A. Truyol y Serra (ed. revue, augmentée et mise à jour par R. Kolb),
Doctrines sur le fondement du droit des gens, Pedone, Paris, 2007, pp. 157, 20 euro.
di Luigi Crema
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Il VII e ultimo capitolo di Doctrines sur le fondement du droit des gens comincia affermando che la dottrina giuridica del secondo dopoguerra è stata avara di riflessioni sistematiche e organiche sul fondamento del diritto internazionale: i giuristi internazionali hanno cominciato a dedicarsi quasi esclusivamente all’analisi e alla razionalizzazione della prassi degli stati, lasciando ai filosofi del diritto questo nobile compito – i quali filosofi, tuttavia, non l’hanno affatto svolto. [1] Questo libro, denso e sintetico come raramente si presentano le opere a noi contemporanee, riporta in primo piano tale ricerca, e lo fa in una maniera insolita: per ammissione stessa dell’autore – Robert Kolb, giovane ordinario di diritto internazionale pubblico presso l’Università di Ginevra – non era necessario cominciare un’opera nuova, un’analisi inedita e un’esposizione originale. L’autore aveva tale aspirazione all’inizio del dottorato, ma presto essa si era rivelata ridondante: già qualcuno in passato aveva provveduto a dare uno spaccato storico e critico delle linee di pensiero portanti del diritto internazionale in una maniera così prossima alle proprie convinzioni da non rendere necessario alcunché di nuovo, se non la revisione e l’aggiornamento dell’opera stessa. [2] Da qui il cambio di progetti: il dottorato si spostò su un altro soggetto (la bonne foi, altro libro che meriterebbe d’essere recensito), e l’autore cominciò ad annotare, a glossare, le Doctrines contemporaines du droit des gens del 1951 di Antonio Truyol y Serra, allora professore all’Università di Madrid.
La revisione del libro è profonda: non si risolve nella sola aggiunta di una prefazione e di un ultimo capitolo, ma consta anche di nuovi paragrafi e note nei diversi capitoli. Kolb (la prefazione è sua) comincia il lavoro chiedendosi quali sono le questioni da affrontare per trattare il fondamento del diritto internazionale: primo, le fonti del diritto, sia come modo di produzione delle norme, sia come luogo in cui si manifesta il diritto internazionale; secondo, il perché, la giustificazione, la missione e la finalità del diritto internazionale; terzo, il fondamento teorico del diritto internazionale, perché si deve obbedire ad esso, se esso è valore, validità o effettività. Kolb individua tre approcci principali a tali questioni: andando in ordine inverso nel tempo – dalla più recente alla più antica – egli menziona il positivismo, la sociologia e il diritto naturale. [3] . Egli non esclude a priori nessuno di questi approcci, ma, abbracciando la prova della verità di Peirce – secondo cui il valore di una teoria si vede dai suoi frutti – decide di schierarsi per il diritto naturale il quale ebbe, ed ha, il merito di tentare una sintesi armoniosa tra un minimo nocciolo di diritto fondamentale obiettivo, ed una grande libertà soggettiva. [4] Kolb chiama questo diritto naturale moderato, il quale si confonde col diritto positivo moderato che altri autori, allergici alla sola idea di trattare in maniera esplicita il diritto naturale, sostengono.
L’opera è strutturata in sei capitoli nei quali vengono raggruppate e analizzate le correnti dottrinarie dominanti tra il 1870 e il secondo dopoguerra. Truyol Y Serra scelse quel periodo perché in quegli anni una precisa concezione filosofica politica spinse profondamente innanzi l’indagine sulla natura e sul fondamento del diritto internazionale. Il settimo capitolo, invece, è stato formulato interamente da Kolb, ed è stato dedicato soprattutto alle teorie eclettiche di due autori contemporanei e ad un affondo dell’autore medesimo, che conclude esponendo molto brevemente la propria.
Nel libro le diverse teorie sul fondamento del diritto internazionale non sono organizzate in ordine cronologico, e neppure secondo la nazionalità di chi le propose, bensì in correnti dottrinali. Il primo capitolo, è dedicato alle teorie che negano che il diritto internazionale sia un diritto. La prima di queste teorie riduce le relazioni internazionali ai soli rapporti di forza (p. 22 ss.), risale a Tucidide e ai sofisti, e attraverso Machiavelli, Spinoza e Hobbes giunge sino ai giorni nostri. Kolb e Truyol y Serra, gli autori – perché d’ora in poi è necessario usare il plurale – si soffermano soprattutto sull’idealismo di Lasson e Gumplowicz (pp. 25-27), sul realismo scandinavo di Lundstedt e Olivecrona (pp. 27-30) e sul neorealismo americano di Morgenthau (e poi di Kennan, e del francese Aron, pp. 30-31); la seconda di queste teorie nega l’esistenza del diritto internazionale riducendolo ad una mera morale internazionale, alla comitas gentium, come gli inglesi Austin e Binder (pp. 33-38).
Questo capitolo è decisamente interessante perché in poche pagine viene creato un confronto tra le critiche al diritto internazionale più diffuse da una parte – così diffuse da essere presenti ancora oggi nel dibattito dottrinale, si pensi a quanto siano ancora oggi influenti Austin e Morgenthau – e il punto di vista di due giusinternazionalisti dall’altra (pp. 39-49).
Nel secondo capitolo gli autori passano in rassegna le dottrine che considerano il diritto internazionale come un diritto, pur tuttavia imperfetto: tra esse, quelle dei filosofi Kant e Hume, del presidente americano Wilson, dei giuristi Zitelman e Burckhardt, e soprattutto dell’internazionalista Hersch Lauterpacht, un giurista ebreo, cresciuto tra Polonia e Austria durante la dissoluzione dell’impero asburgico, e divenuto tra le università di Londra e di Cambridge uno dei più influenti pensatori del diritto internazionale del secolo scorso (p. 56 ss.).
Il terzo capitolo è dedicato alle teorie secondo cui il diritto internazionale è fondato sulla volontà degli stati (p. 60 ss.). Tale concezione, debitrice dei Lineamenti di filosofia del diritto di Hegel, ha avuto un impatto fortissimo sul diritto internazionale della prima metà del secolo scorso: le decisioni della Corte permanente internazionale di giustizia (1920-1938) e degli arbitrati del medesimo periodo spesso evidenziano tale pensiero. Secondo tale concezione, gli stati, autonomi organismi indipendenti e sovrani, formano attraverso la propria volontà degli accordi, i quali, al momento del consenso, si distaccherebbero dalla volontà e si collocherebbero sopra gli stati dando vita al diritto internazionale. Nel libro vengono toccati tutti i maggiori esponenti di tale pensiero, ossia Jellinek – e la sua teoria dell’autolimitazione degli stati –, Triepel, Cavaglieri, e Anzilotti – che in quanto giudice alla Corte permanente all’Aja ebbe un influsso straordinario sul diritto internazionale dell’epoca. Tra i contemporanei, l’unico citato è il brasiliano Rezek (p. 70), che, ancora nel 1996, rinverdiva una teoria che aveva avuto il suo apice nel periodo tra le due guerre.
Il quarto capitolo è dedicato interamente all’opera di Hans Kelsen. Kelsen, benché oggi sia soprattutto studiato e trattato come filosofo del diritto, nacque e visse anche come giurista internazionale, e come tale ha mostrato molteplici sviluppi e ripensamenti delle proprie teorie. Purtroppo, Kolb e Truyol y Serra considerano in questo capitolo la sola norma fondamentale postulata dalla teoria pura di Kelsen, senza approfondire, ad esempio, il corso di diritto internazionale edito negli anni americani, e il profondo cambiamento di prospettive mostrato in esso rispetto al Problema della sovranità del 1920.
Il quinto capitolo è dedicato all’esposizione delle dottrine sociologiche: innanzitutto quelle francesi, di Leon Duguit – filosofo del diritto – e di Georges Scelle – giurista internazionale che assume e adatta la sociologia al diritto internazionale; poi quelle “dell’autorità del corpo sociale”, tra qui quella del toscano Rolando Quadri, che affermava Ubi societas, ibi auctoritas; ubi auctoritas, ibi ius. Nell’ultima parte del capitolo (p. 100 ss.) viene analizzata e spiegata la concezione del diritto internazionale propria della Scuola di New Haven. Tale scuola, cresciuta attorno a MacDougal a partire dal 1950, ha influenzato ed influenza ancora oggi un grande numero di giuristi (si pensi a Rosalyn Higgins, presidente emerito della Corte internazionale di giustizia delle Nazioni Unite) nonché l’amministrazione americana. In sintesi, secondo la Scuola di New Haven il diritto non è qualcosa di fisso e immobile, ma è un corpo informe plasmato dagli stati e dalla loro prassi, la quale si orienta nel tempo attraverso un gioco di claims and counterclaims secondo le esigenze, i fini e i valori della politica.
Il sesto capitolo è il più corposo, ed è interamente dedicato al diritto naturale, o meglio, ai diritti naturali. Gli autori cominciano a considerare le teorie che criticano il positivismo, maturate durante il XX secolo, nonché la concezione del diritto internazionale nella filosofia cattolica (pp. 103-109). Nella terza sezione affrontano il pensiero dei teorici dell’istituzione (Delos, Santi Romano e Kaufmann, cfr. pp. 109-120). Le ultime due sezioni del capitolo sono dedicate ad alcuni autori che hanno riproposto il diritto naturale come fondamento del diritto internazionale e che hanno avuto una forte influenza nella dottrina, tra cui il francese Le Fur e l’austriaco Verdross (pp. 120-126). Le ultime pagine di questo capitolo (pp. 131-136) sono dedicate a rispondere alle tre critiche che vengono solitamente rivolte al diritto naturale, ossia di essere antistorico, di essere antiscientifico e di essere antipluralista. Le risposte a tali critiche non prendono tutto lo spazio che meriterebbero – dato soprattutto l’aspetto molto controverso del problema. Leggere, ad esempio, che il diritto penale rappresenta quel minimo di interdizioni che una società ritiene vitali per la propria sopravvivenza (p. 133), potrebbe far sorridere un lettore italiano, il cui governo ha da sempre usato la norma penale per regolare anche il più sciocco dei problemi amministrativi. Tuttavia attraverso tali critiche gli autori riprendono il filo delle prime pagine dell’opera e si schierano per un diritto naturale moderato (pp. 134-136), ossia per un diritto in cui al nocciolo duro di poche norme obiettive da rispettare si affianca un diritto disponibile più ampio che massimamente rispecchia e tutela la libertà delle persone.
L’ultimo capitolo, il settimo, si apre con la constatazione che il diritto internazionale nel secondo dopoguerra si è interrogato raramente sul proprio fondamento, fatte salve le eccezioni di MacDougal, Quadri, Weil, Carrillo Salcedo e dello stesso Truyol y Serra. E proprio al francese Weil e allo spagnolo Carrillo-Salcedo sono dedicate le ultime pagine di questo libro. Le loro teorie vengono definite eclettiche perché rifiutano come parziali e zoppe le posizioni puramente positiviste o puramente giusnaturaliste, e riconoscono tanto al diritto positivo quanto al diritto naturale un posto necessario nella comprensione del diritto internazionale. Tuttavia, ed è la critica che Kolb muove a tali autori, se tali teorie sembrano rispondere con sufficiente chiarezza al problema di come il diritto internazionale venga in essere, esse sono pressoché silenti sugli altri aspetti che riguardano il fondamento del diritto, non pronunciandosi sui problemi dell’obbligatorietà e del fine del diritto internazionale (p. 141). È su tali questioni che Kolb prende posizione: dopo avere postulato l’esistenza di una giustizia (pp. 13-14), Kolb fonda su un “dovere” trascendente il fondamento ultimo dell’obbligatorietà delle regole.
Si può essere d’accordo o in disaccordo con la teoria sul fondamento del diritto internazionale proposta dagli autori (o forse sarebbe meglio dire da Kolb). Non si può, però, non rimanere affascinati da un tuffo in un mondo, quello del diritto internazionale, così ricco di problemi che la riflessione sul diritto statale pare aver perso. Leggere questo libro è un bagno nell’ampiezza delle più profonde categorie del diritto, ma senza perdersi, perché la prosa asciutta di Antonio Truyol y Serra e Robert Kolb si destreggia su tali categorie senza pedanteria, ma con franchezza e rapidità. È un’opera coincisa, che consente in poco tempo e pochi paragrafi autorevoli di attingere ad un ambito della riflessione giuridica che merita di essere conosciuto.
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[1] A. TRUYOL Y SERRA (ed. revue, augmentée et mise à jour par R. KOLB), Doctrines sur le fondement du droit des gens, Pedone, Paris, 2007, p. 137.
[2] Prefazione alla 2a edizione, ivi, p. 3.
[3] Ivi, pp. 3-13.
[4] Ivi, pp. 13-15.