A. G. Düttmann, Zwischen den Kulturen.
Spannungen im Kampf um Anerkennung, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2002 ( II edizione ),
pagine 218.
di Ferdinando Menga
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I motivi per i quali alcune opere degne di attenzione e discussione non riescono ad ottenere la risonanza che meriterebbero risultano spesso misteriosi. Questo è senz’altro il caso del significativo lavoro di Alexander García Düttmann, la cui traduzione italiana del titolo recita: Tra le culture. Tensioni nella lotta per il riconoscimento. Questo giovane ed emergente autore, poco conosciuto al pubblico dei lettori italiani, e il cui pensiero si colloca nel duplice solco della fenomenologia francese e della teoria critica tedesca, rispettivamente nella linea derridiana e adorniana, conta numerosi scritti, apparsi per editori quali Suhrkamp, Verso e Galilée.
Oltre che per l’evidente attualità del tema trattato, cioè le «relazioni tra le culture», il libro in oggetto merita una particolare segnalazione soprattutto per l’interessante prospettiva assunta, che è quella di riprendere la categoria del «riconoscimento». È, infatti, in seno a questo paradigma di matrice hegeliana che García Düttmann apre, peraltro con straordinaria capacità esplicativa, un originale dialogo con i maggiori teorici odierni della problematica, quali ad esempio Habermas, Honneth, Taylor e Walzer.
In particolare, l’originalità della proposta consiste nel fatto che, contrariamente a una certa tradizione dei Postcolonial Studies, l’autore non ritiene affatto di doversi sbarazzare del paradigma del riconoscimento – cioè non ne teme il possibile scivolamento in una dinamica di assorbimento violento dell’altro –, ma lo assume sino a farne emergere tanto la costitutiva apertura, quanto la genuina aporeticità. Nello specifico, gravitando attorno alla sua tesi centrale, García Düttmann, nell’assumere e nel parlare di riconoscimento, prende le distanze dalle posizioni classiche, cercando di dimostrare che è proprio del riconoscimento non muovere da un’istanza identitaria pre-data, universale o metastorica, bensì da una costitutiva e fattuale storicità.
In termini ancora più circostanziati e rigorosi, l’autore attribuisce al paradigma del riconoscimento un senso «confermativo» e contemporaneamente «creativo», per rimarcare che «riconoscere» l’altro è tanto confermarlo quanto (simultaneamente e indissolubilmente) crearlo nella sua identità. Stabilendo la correlazione di questo doppio senso attribuito al riconoscimento, l’autore evita, da una parte, che la conferma acquisti mero carattere reduplicativo e, dall’altra, che la creazione sia fraintesa in termini di mera arbitrarietà.
Da un lato, infatti, il riconoscimento implica non che si faccia nuovamente conoscenza di quanto già era costituito e dunque, in qualche modo, già conosciuto e stabilizzato nella sua identità originaria (ri-conoscimento quale Wiedererkennung). Questa opzione di matrice dialettico-speculativa è da escludere, poiché, a ben guardare, partendo da una identità originaria già sempre costituita, non si capirebbe che cosa mai possa mettere in moto il processo di riconoscimento in tutta la sua urgenza e inevitabilità. Insomma, prendendo le mosse da una identità già costituita e solo da confermare, il processo di riconoscimento si ridurrebbe a un movimento meramente meccanico, ovvero ripetitivo e accessorio. Invece, se è lecito sostenere che il riconoscimento si mostra essere essenziale alla costituzione stessa di ciò che richiede il riconoscimento, ciò vuol dire che esso contiene inevitabilmente un momento creativo (o produttore) di identità. Insomma, detto a mo’ di assunto: è proprio il riconoscimento a creare il riconosciuto. In questo senso il riconoscimento non si limita alla dinamica iterativa di Wieder-Erkennung, ma deve essere inteso come originaria Anerkennung. Tuttavia, questo non è tutto, poiché, se il riconoscimento fosse mera creazione di ciò che richiede il riconoscimento, si cadrebbe in una arbitrarietà assoluta della costituzione di ciò che viene riconosciuto. Questa opzione è, però, anch’essa da scongiurare in quanto non rispettosa della realtà del processo di riconoscimento.
Ecco perché, se si vuole cogliere il fenomeno in tutta la sua estensione e pregnanza, al riconoscimento come creazione si deve affiancare l’altro versante di un riconoscimento come conferma di identità. Ma conferma di quale identità, se è stato appena detto che è unicamente il riconoscimento a produrre l’identità del riconosciuto? Ebbene, se ben osserviamo le cose, il momento della conferma non solo esiste, ma può essere concretamente rintracciato nell’istanza di richiesta di riconoscimento, ovvero in quell’istanza che, lungi dal poter essere creata essa stessa, è invece ciò che, proprio nella misura in cui si sottrae alla presa di chi riconosce, ne sollecita l’azione di riconoscimento. In tal senso, il riconoscimento, se, da una parte, è creazione d’identità, dall’altra, è creazione che parte sempre da una passività storico-fattuale costituita dall’appello stesso al riconoscimento; appello che, da parte sua, non può mai essere né anticipato, né tantomeno addomesticato.
Il quadro complessivo che si evince così dall’impostazione di García Düttmann è delineabile nel modo seguente: qualcuno (il riconosciuto) chiede di essere riconosciuto in quanto questo o quello; insomma, chiede di essere confermato in ciò che pretende di essere (momento confermativo). Eppure, se non fosse riconosciuto dal riconoscente, non apparirebbe affatto per ciò che pretende di essere. Pertanto, è solo il riconoscente che dà, per la prima volta, al riconosciuto – nella pretesa seconda volta della conferma – la possibilità di essere ciò che è (momento creativo). Questa seconda volta della conferma, che si rivela essere la prima volta di una creazione, riprende chiaramente i motivi del supplemento d’origine derridiano e fa sì che, nel riconoscimento, sia esclusa sia la conferma assoluta, in quanto mera ripetizione (ossia conferma di ciò che già c’era), sia la creazione ex nihilo, che indurrebbe, in quanto momento di alterazione assoluta, alla produzione di una nuova ma arbitraria identità. Ed è da questa doppia esclusione che si crea lo spazio in cui viene a collocarsi quello storico-fattuale «frammezzo» (Zwischen) – indicato nel titolo – irriducibile a qualsiasi pratica di conciliazione totalizzante o composizione universalizzante. Anzi, in questo spazio trova dimora proprio quella costitutiva dimensione dell’appello da cui prende il via ogni genuina esperienza dell’alterità, così come ci hanno insegnato in diversi modi autori come Lévinas, Derrida e Waldenfels.
Si comprende, pertanto, la ragione per cui, nella forma assunta da García Düttmann, il paradigma del riconoscimento, vivendo costantemente negli interstizi dell’intersoggettività storica e politicamente contingente, resti inconciliabile tanto col modello habermasiano quanto con quello ermeneutico. Con un gioco di parole, potremmo dire infatti che García Düttmann non ammette né un universale pragmatico né tanto meno un universale tradizionale in base a cui riconoscere la riuscita del riconoscimento. Ciò che l’autore invece ammette, nella pratica storica del riconoscimento, è soltanto la presenza di un contingente e prospettico punto di vista dell’universale, il quale, di volta in volta e mai una volta per tutte, rappresenta il risultato di una creazione scaturita dal confronto o conflitto fra i soggetti e le istanze in gioco sull’arena socio-politica.
La posizione dell’autore, così, ben si lascia ricollegare – ma di certo non ridurre – a motivi già presenti nel pensiero di Nietzsche, Foucault e Bourdieu, nei quali si afferma chiaramente il permanente carattere di lotta insita nel riconoscimento. Questa lotta o conflittualità – Spannung per l’appunto – evidentemente si dimostra essere assai più aspra e radicale rispetto a quanto riesca a contenere il dispositivo della dialettica hegeliana, in cui, invece, ogni aspetto dell’umano – compreso lo spazio politico –, permanendo nell’alveo dello spirito assoluto, è già sempre corredato di una poderosa e onnipervasiva garanzia di conciliazione, per quanto quest’ultima possa mostrarsi dinamica, aporetica e storicamente da realizzarsi.