ne debba essere la portata e, in particolare, se esso sia legato alla volontà di dominio dell’uomo oppure se trovi alcuni limiti alla propria invasività; e, in tal caso, quali essi siano, o come si stabiliscano» (p. 89). L’uomo, nel suo darsi come spirito pensante, deve imparare a inserire se stesso in un universo già significante, in un orizzonte già dato, costituito da lui stesso e dagli altri accanto a lui: l’acquisizione di tale dimensione è profonda maturità, il senso della mia presenza a me stesso e con gli altri accanto a me, il limite che io stesso possiedo in quanto non onnipotente e che gli altri costituiscono per me in quanto esistono. Il bambino infatti diviene adulto quando impara a rapportarsi al mondo esistente, non alle proprie fantasie (p. 101).
Chiudono il libro alcune suggestive riflessioni raccolte nel Capitolo V: La sapienza biblica, frutto di «una riflessione esistenziale, cioè più profondamente sapienziale, sui simboli evocati dalla Scrittura per affrontare i problemi giuridici di sempre, senza pretese di esaustività né di completezza esegetica». Vi si esaminano l’episodio di Caino e Abele, la parabola del «figliol prodigo», la crocifissione di Gesù Cristo. L’Autore si pone qui più sulla linea di ricevere delle suggestioni, dei simboli che danno a pensare, che non dell’elaborazione di un sistema compiuto (p. 105). Ed è proprio all’interno di questa atmosfera, suggestiva e profonda insieme, che quest’ultima fatica di Ottavio De Bertolis aiuta il filosofo del diritto a rintracciare quelle radici antropologiche così necessarie in un mondo che tende drammaticamente a dimenticare le proprie origini culturali e i propri limiti esistenziali, cadendo in una condizione di quotidiana conflittualità generalizzata e di profondo smarrimento.