PERIAGOGHÈ . INTORNO ALLE ORIGINI DELLA POLITICA
di Ulderico Pomarici
(Seconda Università di Napoli)

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Abstract
In the following article I intend to analyze the origin of the concept of "politics". In order to do so, I will evaluate some fundamental platonic passages, starting from the so much debated analogy between individual soul and State. This analogy has been developed through several means of representation: the Agora, the Theatre, the Myth. In the context of my essay I choose to pay special attention to two myths: the myth told in the Protagoras dialogue and, starting from a consideration of the relationship between nature and politics (so important to understand Plato’s concept of politics), the myth of the cave.

1. Al fine di delimitare, per quanto è possibile, il tema – vastissimo –, mi propongo di procedere ad alcune esclusioni preliminari. Innanzitutto voglio precisare – deludendovi probabilmente – che non intendo parlare di ciò che è la politica oggi, né, tanto meno, intendo parlare di quello che la politica dovrebbe essere, il suo idealtipo, ovvero i suoi elementi ‘oggettivi’ . Una volta messe da parte queste due tracce, possiamo cercare di avvicinarci al tema che, per me, va svolto necessariamente in una dimensione di storia delle idee . Cercare di capire come, in quali condizioni storico-culturali, si è data la possibilità dell’agire politico, quale (auto)consapevolezza l’accompagnava: in questo senso è forse possibile tentare qualche risposta all’interrogazione così impegnativa.
Un grande sociologo tedesco dell’inizio del Novecento, Max Weber, nell’ultima sua conferenza dal titolo La politica come professione, definiva quest’ultima “un’attività direttiva autonoma” . [1] E pochi anni più tardi, un giurista e filosofo del diritto tedesco, Carl Schmitt in un saggio fondamentale, Il concetto di politico , [2] delineava l’idea di una autonomia della politica, ovvero il fatto che la politica fonda un ordine concettuale peculiare rispetto a tutti gli altri (morale, estetico ecc.) attraverso la distinzione amico-nemico. Per il giurista tedesco infatti la politica si distingueva in quanto sapere pratico che muoveva dalla indispensabile consapevolezza della distinzione amico-nemico. Entrambi questi pensatori, nel definire l’attività politica in via generale, si servono del concetto di autonomia ed è attraverso di questo che potremmo trovare una ‘pietra d’inciampo’ al fine di introdurre il nostro argomento. L’idea dell’autonomia – parte costitutiva del concetto giuridico-politico di sovranità, e che a noi sembra così moderna (la formulazione roussouiana della volontà generale ne costituisce il capitolo in certo senso risolutivo) – si radica infatti in un tempo completamente diverso, quello della Grecia antica che, a partire dal V secolo a. C. e fino alla crisi delle Città-Stato, da Platone ad Aristotele, formulava l’idea di politica come autarcheia. Weber e Schmitt conoscevano bene, ovviamente, le origini di questa idea: la politica nasce come volontà di separare l’oikos dalla polis. Lontano e al di fuori dalla ripetitività naturale dell’oikos e della crematistica, l’attività economica ristretta nei rapporti privati. Lo spazio pubblico è lo spazio del possibile, dell’evento, quello che Platone introduce, quando ne parla, sempre con l’avverbio ??a?f?e?, improvvisamente .[3] La prassi politica, l’azione, nasce dunque come movimento ‘tellurico’ (si pensi al mito di Cadmo, il fondatore di Tebe ), [4] come separazione dall’oikos, dall’armonia indivisa della casa. Da quella dimensione nella quale esistevano dei rapporti naturalmente gerarchici, e dei compiti naturalmente determinati nella riproduzione della vita in tutti i suoi aspetti, da cui la politica intendeva distinguersi, in qualche modo contrapponendovisi. La politica voleva essere un ripensamento della vita, una nuova forma di essa . Dunque la Città come il luogo, in cui la politica si dà eventualmente. In questa conversazione vorrei soffermarmi, brevemente e senza alcuna pretesa di esaustività, su alcuni momenti platonici del ‘luogo’ politica, che hanno creato e, in un certo senso, alimentato questa autonomia, proprio nel senso letterale della parola, di una legge peculiare, di un potere costituente che, in quanto tale, si presenta inventando, anche con l’aiuto del mito, un altro luogo e un altro tempo, un’altra dimensione della vita umana, nella quale gli individui possano costruire quella forma relazionale, fino a quel momento non concettualizzata, che chiamiamo politica. Ma l’estensionalità del concetto è molto differente dalla modernità. Basti pensare, ad esempio, al fatto che lo spazio teatrale – lo sgomento e il terrore della tragedia sofoclea, come il riso liberatorio e distruttivo delle commedie di Aristofane – e quello dell’agorà potrebbero entrambi assumere la funzione di luoghi politici, in un senso ‘anticlassico’ : [5]
in entrambi si gioca infatti il discorso del mito, perché in entrambi quella molteplicità che costituisce la polis concorre a rappresentare e a dare forma all’agire politico come una molteplicità problematica, quel conflitto fra le ‘parti’ della Città che nel suo stesso porsi ne mette a repentaglio la sussistenza. E qui ritorna l’isomorfismo postulato da Platone tra l’anima individuale e il governo della cosa pubblica. Senza transitività fra l’una e l’altra dimensione non si dà politica. L’isomorfismo è infatti reso necessario dal supremo pericolo che la Città correva. Il carattere costitutivo della molteplicità delle parti, intrascendibile, continuamente rischiava di precipitare in stasis. In questo senso Platone (come Aristofane) erano ‘antipolitici’ per eccellenza : [6] sapevano perfettamente che il conflitto non va mascherato in toni ‘encomiastici’, non va velato dietro le ipocrisie di un’immagine irenica del potere. Doveva invece venire denudato per dargli una forma. Il teatro è la messa in scena di ciò che accade nell’agorà, ma l’agorà stessa, come ce la raccontano i dialoghi platonici, è una continua rappresentazione della vita. Modi differenti, ma congiuranti, di essere ‘pubblico’, sfera nella quale gli individui si incontrano, resi formalmente uguali. E c’è una transitività fra le due dimensioni, un isomorfismo, non dissimile da quello che costituisce l’anima e la Città. Non è forse un caso che Platone voglia ‘istituzionalizzare’ la materia teatrale bandendo i ‘poeti’ dalla Città. Troppo importante – e imponente –, per il progetto paidetico della kallipolis, la massa dei desideri messi in movimento dai racconti teatrali per non essere rischiosa, e non dover dunque venire imbrigliata. Il discorso è l’azione dell’essere-insieme, ha dunque una potenza performativa “se viene scritto, mediante la scienza, nell’anima di chi impara” . [7] Al contrario dei sofisti che “null’altro insegnano se non precisamente le opinioni della folla stessa, che vengono espresse quando si riunisce in massa, ed è questo che essi chiamano sapere” . [8] Al plethos, paragonato a un bestione, il ‘cattivo maestro’ dà ciò che lui preferisce, con-fermandolo nel suo supposto sapere:”a quello che piace all’animale dà il nome di buono, a quello che gli dispiace di cattivo[…]. E fa tutto ciò pur non avendo mai compreso né tanto meno dimostrato la grande differenza che passa fra il necessario e il Bene” . [9] Compito del filosofo è invece spostare l’interrogato, mediante il dubbio e la critica, dalla posizione originaria. Disporlo alla conoscenza estraniandolo dalla sua pretesa di possederla. Estraniare e contaminare l’idion tramite il koinon. Solo così nasce la possibilità di intraprendere una ‘seconda navigazione’ e può crearsi un autentico essere-con, un’uguaglianza. Che non potrà darsi in ciò che è, ma solo in ciò che deve essere. Nel farsi della comunità, sul piano ideale che costituisce l’agorà e il teatro riproduce nelle sue forme, si manifesta un accadere che suscita meraviglia: una condizione di sospensione che può dar luogo a molte, differenti, trasformazioni e contiene molteplici rischi. Questo il senso della politica come evento, invenzione di una forma nella quale la molteplicità costituente possa trovare giusta rappresentazione. La creazione di una dimensione terza. Tra che cosa? Tra il bios theoretikos, la vita contemplativa, e quella sfera naturale dell’oikos, della casa, dell’economia, che la politica pretendeva di abbandonare perché in quella vigeva una diseguaglianza naturale in quanto tale trascurabile per la filosofia. Per creare l’uguaglianza bisognava creare un luogo fittizio. Un altro luogo e un altro tempo che nulla avevano di naturale e proprio per questo dovevano essere protetti in forme, garantiti, perché estremamente fragili: questo è anche il senso della forza evocativa e formativa del luogo teatrale. Fragile e ambigua in quanto continuamente rinviante a (e agitata da) una molteplicità reale.
Dunque, grazie alla reinvenzione del mito operata dalla paideia platonica, il thaumazein, la meraviglia per ciò che è, passa attraverso la rappresentazione teatrale e la rappresentazione mitica dell’azione nello scenario della polis. Teatro e agorà diventano due luoghi concentrici. Il Simposio platonico, dialogo politico par excellance, si conclude proprio con le tre figure del tragediografo del commediografo e del filosofo. I primi due soccombono al discorso del terzo. Probabilmente contro la difesa della ‘proprietà’ stilistica dei generi, della loro pretesa opposizione, Socrate li costringe a riconoscere il loro intreccio inestricabile. Egli vuole unire ciò che soltanto sembra diviso. Infatti, afferma che “è proprio dello stesso uomo il saper comporre commedie e tragedie, e che chi è poeta tragico per arte è anche poeta comico” .[10] Nella filo-sofia, il che vuol dire per Platone nel governo della Città, il vero uomo politico deve saper suonare su più corde come se fossero una. La natura del vero uomo politico è fatta di due virtù opposte. Come la tela, perché duri, è composta sia del filo sottile e flessibile della trama che scorre verticalmente e di quello robusto e rigido dell’ordito che sostiene orizzontalmente il tessuto, così, l’uomo politico deve possedere due virtù differenti: kosmiothes e andreia, mitezza e coraggio . [11] Come il phylakes, il ‘custode’ della Città ideale, che deve contemporaneamente possedere la mitezza del cane e la ferocia del lupo perché i confini da sorvegliare nella kallipolis guardano verso l’interno e verso l’esterno. Grande e costante è dunque il pericolo che una delle due virtù si snaturi in eccesso e neutralizzi l’altra alterando un equilibrio essenziale. Esse vanno coltivate e distribuite nel modo migliore e solo un sapere, una tecnica che le ricomprenda, è in grado di fare ciò: la techne politikè culminante nella sapienza filosofica. La metafora nautica e quella medica servono a Platone – in diversi dialoghi – per avvicinare i problemi di fronte a cui è posta la politica conforme a virtù. Quelle due tecniche (esattamente come la politica) rappresentano specialismi che nessuna decisione assembleare potrebbe sostituire . [12] Né vale esercitare il potere secondo le norme scritte quando chi governa è scelto a caso con estrazione a sorte . [13] Né la norma scritta, proprio in quanto tale, né la legge potranno mai sostituire l’episteme del vero politico trasfusa nella tecnica, che, invece, sa adattarsi ad ogni situazione, sa decidere ogni volta di nuovo nel momento opportuno e dunque può andare oltre la consuetudine di ciò che è solo scritto: “Come il capitano della nave che, badando sempre al bene della nave e dei naviganti, non ponendo norme scritte, ma fornendo come legge la propria tecnica, salva tutti quelli che navigano con lui, così allo stesso modo, coloro che hanno il potere di governare realizzeranno una retta costituzione, offrendo la forza della propria tecnica superiore a quella delle leggi” . [14] Alternativa ai rischi insiti in uno slittamento autocratico del comando di ‘esperti’ nell’arte politica non è certo la doxa del plethos, ma l’episteme di singoli o piccoli gruppi educati alla filosofia: “nessuna moltitudine è capace di acquisire una tecnica quasiasi” . [15]

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