B. Constant, Lo spirito di conquista e l’usurpazione nei loro rapporti con la civiltà europea,
tr. it., Liberilibri, Macerata, 2008, pp. 204
(Introduzione a cura di M. Barberis e G. Paoletti).
di Federica Foschini

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Il libro “Lo spirito di conquista e l’usurpazione nei loro rapporti con la civiltà europea” di Benjamin Constant non può essere presentato senza far riferimento al periodo storico in cui è stato scritto. Il libro, infatti, pubblicato prima ad Hannover, poi a Londra e infine a Parigi, segna il ritorno alla politica dell’Autore. Dopo l’espulsione dal Tribunato e il lungo decennio di esilio Constant, con questo libro, intende muovere un feroce attacco alla figura di Napoleone che, per altro, non viene mai nominato se non alla fine del libro, pur essendo ben riconoscibile nella figura dell’Usurpatore. Il libro segna anche il ritorno dell’Autore alle sue idee giovanili di liberismo. Molto denso di materiali ed argomentazioni, il pamphlet avrà una lunga fortuna negli anni successivi e Constant sarà considerato uno dei principali esponenti del pensiero liberale moderno.
Benjamin Constant de Rebeque nasce a Losanna, in Svizzera, nel 1767 da una famiglia ugonotta. Studia in molte Università, tra cui quella di Erlangen, in Baviera, quella di Edimburgo, in Scozia e l’Università di Oxford, in Inghilterra. Trascorre molti anni della sua vita in Francia, Svizzera, Germania e Gran Bretagna. Nel 1794 incontra Anne Louise Germane de Staël, figlia di un banchiere di Ginevra ministro di Luigi XVI, con la quale rimane legato per quattordici anni, sposandosi a sua insaputa nel 1808 con Charlotte de Hardinberg. Constant e madame Staël, oltre che legati da una tormentata relazione sentimentale, collaborano anche intellettualmente, diventando una delle coppie più celebrate dell’epoca. Benjamin Constant è sia politico, che romanziere e saggista. Come romanziere la sua fama è legata alla pubblicazione di Adolphe (1816), mentre, per quanto riguarda la sua attività di politico partecipa attivamente alla vita politica francese, con i suoi phamplets, durante la seconda metà della Rivoluzione Francese. Ottenuta la cittadinanza francese nel 1795 ed eletto al Tribunato, a causa della sua forte opposizione a Napoleone, è costretto ad esiliare. Fa ritorno a Parigi dopo la caduta dell’Impero, ma con l’avvento di Luigi XVIII, Constant è nuovamente costretto all’esilio. Nel 1817 può rientrare a Parigi e, successivamente, viene eletto al Parlamento.
Il libro “Lo spirito di conquista e l’usurpazione nei loro rapporti con la civiltà europea” si apre con l’avvertenza dell’Autore. E’ già in queste prime righe che si capisce l’obiettivo dell’Opera, dare una voce a quei francesi muti, oppressi dall’Usurpatore, infrangere la loro “presunta unanimità” che altro non è che la conseguenza del Terrore.
L’A. descrive la Francia come un’“immensa prigione, priva di qualsiasi contatto con la nobile Inghilterra” (p. 5), ed “essendo l’opinione generale composta dell’insieme delle opinioni particolari, ciascuno ha oggigiorno l’imperioso dovere di concorrere alla formazione di uno spirito pubblico capace di secondare i nobili sforzi dei sovrani e dei popoli vòlti alla liberazione del genere umano” (p. 3).
Ma sono soprattutto le righe finali dell’Avvertenza che meritano di essere mutuate in questa sede: “oso affermare, con convinzione profonda, che non esiste rigo in queste mie pagine che la quasi totalità dei francesi, ove fosse libera, non si affretterebbe a sottoscrivere” (p. 3).
L’Opera si compone di due sezioni, dedicate ai due temi centrali, la prima, intitolata “Lo spirito di conquista e l’usurpazione nei loro rapporti con la civiltà europea”, si compone di quindici capitoli, la seconda, intitolata “L’usurpazione”, si compone di venti capitoli. La brevità dei capitoli mette in luce il tono volutamente incalzante del pamphlet.
L’usurpazione e la conquista vengono definiti come “due flagelli” anacronistici, “vi sono cose possibili in una determinata epoca che non lo sono più in un’altra” (p. 7). Secondo l’Autore, infatti, conquista ed usurpazione sono fenomeni appartenenti ad un altro tempo storico, che niente hanno a che fare con il periodo attuale, che è invece l’epoca del commercio e tuttavia sono fenomeni che si ripetono storicamente, gli uomini “leggono la storia, vedono ciò che è stato fatto in passato, ma non valutano se si possa fare ancora (…), la loro ostinazione (…) assicura ai loro sforzi un successo effimero” (p. 7).
Nella prima parte del libro (capp. I, II e III) viene trattato il tema dell’anacronismo dello spirito di conquista. Nel I capitolo si legge come “non è vero che la guerra sia sempre un male” (p. 11), tuttavia l’Autore si chiede se essa possa confacersi anche alla situazione contemporanea, o se non sia invece un fenomeno di tempi più antichi. Nel II capitolo, l’Autore continua la sua analisi notando come il mondo contemporaneo sia diverso da quello antico e dagli anni medioevali, infatti “mentre un tempo ogni popolo costituiva una famiglia isolata, nemica fin dalla nascita delle altre famiglie, oggi esiste una massa di individui che hanno nomi diversi e diverse organizzazioni sociali, ma natura omogenea” (p. 13). Viene messo in luce come la tradizione bellicosa sia un retaggio del passato, e come si sia giunti ormai “all’epoca del commercio, epoca che deve necessariamente sostituire quella della guerra” (p. 14), e come il fine ultimo delle nazioni moderne sia invece la pace. Guerra e commercio sono definiti come “due mezzi diversi per conseguire il medesimo scopo, quello di possedere ciò che si desidera (…). L’una è impulso selvaggio, l’altra calcolo civile” (p. 14), ma la guerra costa infallibilmente più di quanto rende e “un governo che volesse oggi spingere alla guerra e alle conquiste un popolo europeo incorrerebbe dunque in un grossolano e funesto anacronismo” (p. 17).
I capp. IV-XII trattano degli effetti nefasti dello spirito di conquista, che corrompe prima gli stessi militari, poi i cittadini, la classe colta e i lumi, le stesse nazioni conquistatrici ed infine le nazioni conquistate. Per quanto riguarda la classe militare, in una guerra nell’epoca moderna, “il suo ardore non poggerebbe su alcuna convinzione, su alcun sentimento, su alcun ideale, e dato che le sarebbero estranei tutti i motivi di esaltazione che un tempo nobilitavano persino la carneficina, essa non avrebbe altro incentivo o movente del più meschino e spietato egoismo” (p. 20). L’Autore prosegue poi l’analisi notando come gli effetti negativi dello spirito di conquista si estendano dalla classe militare a tutto il popolo dei cittadini, dal momento che gli uomini di guerra non “deporranno, insieme all’armatura che li ricopre, lo spirito di cui li ha permeati sin dall’infanzia, l’abitudine alla carneficina e ai pericoli” (p. 26), ed, inoltre, “un esercito numeroso, fiero delle sue vittorie, abituato al saccheggio, non è uno strumento facile da manovrare” (p. 29).
L’Autore prosegue poi nei capp. VIII-XI esaminando gli effetti della guerra sull’intera nazione perché un governo mosso dallo spirito di conquista sarebbe costretto a intervenire presso la popolazione di cui vuole assicurarsi l’obbedienza “in modo da turbarne l’intelletto, falsarne il giudizio, sconvolgerne tutte le opinioni” (p. 31), parlando ad esempio di indipendenza nazionale, d’onore nazionale, “come se fosse un oltraggio all’onore di una nazione che le altre nazioni conservino il loro onore” (p. 32). Ciascuno “avvertirebbe l’imperioso bisogno di discolparsene” (p. 43), si verificherebbe una sorta di protesta universale, ancorché muta e in tutto l’impero non si udirebbe che solo il monologo del potere.
I capp. XII e XIII affrontano il problema delle nazioni conquistate ed introducono il tema del “culto dell’uniformità”, che discende dallo spirito di conquista. I conquistatori privano le nazioni invase delle loro usanze, delle loro leggi, delle loro tradizioni e usanze locali, e, questo, secondo l’Autore è ancora peggio delle barbarie compiute dai popoli antichi, perché “la vanità della civiltà tormenta più dell’orgoglio delle barbarie” (p. 47). Questo perché i “conquistatori di oggi”, volendo creare un impero tutto soggetto alle stesse leggi, agli stessi regolamenti, e, ove risulta possibile, anche alla stessa lingua, non si rendono conto che “la varietà è organizzazione; l’uniformità, automatismo. La varietà è la vita, l’uniformità, la morte” (p. 53), senza poi contare che questa smania di uniformità finisce per ritorcersi dai vinti ai vincitori, e tutti perdono “il loro carattere nazionale, i loro colori originali” (p. 56).
I capp. XIV e XV segnano le linee conclusive di questa prima parte e mettono in luce come lo spirito di conquista sia anacronistico e destinato ad avere un’esistenza effimera, senza contare le ripercussioni che avrebbe sul commercio, dal momento che le nazioni dell’Europa moderna sono unite da rapporti commerciali, “la cui interruzione si tradurrebbe in un disastro” (p. 61).

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