Premessa
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Scrive Jean-Luc Godard: “Faire un film, c’est être détective, avocat, juge ou procureur: on apporte une preuve, on essaye de décrouvrir la vérité”. Le parole del grande regista cinematografico francese restituiscono immediatamente il legame particolare che stringe i mestieri del diritto e l’arte del cinema. Come se la costruzione di un film assomigli ad un’indagine di polizia o ad un gioco processuale dove prove ed indizi sono frammenti di realtà catturati dall’occhio della macchina da presa.
Se l’universo di celluloide presenta indubbie assonanze col mondo del diritto, anche la dimensione giuridica possiede una natura spettacolare, una forza simbolica e visiva che, ad esempio, costituisce il cuore di ogni rito processuale. Franco Cordero ama ricordare come ogni processo sia soprattutto una grande mise-en-scène, un teatro, una festa catartica della memoria collettiva; e Antoine Garapon ribadisce l’imprescindibile valore estetico della ritualità processuale: dalle toghe agli addobbi dell’aula, dalle geometrie dello spazio fino alle posture dei corpi, tutto sembra incastrarsi alla perfezione nei meccanismi di una meticolosa rappresentazione scenica e visiva.
D’altronde, il legame fra arte della messa in scena ed arte del diritto è anche questione lessicale, di parole e significati in comune. Si interpretano i codici ma anche i copioni e le sceneggiature teatrali e filmiche, gli attori si esibiscono sul palcoscenico e compaiono nelle aule dei tribunali, si girano scene sui set cinematografici così come si indagano le scene del crimine: c’è tutto un mondo di assonanze ed incroci semantici che testimonia continuamente la vicinanza fra le tecniche del giurista e le invenzioni dell’artista, del metteur-en-scène.
Ecco perché l’incontro fra cinema e diritto appare inevitabile e non meraviglia che un intero filone delle teorie postmoderne del diritto, dall’inizio degli anni ’80, abbia approfondito le reciproche implicazioni fra due dei “regimi discorsivi più influenti del nostro tempo”. Il movimento Law and Film, nato nei campus statunitensi come diramazione degli studi di Law and Humanities, conta ormai una cospicua letteratura e si è sviluppato negli ultimi anni seguendo principalmente tre direzioni.
L’espressione law-in-film definisce una prima linea di ricerca che studia le modalità di rappresentazione della legge su grande e piccolo schermo. Il diritto è un soggetto privilegiato nella cinematografia di “genere”: dal cinema processuale hollywoodiano – dove incontriamo il trial movie ed il cosiddetto courtroom drama – al cinema carcerario (il prison movie) passando per i thriller, alcune spy story ed innumerevoli serie televisive, la produzione filmica anglo-americana è un’enorme fucina di immagini e narrazioni giuridiche. Da qui l’idea di indagare l’evoluzione e le metamorfosi dell’universo del diritto attraverso l’analisi dei meccanismi di rappresentazione tipici della settima arte. L’”etichetta” law-as-film, invece, indica il campo di ricerche dove il discorso giuridico è ri-letto e re-interpretato come fosse un soggetto filmico, la sceneggiatura o il découpage di un’opera cinematografica. Se il linguaggio normativo del Novecento ha prediletto l’esplorazione delle dimensioni prescrittiva e performativa delle norme, l’incrocio fra diritto e cinema suggerisce l’idea che anche l’asfittico e tecnico parlare dei giuristi conservi un registro narrativo. Infine, con la denominazione film-as-law si intende l’insieme di studi che mostrano come il cinema abbia contribuito a costruire una determinata cultura giuridica influenzando l’immaginario collettivo: in questa prospettiva – come ha recentemente osservato una studiosa attenta come Orit Kamir – cinema e diritto costituiscono due “regimi discorsivi” socialmente dominanti ed entrambi decisivi per la formazione giuridica di quanti, rubando le parole a Lawrence Friedman, «non appartengono al cerchio magico del diritto», ovvero a coloro che non operano direttamente con norme, codici o sentenze. Curiosamente, una delle prime opere che ha cercato di indagare il nesso profondo tra immagini filmiche e costruzione dell’opinione pubblica in ambito giuridico, è stata pubblicata proprio in Italia: Vincenzo Tomeo, sociologo del diritto italiano, nel 1973 consegna alle stampe Il giudice sullo schermo. Magistratura e polizia nel cinema italiano, un volume che, mescolando ricerca empirica e analisi filmica, si interroga proprio su come una certa cinematografia abbia influenzato la percezione di senso comune della figura del giudice nell’Italia a cavallo fra gli anni ‘60 e ’70.
I saggi che compongono questo numero, però, non si inseriscono all’interno della rigida tripartizione indicata dalla tradizione anglo-americana denominata Law and Film preferendo seguire due direzioni diverse: la prima direzione muove dal diritto verso le molteplici rappresentazioni cinematografiche e televisive; mentre la seconda punta dal cinema verso la teoria generale del diritto, investigando tutte le possibili intersezioni ed influenze che la settima arte esercita sui “mille piani” del discorso giuridico e sociale. Così, da originali ed attualissime rivisitazioni dei modi in cui il cinema rappresenta il diritto all’analisi dell’impatto giuridico e sociale di alcuni “generi” cinematografici sulla costruzione del nostro immaginario collettivo, passando per i possibili incroci semiotici, percettivi, retorici ed argomentativi tra linguaggio giuridico e linguaggio filmico, tutti questi saggi si propongono di rileggere il complesso rapporto tra l’arte filmica e il mestiere di giurista contaminando gli stili di ragionamento e le metodologie d’analisi proposte dagli studi di Law and Film.
Con tre obiettivi precisi: evidenziare come oggi, nell’attuale “società degli schermi”, il giurista debba necessariamente confrontarsi con i linguaggi visivi, e dunque con le sequenze cinematografiche e televisive; mostrare come questo confronto, attraverso l’ibridazione e la contaminazione tra saperi, arricchisca la cassetta degli attrezzi di chi è tradizionalmente chiamato a interpretare codici, norme e sentenze; ed, infine, costruire una epistemologia in grado di leggere una fenomenologia del giuridico che diviene sempre più complessa e multiforme, in cui il diritto subisce continui e costanti processi di risemantizzazione, anche attraverso il contatto con le immagini cinematografiche.
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