SUL TERZO VOLUME DELLA COLLANA “PRUDENTIA IURIS”
di Ugo Pagallo

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Dopo i saggi di Francesco Gentile, El ordenamiento jurídico, entre la virtualidad y la realidad (traduzione spagnola di Ordinamento giuridico tra virtualità e realtà giunto alla seconda edizione, Cedam, Padova 2001), nonché di Miguel Ayuso, De la ley a la ley. Cinco lecciones sobre legalidad y legitimidad, è apparso, di recente, il volume terzo della collana "Prudentia iuris", ossia, lo studio di Álvaro D’Ors su Bien común y enemigo público.
Secondo quant’è caratteristica principale della collana – come spiega il suo direttore, Miguel Ayuso, essa mira, "da un lato, [ad] aprire la scienza giuridica all’esperienza nella sua integrità, mentre, d’altro canto, centra la sua specificità nella determinazione del giusto e il discernimento dell’ingiusto" -, il nuovo studio di "Prudentia iuris" suggerisce un’indagine attorno all’ordinamento giuridico, scandita da due concetti chiave. Laddove, nel caso di Francesco Gentile, questa prospettiva è definita dai concetti di "virtualità" e "realtà", e, nel volume di Ayuso, da "legittimità" e "legalità", il titolo del contributo di Álvaro D’Ors spiega il punto di fuga che si è inteso adottare: il "bene comune" e il "nemico pubblico".
Gli aggettivi qualificativi sono altamente significativi. Nel primo caso, la natura "comune" del Bene sta infatti ad indicarne lo statuto universale, come tale sottratto all’identificazione – così frequente nel pensiero moderno -, tra il bene che accomuna una molteplicità di persone, e l’ente pubblico statale, ossia, per dirla con Francesco Gentile, tra l’intelligenza politica e la statistica o/e la ragion di stato. "Ciò che è comune – spiega così D’Ors -, è universale, mentre il pubblico si riferisce a un determinato ‘popolo’, o ‘Stato’. In realtà, ciò che chiamiamo ‘bene particolare’ è ‘bene comune’, se non arreca danno a nessuno, oppure è ‘interesse’, quando s’intreccia con l’interesse di un’altra persona o gruppo" (pag. 19).
Lasciando per il momento da parte il fondamento teologico dell’Agathon che l’Autore propone, muovendo da Genesi 2, 17 (v. op.cit., pp. 29 ss.), concentriamoci sul piano strettamente filosofico dell’indagine, che, in questo caso, deriva dal secondo dei due termini della endiadi. È alla luce della nozione di "nemico pubblico" che si staglia infatti, con particolare evidenza, la tesi che mira a sostenere D’Ors: se il Bene, autenticamente inteso, non può che trascendere le opposizioni di pubblico e privato, generale e particolare, essendo, appunto, un bene "comune", d’altro canto, la figura del "nemico" non può essere mai colta come alcunché di "comune", ma, solo, come nemico "pubblico". "Si parla indebitamente di nemici totali dell’umanità. Tuttavia – spiega il giurista spagnolo – basta l’esperienza tratta dai giudizi per il delitto di ‘lesa umanità’ per capire che si tratta, in questi casi, di presentare come universale una inimicizia che è realmente particolare" (pag. 24).
Si badi bene, il punto che qui preme sottolineare, è di carattere teoretico, non meramente empirico: non è il caso, cioè, di appurare se il giudice Garzón – al quale pure, probabilmente, deve aver pensato D’Ors -, ha fatto bene, o male, a (tentare di) processare il generale Pinochet; oppure, per citare un caso ancor più recente, se le accuse mosse a Saddam Hussein, non nascondano forse particolari interessi petroliferi da parte del presidente George W. Bush. Occorre piuttosto stabilire se, a priori, non possano in realtà esistere nemici "comuni" nel senso forte ed autentico del termine; ossia, "nemici" tout court dell’umanità (che è, ad esempio, la tesi, peraltro grossolanamente sostenuta, da John Rawls in Law of the People).
Or bene, a proposito di questo fondamentale problema affiora la peculiarità delle conclusioni avanzate da Álvaro D’Ors e, con queste, la soluzione di continuità teoretica che è dato registrare, a mio giudizio, rispetto ai precedenti contributi della collana. Se l’Autore esordisce, affermando che "il nostro modo d’impostare la questione non è filosofico, bensì giuridico" (pag. 11), tuttavia, non solo l’illustre romanista spagnolo, come detto, ricorre ad argomenti di natura teologica per fondare la razionalità argomentativa del ricorso alla nozione di bene comune, ma, al tempo stesso, si appella ad una ben precisa impostazione filosofica per motivare l’assunto della costitutiva particolarità della figura del nemico. "Il nemico lo è SEMPRE di un gruppo determinato, e questo risulta congruente con il principio che l’essenza del ‘politico’ consiste nella discriminazione del nemico, principio fondamentale nel pensiero di Carl SCHMITT" (pag. 25).
L’"essenza del politico" – e cioè, la costitutiva dimensione politica che accompagna ogni ordinamento di diritto positivo -, non consiste, dunque, ad avviso del D’Ors, nell’intelligenza del bene che accomuna una molteplicità di persone all’apparenza del tutto diverse. Al contrario, sulla scia di Schmitt, la politicità dell’esperienza giuridica si scinde inesorabilmente nella endiadi di amico e nemico, in quanto, se "il concetto di ‘popolo’, per quanto possa essere inteso in senso molto ampio, è sempre alcunché di relativo" (pag. 23), allo stesso modo, non vi è forma di pensare alla comunità mondiale, se non in rapporto all’insopprimibile differenziazione conflittuale (cfr. pag. 99). Riformulando altrimenti il concetto, si può dire che D’Ors aggiorna nei "grandi spazi" del diritto pubblico internazionale, la lezione del realismo schmittiano. Per quest’ultimo, leggiamo ne Il concetto di ‘politico’ del 1932, "nella lotta millenaria fra Cristianità ed Islam, mai un cristiano ha pensato che si dovesse cedere l’Europa, invece che difenderla, per amore verso i Saraceni o i Turchi" (tr.it. in C. SCHMITT, Le categorie del ‘politico’, Il Mulino, Bologna 1972, p. 112, dove l’autore tedesco commenta "il citatissimo passo che dice ‘amate i vostri nemici’ (Matteo 5, 44; Luca 6, 27"). Per D’Ors, sulla stessa lunghezza d’onda, il fatto "che il contributo alla pace internazionale sia alcunché che concerne il ‘bene comune’ per il quale il fedele cristiano ‘debba lottare’, è qualcosa che manca d’ogni realismo" (pag. 41).
Non entriamo nel dettaglio dell’analisi che il giurista spagnolo svolge a partire da queste premesse. Sovrabbondano spunti di particolare interesse, ma anche motivi di perplessità (non mi riferisco tanto alla critica salutare che viene mossa ad alcuni leit-motiv dell’odierna political correctness, quanto, ad esempio, ad accenni al diritto di guerra durante il nazismo, per i quali risulta maggiormente istruttivo il serrato confronto tra Ernst Nolte e François Furet, con il carteggio relativo).
Tuttavia, nella molteplicità di temi portati all’attenzione del lettore, vorrei soffermarmi ancora, e conclusivamente, sulla asimmetria tra la coppia di concetti che fungono da filo rosso nel discorso del D’Ors; vale a dire, l’assunto che "sono due i termini che consideriamo debbano essere evitati: quello del ‘bene comune’ statale, e quello di ‘nemico pubblico’ dell’umanità. Nello stesso modo in cui lo Stato [curioso che l’Autore, nonostante la propria intenzione, avverta l’esigenza di usare la maiuscola!] può soltanto allegare il proprio interesse particolare, l’umanità non può dichiarare nemici totali contro di essa" (pag. 99).
Delle due, infatti, l’una: o l’impossibilità di individuare un nemico "comune" dell’umanità si ritorce necessariamente sullo stesso modo di concepire la nozione di Agathon (v. op.cit., pp. 26-27); oppure, l’intelligenza che dai tempi di Socrate e Platone consente di cogliere quanto accomuna una molteplicità di persone all’apparenza del tutto diverse – che è poi quanto classicamente s’intende per dialettica -, offre il criterio controfattuale di giudizio con cui distinguere ciò che effettivamente mette a repentaglio le sorti dell’umanità, dal mero arbitrio individuale. Sul piano teoretico, non può che esserci piena identità metodica (dialettica) sul modo di discernere il bene dal male: per dirla con Aristotele, "ogni scienza è scienza dei contrari". Nel caso D’Ors, invece, la simmetria viene spezzata in senso teologico: con argomento che curiosamente ricorda quello del protestante Francis Bacon all’inizio del Seicento, mentre la "scienza del bene e del male" viene affidata nei suoi fondamenti alla Rivelazione, tuttavia, la dimensione universale dei delitti viene riservata dal giurista spagnolo al solo "peccato" innanzi a Dio (cfr. pag. 25). Sicuramente, come vuole alla fine l’Autore, "questa precisione terminologica mi pare feconda di importanti implicazioni logiche e pratiche" (pag. 99). Occorre però impegnarsi sul piano della mediazione tra verità e opinione, giustizia e tempo, senza per questo cadere nel dilemma di chi scaglierà la prima pietra, o, l’imbarazzo utilitaristico di cosa abbiano fatto per noi le generazioni future.