PERIAGOGHÈ . INTORNO ALLE ORIGINI DELLA POLITICA
di Ulderico Pomarici
(Seconda Università di Napoli)

Dunque dal basso, dalla massa di coloro che non sono ‘educati’, sarebbe inaudita una decisione che sostituisse o un giudizio che controllasse i governanti[16] : questo è il senso del primato della filosofia sulla politica (e sulla natura). Ricorre qui in modo evidente il tema della relazione fra molteplice e Uno in vista del Bene .
2. Un luogo privilegiato per capire cos’è la politica è, probabilmente, la sua dimensione mitica, il racconto del mito. Che prima o insieme al legislatore e alla decisione ci sia un’ambiance, un ethos, un luogo ideale nel quale collocare la comunità. Senza l’idea mitica probabilmente la politica non esisterebbe, né esisterebbero la forza e la violenza che da essa anche promanano, assieme a quella capacità costruttiva che la politica ha sempre mostrato fin dai suoi inizi. La potenza ordinativa sta fin da principio insieme a quella ‘levatrice’ di violenza che la politica intimamente è. Ancora all’inizio del ‘900, Carl Schmitt, in un breve saggio sulla teoria politica del mito scrive, pur soffermandosi solo sull’Ottocento: “Dalle profondità di autentici istinti vitali, non da un ragionamento o da una valutazione razionale conforme allo scopo scaturiscono il grande entusiasmo, la grande decisione morale e il grande mito” . [17] E, aggiunge, citando le riflessioni sul socialismo di Donoso Cortes, un grande conservatore ottocentesco: “il socialismo radicale è qualcosa di ben più grande dell’intransigenza liberale, perché esso rinvia ai problemi ultimi, dando una risposta decisiva alle questioni radicali perché esso ha una teologia” . [18]
È invece una delle immagini del mito in età classica che voglio introdurre in questa conversazione. Quella del gigante Prometeo. Si può dire che con essa nasce l’idea stessa di politica. Prometeo, che in lingua greca significa il ‘previdente’, l’immagine della ragione ‘calcolante’, rappresenta appieno il pensiero della potenza progettante della politica, della techne politikè. Il dialogo platonico in cui si narra di questo mito è il Protagora. Protagora era un sofista, e Platone attribuisce a lui il racconto di questo mito. In questo mito per l’appunto Protagora racconta come nasce la politica. “C’era un tempo” – così inizia il racconto del mito – “in cui esistevano gli dèi ma non esistevano le stirpi mortali. Quando anche per queste giunse il tempo segnato dal destino per la loro generazione gli dèi le plasmarono” . [19] Si racconta nel mito che ai due fratelli Prometeo ed Epimeteo – il previdente e l’imprevidente – viene affidata dagli dèi l’attribuzione delle qualità a tutti gli esseri viventi. Epimeteo se ne assume da solo il compito. E nell’attribuirle lascia per ultimo l’uomo; ma, per la sua imprevidenza, non si rende conto che, giunto a rifornire l’uomo, non aveva più qualità da attribuire, le aveva dispensate tutte. Così che “l’uomo – racconta Protagora – resta nudo scalzo scoperto e inerme” . [20] Quest’idea, che poi ha trovato una grande tradizione nella filosofia politica occidentale, è l’idea della perfettibilità dell’uomo, l’idea che l’uomo nasce, a differenza di tutte le altre stirpi mortali, incompiuto, privo di quelle qualità naturali che tutti gli altri esseri viventi hanno per poter esistere dentro la natura. In conseguenza di questa incompiutezza l’uomo appare, nel racconto mitico, costretto alla politica dalla natura che lo ha generato, è la natura stessa che lo spinge fuori di essa, costringendolo a cercare altrove ciò che gli serve per vivere e vivere bene. Egli emerge con una struttura differente . [21]
Così, saranno due doni successivi, uno da parte di Prometeo, l’altro da parte di Zeus – due doni ben distinti l’uno dall’altro, di peso e valore differente – a salvare l’umanità dalla catastrofe. E infatti Prometeo, che entra in scena per sostituire l’improvvido fratello, deve rubare a Efesto e ad Atena le tecniche onde sopperire a ciò che naturalmente mancava all’uomo per poter sopravvivere. Così, ruba il sapere della tecnica insieme col fuoco e lo dona all’uomo. In virtù di questo furto “l’uomo divenne partecipe di sorte divina […] unico fra gli animali credette negli dèi, e intraprese a costruire altari e statue agli dèi” . [22] Per poter vivere bene, tuttavia, e non soltanto sostenersi, manca ancora l’elemento decisivo (per la cultura occidentale): la virtù politica. Indispensabile perché gli uomini possano convivere senza conflitti in comunità, ma inaccessibile, in quanto custodita dallo stesso Zeus, nell’Acropoli, dove non era possibile entrare perché a sorvegliarla c’erano due terribili guardie, Kratos (il potere) e Bia (la violenza). Così gli uomini, privi della sapienza politica, erano destinati a morire. Avevano bisogno di un altro dono, decisivo per il destino occidentale, che colmasse la difettività naturale. Non riuscivano ancora, infatti, a realizzare una relazione politica né dunque a stabilire Città. Perché queste – restando nello stato di natura, dove non esisteva Terzietà, ovvero autorità politica e dunque possibilità di dirimere giustamente le controversie – si distruggevano continuamente, per l’inimicizia che nasceva dal non possedere, ciascuna per sé, la sapienza politica. Allora Hermes, inviato da Zeus, dona agli uomini le due qualità fondamentali per fondare Città, aidós (il pudore) e dike (la giustizia). E, nel far questo, domanda a Zeus: “devo distribuire questi come sono state distribuite le tecniche? Le tecniche furono distribuite in questo modo: uno solo che possiede l’arte medica basta per molti che non la posseggono, e così è anche per gli altri che posseggono una tecnica”. La tecnica politica va invece distribuita a tutti nella stessa misura, ognuno deve poter vivere, infatti, con tutti gli altri senza differenza. Questa è l’uguaglianza originaria. Se non fosse così le Città non potrebbero restare, non potrebbero farsi stato. Anzi, dice Zeus ad Hermes: “Poni come legge in mio nome che chi non sa partecipare del pudore e della giustizia venga ucciso come un male della Città” . [23] Aidós e dike segnano i due ‘fuochi’ – singolare e comunitario in uno – intorno ai quali trova senso il fare politico. Doni divini, sì, ma che vanno allevati, educati in una pratica di vita in comune. Dunque, deve potersi dare un sapere della politica, una tecnica, affinché la Città possa continuamente ‘convertirsi’ al bene comune ferme restando le differenze. Poiché tanto nell’anima individuale quanto nella forma politica la molteplicità è intrascendibile. Il problema è il suo governo, la sua archè. Affinché nella sfera politica l’alternarsi di sistole e diastole alimentino il divenire della Città. Il mito è allora educazione al koinon. Esso rappresenta l’orizzonte all’interno del quale la molteplicità dei soggetti costituenti la sfera politica, sempre potenzialmente divergente, si trasforma: dalla zoè al bios, dalla pleonexia del desiderio al meson. È da questo divergere che la politica prende le mosse e trae il suo senso. Orexis in Aristotele, epithumia in Platone, il desiderio rappresenta la ‘naturale’ riserva, l’alimento affinché ogni individuo possa agire sulla scena della vita, sia pubblica che privata, ma esso è al contempo animato da una tensione pleonectica – tensione all’eccesso, al soverchiamento degli altri – che accende la stasis, la guerra civile e mette a rischio la coesistenza nella polis. Il desiderio tende per sua natura a farsi legge, a diventare il nomos della polis, a sostituire – in quanto archè – le leggi della Stato e, soprattutto, ad abbandonare ogni sophrosyne, quella essenziale virtù della moderazione che consente ad ognuno – una volta individuato il proprio daimon e la propria opera – di stare in questo luogo – e facendo ciò che è proprio (tò tà eautou prattein) agire con giustizia, assicurando una misura, un meson all’agire politico. Il desiderio continuamente mette a repentaglio il governo della polis poiché nega ogni ‘confine’ e ogni gerarchia, nega ogni legge che non sia la propria. Il desiderio lasciato a sé stesso è volontà indiscriminata di appropriazione. Nega dunque i luoghi nei quali gli individui coltivano il proprio daimon, il proprio destino individuale, la propria forma di vita, e spinge verso il tracimare in zoè, nuda vita senza forma. Il desiderio non ama la molteplicità se non per oltrepassarla, non ne ama quindi il governo, ama piuttosto quel ritorno all’indistinzione che ricorda il furore e la violenza dei miti dionisiaci. La molteplicità rappresenta bene il carattere problematico dell’origine della politica nei suoi due ‘estremi’, nelle sue due possibilità più proprie: l’indistinzione della zoè e la forma di vita, il bios. Nel divergere costitutivo delle parti della Città, nel rischio costante della stasis, si annida infatti la possibile morte della Città, la sua decadenza inarrestabile. Un ‘naturale’ divergere, dato dall’essere molteplice dell’umano. Se l’anima fosse naturalmente armonia – ovvero una – il molteplice non troverebbe ‘rappresentanza’ e dunque l’anima individuale – come il governo della polis – non corrisponderebbe a ciò che costituisce gli individui: il corpo, i desideri molteplici e le loro lotte, le istanze distruttive, e la politica verrebbe meno al proprio compito che è quello del governo, dell’archè di questo molteplice. Dunque la politica, sia nell’uomo interiore che nell’uomo esteriore, il polites, deve essere di qualità differente per poter contrastare la trasformazione del molteplice in calamità, in sovversione della convivenza fra i diversi, in guerra civile. La politica non assolverebbe al proprio compito, quello di ricondurre la Città a un’ordinata gerarchia di funzioni e di ruoli. Platone è consapevole che il modello della kallipolis, in quanto orizzonte del filosofo, è un fine raggiungibile solo asintoticamente. L’armonia non può essere quindi presupposta, prestabilita, ma solo il risultato di un lungo lavoro educativo collettivo – il progetto paidetico della kallipolis – che elabori e governi l’esistenza inestinguibile del male. Se l’anima individuale e la forma potestativa della Città fossero armonia non potrebbero spiegare, né dunque governare, il conflitto fra la virtù e il vizio , [24] non potrebbero dominare il corpo né governare i conflitti che si danno continuamente nella realtà. L’anima non costituirebbe quell’elemento di contrasto e di freno che è invece necessario per la tendenza del corpo individuale – con l’epithymetykon – e dei corpi sociali con la pleonexia, a eccedere i luoghi. L’anima individuale, in corrispondenza isomorfica con la polis, è essa stessa polis interiore di ogni individuo, è tripartita. Di qui, quindi, la necessità del governo, di sovraordinarsi alle istanze pleonectiche provenienti dal desiderio. Solo un continuo travaso in direzione biunivoca dalla dimensione individuale a quella collettiva di questo governo delle parti è in grado di far risultare l’armonia dell’anima individuale, il meson trovato deve continuamente corrispondere alla misura, trovata ‘in grande’, nell’omeòstasi statale. L’idea plebiscitaria (anche rousseauiana), in quanto pensa l’autonomia del Politico nutrendosi del mito di una comunità indivisa, di una politica risolta interamente nell’unità, non rappresenta quella divergenza, quella struttura relazionale-conflittuale che la politica in Occidente fin dalle origini è. Dunque pretende di sottrarre la politica alla sua origine.

3. Solo il mito – il racconto che diventa tradizione – nell’esperienza platonica sembra in grado di legittimare una gerarchia politica che possa apparire altrettanto naturale di quel ‘divergere’ che la politica è: per poterlo governare, fronteggiare ‘ad armi pari’. Ma Platone sa perfettamente che si tratta di una “nobile menzogna” : [25] nel racconto fenicio i cittadini nascono dalla terra già impastati con leghe differenti, nel bronzo, nell’argento e nell’oro, virtualmente pronti a seguire il proprio daimon in una gerarchia predeterminata. Ma in questo senso esso deve necessariamente essere falso: fa infatti spuntare dalla terra un’immagine della natura umana predeterminata e immodificabile, che, se vera, troncherebbe in radice la possibilità di ogni progetto di paideia, di periagoghè. Si ricordino le ultime parole della Parca: “Non sarà il demone a scegliere voi, ma voi il demone[..] Non ha padroni la virtù; quanto più ciascuno di voi l’onora tanto più ne avrà; quanto meno l’onora tanto meno ne avrà. La responsabilità, pertanto, è di chi sceglie. Il dio non ne ha colpa” . [26] Ciò che c’è di vero nel mito, invece – ed è questo il suo nocciolo duro – è che la molteplicità costituisce un dato ‘ontologico’ della politica. Falso, invece che essa nasca già ordinata, disposta alla polis . Nel mito, dunque, la natura non asseconda la forma politica. Tutt’altro: il libero corso del desiderio naturale segue l’incedere vertiginoso della hybris e della pleonexia che anima gli individui della Città. Nessuna alleanza aprioristica, dunque. L’uomo e l’animale sono terribilmente vicini: i phylakes rischiano continuamente di scambiare l’aspetto del cane, amico dei cittadini con quello del lupo che mostra la propria aggressività ai nemici esterni, così come il filosofo è in modo inquietante – a tratti indistinguibile – nella sua potenza indisponibile – dalla ferocia selvaggia del tiranno . [27] E la polis minaccia continuamente di trasformarsi in selva. Ma, proprio per questo, la natura non deve esser altro dalla politica. Questo è un punto di partenza importante: “L’Intelligenza che ordina e che causa tutte le cose” e in quanto tale ordina e dispone ciascuna di esse “in quella maniera che per esse è la migliore possibile”, dunque, “la scienza del meglio e del peggio è la medesima”, e attraversa la natura e la politica per determinare “ciò che è il meglio per ciascuna di esse e ciò che è il meglio che è comune a tutte” . [28] La natura non può, né deve essere separata dalla polis: noi siamo natura, a iniziare dal desiderio. Essa va educata, non rimossa, dunque, dal Politico. Ciò sarebbe disastroso. La natura – la natura dell’uomo – va continuamente ‘giuntata’ alla politica, così che la funzione di quest’ultima diventa quella di trattenerla,
frenarla . [29] Il punto di partenza, come ci mostra Socrate nel prologo del Fedro, appare illuministicamente distante, e l’immagine della natura quasi ‘bucolica’ . [30] A Platone talvolta piace sviare, per poter ricondurre il discorso a una forma ‘secondo giustizia’. La sua idea di natura non è affatto irenica, tutt’altro. Basti pensare soltanto a Repubblica 588c, alla descrizione del mostro policefalo che interseca – nell’isomorfismo fra anima individuale e Città – la natura e la politica. Qui scompare ogni apparente antitesi fra la natura come continuità indivisa e l’umano quale molteplicità divergente da frenare. La natura è ovunque, per questo va ordinata e ricondotta nei termini ‘giusti’. La politica deve ordinare la natura e alla legge del desiderio sostituire la legge della Città. Questo è il paradosso, la vera utopia della concezione platonica contro la quale si ergerà più tardi Aristotele. Esistono infatti differenze sostanziali tra la speculazione platonica e quella aristotelica (che pone in relazione in modo ben diverso la physis all’idea di politica, pensando proprio la continuità fra queste due dimensioni fondamentali della vita) [31]cui qui non è possibile se non fare cenno. Se nella relazione natura-politica volessimo trovare uno spartiacque – certamente semplificatorio e approssimativo – tra la concezione aristotelica e quella platonica, potremmo dire che mentre nello Stagirita la natura è archè, da cui consegue la politica che nella sua multiformità si orienta e armonizza secondo virtù alla matrice che l’accoglie, nella concezionme platonica la politica – se è guidata dalla filosofia – costituisce una forma, un governo della dimensione naturale umana, che impone gerarchie virtuose alla realtà originariamente disordinata.

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