G. Prauss, Moral und Recht im Staat nach Kant und Hegel,
Karl Alber, Freiburg-München 2008, 152 pp.
di Markus Krienke

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Gerold Prauss riprende in questa analisi dei concetto di “diritto” e “morale” in Kant ed in Hegel l’“assioma” di Böckenförde e dimostra come la sua paradossalità nasce con Kant, viene cementata con Hegel e sfocia nel dialogo tra l’allora Prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede Joseph Ra-tzinger e Jürgen Habermas nell’Accademia cattolica della Baviera a Monaco nel 2004. Questi ultimi due, per Prauss, sono solo l’ultimo «esempio eclatante» per la mancanza di coscienza dell’«errore» kan-tiano di cui l’autore teme che «ci costerà ancora tanto» (125s., cfr. 9). La prova per il fatto che ancora oggi non abbiamo preso coscienza della comprensione fatale di diritto e morale che caratterizza la no-stra società, starebbe nel fatto che proprio il dibattito tra Ratzinger e Habermas a Monaco non avrebbe prodotto nemmeno il minimo «scalpore pubblico» che invece secondo Prauss avrebbe dovuto accade-re (126). Nell’orizzonte del suo argomento complessivo, ciò avrebbe comunque costituito solo lo scal-pore finale di un periodo di trecent’anni in cui la nostra dottrina liberale dello Stato si sarebbe basata sul un clamoroso erroneo sistematico in Kant. L’esito di questo errore sarebbe la riduzione del nostro concetto di diritto e di Stato sul mero potere e sull’arbitrio (9). Evidentemente, una tale tesi molto co-raggiosa deve essere comprovata bene, soprattutto per il modo drastico in cui l’autore la presenta.
La sua argomentazione viene presentata in cinque passaggi che danno la struttura al lavoro, suddiviso quindi in cinque capitoli. Il primo capitolo (11-35) presenta il «primo tentativo» di Kant, come lo chiama Prauss, di fondare la sua teoria del diritto e dello Stato. Innanzitutto Prauss critica la determinazione kantiana di rapporto tra «volontà» e «dovere» perché, come egli rivela, per la volontà ci sono solo due possibilità di rapportarsi: o la volontà corrisponde al dovere oppure no. Dunque, egli si stupisce che Kant ne concepisce invece tre modi, in quanto la volontà ci si può rapportare anche in «modo indiffe-rente» (13). Infatti, sono queste le azioni che per Kant si svolgono né «contro» il dovere né «per» il do-vere ma solo «secondo» il dovere (15). Prauss nota subito che Kant ha difficoltà di definire precisamen-te questo terzo tipo di azioni, fino al punto che egli deve ricorrere ad un esempio concreto, quello del mercante della Fondazione della metafisica dei costumi. La stessa difficoltà testimonierebbe la Critica della ragion pratica (16), che riprende questo terzo tipo di azioni della Fondazione che ora chiama – a differenza da quelle «morali» e «immorali» – «legali» (legal), «secondo leggi» (gesetzlich) e «giuridiche» (juridisch): queste sono solo «secondo il dovere» (pflichtmäßig), un termine che però ora viene sostitui-to da «secondo la legge» (gesetzmäßig). Il passaggio definitivo sta, poi, nell’identificare quest’ultimo termine con «secondo leggi» e quindi con «legale» e «giuridico», e nella loro determinazione come «le-galmente buoni» (gesetzlich gut) (17s.). Già dopo questa analisi, Prauss esplicita la sua tesi che tale co-stellazione sistematica «rischia di far fallire sin dall’inizio l’approccio di Kant ad una teoria di azioni in quanto buone e cattive» (18s.). Così si vincola alla distinzione di buono/cattivo ed ipotizza che siccome esistono le azioni moralmente buone/cattive allora, per la forza del parallelismo, ci dovrebbe essere anche la distinzione fra quelle legalmente buone/cattive – solo che questo parallelismo, però, condur-rebbe a quattro alternative, non a tre come teorizzate da Kant. Da ciò Prauss deduce che è in questione «[i]n ultima analisi del senso della differenza tra morale e diritto, la cui determinazione manca fino ad oggi» – e infatti Prauss dubita che possa esistere in questo quadro kantiano (19; corsivo M. K.).
Come ulteriore analisi, egli svolge considerazioni filologiche sul significato e sull’uso di «secondo» (ge-mäß) e «per» (aus) dovere (20s.), e giunge alla conclusione che la triplice differenziazione non starebbe in piedi (21). La ragione per questa differenziazione di Kant, che fino ad oggi è responsabile per i nostri gravi problemi nei concetti di diritto e di Stato, come l’autore non si stanca di rilevare, sta nell’errore di aver distinto due motivazioni differenti di azioni «secondo» o «per» dovere, in quanto il motivo può es-sere sempre e soltanto uno: la libertà (28s.). L’«inclinazione» (Neigung), che in Kant starebbe come «mo-tivo» (così Prauss) alla base delle azioni solo «secondo» il dovere, non potrebbe affatto essere un «mo-tivo» perché così si collocherebbe all’interno dell’azione stessa. Questa azione, però, si attua sempre per il «motivo» (meglio: per il «movente») della «libertà» o meno, o cioè di soddisfare la «inclinazione» o no (30). Una conferma il nostro autore la riconosce nel fatto che secondo lui Kant non riuscirebbe a di-mostrare che la sua affermazione per la quale esclusivamente la «legge morale» (moralisches Gesetz) è «per sé» il «movente» (Triebfeder) (31s.). Per questo, il carattere vincolante della legge non deriverebbe dalla legge stessa, in quanto essa deve essere accolta in libertà (32). Così Prauss arriva alla conclusione del primo capitolo cioè che «non può essere sensato imporre un “motivo per” un’azione», perché in questo caso ci sarebbe sempre l’«azione» già prima dell’«azione» stessa e la fondazione della stessa, appunto, svanisce nel regresso all’infinito (32). A questo punto rimane, però, la forte impressione che Prauss pare confondere il termine «motivo» con quello di «movente soggettivo» (subjektive Triebfeder) (28).
Per il nostro autore, costituisce un «divario non giustificabile» la differenza di specie tra le azioni «se-condo» il dovere, che sono moralmente buone per il semplice fatto di essere – “casualmente” – un’obbedienza, e le azioni «per» dovere, che sono moralmente buone solamente per il loro motivo (di nuovo: «movente»?) (34). In quanto questa differenza sta al fondamento della separazione tra diritto e morale, secondo Prauss, essa determina la comprensione del loro rapporto fino ad oggi – e questa conseguenza è oggetto d’analisi del secondo capitolo (35-61).
Nel secondo passaggio del suo ragionamento, Prauss delinea il formarsi della differenza tra diritto e morale in Kant a partire dalla Fondazione sulla base del ragionamento erroneo delineato nel primo ca-pitolo: avendo recuperato il concetto di diritto come semplice osservanza della legge morale, in un se-condo momento esso viene distaccato da quest’ultima, ma mantiene il senso della «pura osservanza» in modo tale che possa essere riferito alla «mera legge universale del diritto» (bloßes Rechtsgebot) ete-ronoma (37). Da questo momento in poi, in Kant, il diritto è utilizzato come «qualcosa di esteriore», im-posto dallo Stato: l’esteriorità diventa il momento distintivo del diritto, sia per il fatto dell’imposizione, sia anche per la sua accertabilità, e infine perché ha bisogno di un potere esteriore. Così il diritto diven-ta gestibile secondo una «meccanica» che non si differenzierebbe dalla meccanica delle leggi naturali: in entrambi i casi si tratterebbe di leggi eteronome (38-40). Kant si illude, secondo l’autore, di aver evi-tato tale conseguenza per la precedente distinzione tra «natura» e «libertà», e così egli sarebbe com-pletamente “ingenuo” sulle conseguenze che ha avviato con la sua teoria «abissale» sul diritto, sulla morale e sullo Stato – sempre nel giudizio di Prauss: oggi tutti i tre concetti sono diventati preda di un naturalismo empiristico (44).
Fichte, inoltre, secondo le analisi del nostro autore, avrebbe ripreso fedelmente le decisioni fondamen-tali di Kant, e anche i concetti di diritto e morale in Hegel si capiscono solo su questa base (45, 93): Kant, Fichte ed Hegel cementano così un concetto di diritto identificato con la coercizione, l’astrattezza, il meccanismo oggettivo, l’universalità senza spirito, fino a comprendere tutto lo Stato come una «macchina» e un «sistema di dipendenze esteriori» (Hegel) (46-48).
Hegel vedrebbe chiaro, comunque, che la «macchina» Stato, che in linea di massima dovrebbe essere insensibile per la disposizione d’animo (Gesinnung) dei suoi cittadini, invece ne ha bisogno, come sot-tolinea nei Lineamenti, precisando comunque che non si tratta di una disposizione d’animo religiosa, in quanto concepisce qui lo Stato come essenzialmente distinto dalla religione (49-51). Ma da dove do-vrebbe derivare, chiede Prauss, questa disposizione d’animo, se non dalla religione e neanche dalla morale? Per il momento, il nostro autore si accontenta con la risposta hegeliana, che essa nascerebbe dalla «intellezione filosofica nell’essenza del medesimo [dello Stato]» (Hegel, cit. 51). Infatti, poi Prauss registra come questo modo astratto di concepire la disposizione d’animo per Hegel non sia sufficiente, per cui viene identificato con la religione (52). Proprio questa svolta sarebbe stata necessaria per Hegel, in quanto egli avrebbe riconosciuto nella concezione kantiana un momento esplosivo, e cioè la libertà individuale dei soggetti che prima o poi avrebbe dovuto far saltare la «macchina» Stato. A questo pun-to, solo nella “religiosità/religione” Hegel troverebbe il sostegno necessario per lo Stato (54). Ma per Prauss questo non può essere un argomento sistematico rilevante, in quanto egli identifica – in modo invero scarsamente fondato da un punto di vista filosofico – la religione immediatamente con il terrore e il fanatismo, poi anche con il fondamentalismo, contraddicendo la valutazione positiva del modello hegeliano da parte di Böckenförde (55s., 121). E il nostro autore conclude che Hegel sarebbe ricorso al-la religione soltanto perché non sapeva uscire in modo diverso da quei concetti distorti di diritto, mo-rale e Stato che egli avrebbe ereditato da Kant (56).

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