W. Waldstein, Saggi sul diritto non scritto, Padova 2002
CONTRA
Del metodo intuitivo e la confutazione elenctica
di Ugo Pagallo

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Il volume di Saggi sul diritto non scritto raccoglie, e presenta per la prima volta al lettore italiano, una serie discritti di Wolfgang Waldstein, apparsi tra il 1967 e il 2000, che spaziano dai Vorpositive Ordnungselementen alla nozione di diritto naturale attraverso il diritto romano, alla definizione di giustizia in Ulpiano, al diritto consuetudinario e giurisprudenziale in Roma, e via dicendo.
Poiché dall’insieme dei contributi emerge unaragionata e condivisibile critica dei principi del positivismo giuridico – quanto, a proposito dei fatti normativi, ho già avuto modo di precisare in Alle fonti del diritto come "l’anti-materia nella fisica del positivismo" -, espongo immediatamente le ragioni, per cui non condivido del tutto alcuni punti del ragionamento del romanista austriaco.
In primo luogo, mettendo a fuoco il concetto di diritto naturale, e i suoi principi, da un punto di vista metodologico, Waldstein cita quel noto passo dell’Etica Nicomachea, in cui Aristotele afferma che "i principi, gli uni vengono scoperti per induzione, altri con la sensazione, altri attraverso un’abitudine, e altri in altre maniere" (1098 b, cit. a p. 84, ma qui riportato nella tr.it. di G. Giannantoni per le Opere de Laterza). "Studiando quindi le opere aristoteliche, e tra esse soprattutto la Metafisica – questo il commento del Waldstein – appare chiaro come per i principi non esista altra via che l’intuizione immediata, e ciò è stato praticato costantemente dal filosofo" (ibid.). Possiamo riassumere le tesi del nostro giurista in quattro punti principali:
1. – I principi del diritto naturale esistono e sono conoscibili;
2. – Tra i diversi modi che Aristotele indica per la conoscenza dei principi, nel caso dei principi del diritto naturale, questi, afferma Waldstein, non sono conosciuti tanto attraverso l’induzione, la sensazione, o un’abitudine, quanto in una delle "altre maniere" di cui parla lo Stagirita;
3. – Waldstein, tuttavia, e qui sta il primo contra, identifica le "altre maniere" di Aristotele con la facoltà dell’"intuizione", a sua volta intesa come unico modo, o via principiale, d’intellegibilità del principio;
4. – Infine, a conferma di questa tesi, Waldstein riporta (ibid.) un altro brano di Aristotele, tratto questa volta dalla Metafisica, dove si afferma che "è effetto d’ignoranza se alcuni reputano che anche quel principio [di non contraddizione] si debba dimostrare: ché non altro che ignoranza è non sapere di quali cose bisogna chiedere la dimostrazione, e di quali no. Che di tutto, assolutamente, ci sia dimostrazione, è impossibile: si andrebbe all’infinito, sì che per tal modo non ci sarebbe dimostrazione di nulla" (Met., 1006 a 5-11, che per comodità riprendo nella tr.it. del Carlini in ibid.).
Dov’è, dunque, in-fondata l’argomentazione del nostro studioso?
Innanzitutto, occorre precisare che non miro a contestare la tesi, quanto meno nel "contesto della scoperta" scientifica, per cui i principi possono essere conosciuti per "intuizione" (anche Einstein, ad esempio, scrive a Popper che i principi li "inventava" e lasciamo qui decidere al lettore se questa scoperta debba essere intesa nel senso della inventio dei latini o dei moderni).
Ma, ammesso che tra le "altre maniere" dell’Etica Nicomachea, 1098 b, va annoverata anche l’"intuizione", dubito che il ricordato passo della Metafisica sul principio di non contraddizione, vada interpretato, sempre e comunque, alla luce di questa sola facoltà intuitiva. Mi limito a ricordare che in Met., 1006 a 5 ss., per "motivare" il principio di non contraddizione, Aristotele non ricorre al metodo intuitivo – qualunque cosa si voglia intendere sotto questo metodo -, bensì, alla via elenctica, ossia, alla di-mostrazione del principio con "doppia negazione". Così, allo stesso modo in cui il relativista nega per primo il proprio asserto, in quanto, se tutto fosse veramente relativo, ciò porterebbe a sostenere non di meno un principio assoluto, del pari, prosegue Aristotele, chi ritiene di poter contestare il principio di non contraddizione, non può che cadere in un’aporia, giacché, confutato il principio, ogni tesi sarebbe vera e falsa, sotto ogni aspetto, allo stesso momento. Di qui, senza addentrarci ulteriormente nella confutazione aristotelica del relativismo e l’argomentazione del principio del terzo escluso, basta menzionare "che c’è differenza tra il dimostrare mediante confutazione e il semplice dimostrare, in quanto che" – questo il giudizio dello Stagirita – "chi esegue una semplice dimostrazione può sembrare che faccia una petizione di principio, mentre, al contrario, se la responsabilità di una tale petizione di principio è di un altro, allora si ha confutazione e non dimostrazione" (Met., 1006 a 15 ss., p. 96 della tr.it. del Reale).
A differenza di quanto sembra suggerire Waldstein con i richiami alla filosofia di Aristotele, dobbiamo dunque convenire che tra le "altre maniere" di apprendere i principi di cui discorre l’Etica a Nicomaco, si dà, oltre alla "intuizione", "dimostrazione per confutazione", o via elenctica, che, come ben sanno i giuristi, è il metodo fondamentale di cui disponiamo nella dialettica del contraddittorio delle parti. Nell’irriducibile molteplicità dei generi dell’essere, innanzi all’asserita impossibilità di ricavare un principio con cui dar conto di tutte le cose, "il dimostrare mediante confutazione" segnala la via cheaccomuna analogicamente gli ambiti del sapere. Se anche vogliamo ricordare come Aristotele rimproveri più volte Socrate (e Platone) per non aver distinto le scienze pratiche e le teoretiche, il modello del phrònimos e la figura del filosofo politico, Pericle e Socrate, tuttavia, questo non significa rimuovere l’interna articolazione della filosofia pratica di Aristotele in teoresi, scienza e "pura" prassi. Là dove Waldstein ha ragione di sottolineare l’importanza della "intuizione" nell’esperienza giuridica – e "le fonti dimostrano in maniera incontestabile che i giuristi classici hanno usato il metodo dell’intuizione o dell’evidenza anche per riconoscere le norme di diritto naturale", op.cit., p. 85 -, occorre però aggiungere che i giuristi dispongono, in realtà, di una "maniera" in più per motivare le proprie ragioni; ossia, proprio il metodo che qui seguiamo per illustrare le nostre obiezioni. Inoltre, Waldstein non me ne voglia, questa peculiare angolazione ermeneutica non è, se non un ulteriore esempio di quella cifra interpretativa del pensiero di Aristotele, già in voga negli ambienti culturali di lingua tedesca, negli anni Sessanta, per cui, afferma ad esempio Enrico Berti in Aristotele nel Novecento (Laterza, Bari 1992, p. 210), "la filosofia pratica, che in Aristotele era soltanto una parte della filosofia, subordinata per giunta a quella teoretica, [in Gadamer] diventa la filosofia tutta intera e si riassume nell’insegnamento della centralità della phrònesis". Anche a non rendere Waldstein un seguace del dio Hermes, in effetti, permane il rischio di smarrire la specificità che contraddistingue il sapere del filosofo del diritto, in quanto, a ben vedere, quest’ultimo ha a che fare sia con la saggezza (intuitiva) dell’uomo pratico, che con le virtù (dianoetiche) della teoretica. Se è evidente che il phrònimos conoscerà il fine dell’azione per il buon carattere o la buona educazione, più che per gli anni trascorsi a studiare filosofia nei trattati, Waldstein mi concederà che il sapere del vero, non