NOTE DI STUDIO SUL RUOLO DELLA PRUDENZA NELLA RAZIONALITA’ GIURIDICA CONTEMPORANEA
di Andrea Favaro
3. La prudenza dell’imperativo nella realtà dell’indicativo
Tentando il balbettio di una conclusione interlocutoria, per alzare il velo sulle aporie della geometria legale, senza chiudere gli occhi, sono necessari un abito radicalmente problematico, quale solo un autentico amore per il sapere (vera nisi fallor non simulata philosophia) è in grado di propiziare, ed una fedele applicazione della «buona regola secondo la quale di fronte a cose aventi tra loro alcunché di comune, non si smette di esaminarle prima d’aver distinto, nell’ambito di quella comunità, tutte le differenze che costituiscono le specie, e d’altra parte, di fronte alle differenze d’ogni sorta che si possono percepire in una moltitudine, non bisogna scoraggiarsi e distogliersene prima d’aver compreso, in una sola somiglianza, tutti i tratti di parentela che esse nascondono e di averli raccolti nell’essenza di un genere» (Polit., 285 a-b).
Scoperta la definizione platonica di dialettica si palesa già annunciata la dimensione prudenziale dell’essenza del giuridico.
Se i maestri di spirito hanno sempre consigliato la perfezione dell’ordinario fluire delle azioni umane attraverso l’adagio “Age quod agis”, anche in questa sede pare utile mutuarlo quale consiglio per l’esercizio della prudenza nell’universo giuridico. Se la Prudenza può essere definita come «la regola concreta, la “recta ratio”, la giusta misura dell’agire virtuoso»20 e il diritto è un umano agire, la prudenza stessa è la reale “razionalità del diritto”. Razionalità che deve essere incontrata con sollecitudine proprio nell’esperienza concreta, come insegna San Tommaso (II-II, q. 47, a. 9). Difatti è proprio l’essenza del giuridico che è scoperta nel fluire quotidiano delle relazioni intersoggettive. In questa immersione nel concreto, a cui ogni giurista è chiamato al fine di corrispondere adeguatamente al suo dovere sia etico che professionale, pare particolarmente conveniente evidenziare quale importanza di primo grado possieda la “prudenza” nella comunità politica e nel diritto.
Seguendo questo iter, calandosi quindi filosoficamente nel profondo dell’essere umano, all’operatore giuridico di ogni tempo è dato lo strumento per difendersi dalla tentazione di ridursi ad “enzima” del potere e di accedere a quella che la tradizione giuridica, civile e canonica, ha definito come Prudentia iuris. Se avessimo l’autorevolezza per formulare brocardi, potremmo osare un “Veritate non auctoritate dicitur ius”. «L’ufficio del diritto o del giurista – infatti, come nota suggestivamente Michel Villey risalendo alle origini romane del diritto attraverso l’esperienza filosofica delle quaestiones tomistiche21 – dev’essere concepito essenzialmente come un lavoro di conoscenza: conoscenza del giusto nelle cose. La giusta proporzione dei benefici e dei carichi in un gruppo sociale (mediante cui si determina la parte che spetta a ciascun litigante) è cosa che è, che il giurista per la sua funzione specifica dovrà accertare e dire all’indicativo»22.
Ci si trova così di fronte al nodo problematico radicale dell’esperienza giuridica, posto dal rapporto tra intelligenza e volontà, tra concetto e precetto, tra verità e virtualità, tra indicativo e imperativo, tutti necessari e tra di loro connessi in termini di reciprocità, poiché non si può attribuire a ciascuno il suo senza sapere quale sia il proprio di ciascuno, ma, nel medesimo tempo, non basta avere nozione di ciò che è suo di ciascuno per attribuirglielo.
Dopo aver evidenziato come razionalità e prudenza di per sé non si mostrino antitetiche, ma piuttosto complementari nell’orizzonte del nesso tra autorità e giustizia, pare adeguato il monito per il quale nell’ordinamento delle relazioni tra i membri di una comunità «l’imperativo non può crescere se non nel terreno nutrito dall’indicativo»23. Di conseguenza, in termini giuridici per ristabilire la relazione tra i litiganti la prudenza di un (giusto) imperativo non può che uscire dalla realtà di un indicativo. Ma con quale strumento? Non per deduzione logica né per induzione ipotetica e ideologica. Il genio dei giuristi romani aveva già rivelato all’umanità la via dialettica24 della Iuris prudentia, quale autentica fonte da cui il diritto fluere coepit.
La quaestio sarà quella di riuscire a comprovare come anche nell’ordinamento giuridico la prudentia debba costituire la misura del volere (anche legislativo)25, ma soprattutto dell’agire (non solo giurisprudenziale) allo
stesso modo in cui la misura della prudenza è la ipsa res, la cosa stessa e che il conformarsi del volere o dell’agire alla verità significa il conformarsi del volere o dell’agire all’essere, o natura, delle cose26.
Per poter precipitare tale questione all’interno della concreta esperienza giuridica, così come essa pulsa nei tribunali, sarà necessario volgere lo sguardo alla realtà. Difatti, la prudenza si presenta con due volti, dei quali uno guarda alla realtà oggettiva, mentre l’altro all’attuazione del bene. La problematica si palesa oltremodo urgente, proprio per la crisi che colpisce ormai da qualche tempo sia l’universo giuridico che la convivenza sociale.
Si tratterà di verificare quanto rimanga della consapevolezza nel diritto, rectius nei giuristi, di questo legame tra “prudenza” e “bene” e del vincolo che coniuga “bene” e “natura”. Come ci hanno da tempo ricordato i Glossatori del XII-XIII secolo d. C. «iustitia virtus est, iuris prudentia scientia» e quindi per poter procedere verso il “giusto” è necessario appropriarsi di mezzi di conoscenza, che non siano destinati alla vana correttezza formale della “geometria legale”, ma proseguano oltre perché attratti dalla conoscenza della giustizia.
Tramite questa sua struttura problematicamente impostata e solo per cenni esposta, le riflessioni svolte in questa sede vorrebbero far emergere così la consapevolezza che il richiamo odierno ad una maggiore scientificità del diritto, si innesta in modo più o meno evidente su un paradigma filosofico che vede nel diritto qualcosa di assolutamente contingente, storico, fondato unicamente sull’accordo dei cives o sulla volontà del legislatore, e dunque espressione diretta, ma soprattutto esclusiva, della sovranità dello stato. Con la conseguenza che la concezione per la quale il diritto in sé possa veicolare determinati valori – a prescindere, volendo, dalla loro fondazione: teologica, antropologica, etica etc… – viene percepita come un’indebita usurpazione della sovranità, come un’intromissione non dovuta nella sfera ordinamentale di altre istanze “sovrane”. Riflettere ancora una volta sul fondamento del diritto, in sunto, può costituire la premessa migliore per aprire un discorso sulla scientificità tout court e sui confini che tale concetto assume in una prospettiva giuridica e filosofica, onde carpire se e in che modo un ordinamento riesca a tenere fondanti e vincolanti per esso taluni criteri oggettivi, al di là, rectius a prescindere, della contingente volontà del legislatore o degli esiti delle procedure democratiche.
Dopo aver offerto pochi cenni circa i limiti, non sempre autoevidenti, che comporta il radicamento del giuridico in qualcosa di “altro” rispetto alla “natura delle cose”, la disamina ha come obiettivo la verifica della necessaria centralità della “ragione” nell’ordinamento delle relazioni intersoggettive, per
cui, laddove si stabilisca alcunché contra rationem, neppure la norma giuridica potrà pretendere di essere debitamente “obbedita”.
Si è già osservato come i giuristi “veram philosophiam affectantens” debbano necessariamente porsi il problema della nascita del diritto, e in questa dinamica sempre più dovranno dedicarsi con particolare attenzione ai profili irrazionali, rectius non programmati, dell’azione umana, e alla partecipazione di questa al processo di conoscenza dell’esperienza giuridica. Il formalismo giuridico non tiene conto che la norma è qualcosa che “accade” nella società, ossia è «un insieme di eventi psicologici a cui corrispondono comportamenti osservabili, e non semplicemente una proposizione o un insieme di proposizioni linguistiche»27. Più di qualche interesse, allora, può rivestire una riflessione sulla figura del “giudice” e soprattutto sul ruolo che la giurisprudenza gioca nella prospettiva ordinamentale di matrice giusnaturalistica.