NOTE DI STUDIO SUL RUOLO DELLA PRUDENZA NELLA RAZIONALITA’ GIURIDICA CONTEMPORANEA
di Andrea Favaro

Tale orizzonte, secondo il quale, come detto, il diritto non sarebbe in alcun modo una dimensione autentica, rectius naturale, dell’esperienza umana, è frutto di una precisa antropologia, la quale non a caso emerge in modo affatto evidente nel dibattito odierno sul sapere scientifico; è un’antropologia, insomma, che delinea una dimensione contemporaneamente inautentica e categoriale dell’esperienza giuridica e che costituisce il presupposto sufficiente e necessario perché il diritto possa intendersi solo come norma positiva e la scienza del diritto, per tutto quanto suesposto, manifestarsi perennemente in crisi.
Per superare questa prospettiva che giustificherebbe una situazione talmente urgente e apparentemente senza vie di uscita da essere da taluni ridotta a “nichilismo”10, è dunque preferibile partire dalla consapevolezza (umanamente necessaria) che quanto appare snodo irrazionale del tutto, risvolto ingiusto e talvolta finanche malvagio, costituisce la semplice ma sempiterna denuncia dell’incapacità (o ignoranza) nel decifrare un disegno complessivo che sfugge alla ragione limitata dell’essere umano. Proprio perché, per dirla con Platone, «colui che cura il tutto ha tutto disposto della salvezza e le virtù dell’insieme di tutte le cose, egli ha altresì suddiviso l’insieme in parti affidate alle “divinità reggitrici che presiedono fino alla più piccola azione o passione, sempre, e ne realizzano fino all’estrema suddivisione la completezza del fine”». 11

Procedendo nella disamina è dato ritenere che tale orizzonte possa mostrarsi adeguato per (ri)scoprire la razionalità della legge sotto l’egida della dimensione prudenziale dell’universo giuridico. Quanto affermiamo, peraltro, non pare che un modesto recupero e una rinnovata attualizzazione innanzi tutto del magistero platonico e in un secondo tempo di quello tomista. Anche solo se si riuscisse in questo, questa semplici Note di studio avrebbe raggiunto un risultato, si ritiene, almeno di rispetto.

A mero titolo esemplificativo ma non per questo banale, nel dialogo dedicato alle questioni inerenti alla scienza del diritto e della politica, infatti, il
filosofo greco applica alla teoria della legislazione la sua dottrina dell’etica e della politica come sapienza e scienza regia. La principale deduzione che se ne può trarre, se non erriamo, è un ruolo subordinato delle leggi positive, per loro natura generiche ed approssimative, rispetto alle direttive che possono scaturire dall’applicazione della rigorosa scienza pratica alla singola circostanza da parte di un saggio reggitore. Per essere coerenti, afferma Platone, anche se «in un certo modo è chiaro che la legislazione è parte dell’arte regia, […] la cosa migliore è che abbiano forza non le leggi, ma l’uomo regale dotato di saggezza […], la legge non potrebbe mai ordinare con esattezza la cosa migliore, comprendendo in sé ciò che è buono e più giusto per tutti»12.

2. Sulla natura della prudentia, tra “tecnica” e “consiglio”

Se negli ultimi paragrafi del paragrafo che precede abbiamo sintetizzato il riferimento al magistero platonico per evidenziare limiti e censure della prospettiva geometrico-legale, sono questi stessi insegnamenti che permettono di aprire il discorso circa la natura della prudentia juris. Provocatoriamente, la riflessione comincerà dalla nota denuncia professata da Kelsen. «Di fronte a l’eterno problema di ciò che sta dietro al diritto positivo […] chi cerca ancora una risposta troverà non la verità assoluta di una metafisica né la giustizia assoluta di un diritto naturale. Chi alza quel velo senza chiudere gli occhi si vede fissare dallo sguardo sbarrato della testa di Gorgona del potere»13.

Per azzardare una replica alla affermazione kelseniana è necessario volgere lo sguardo al pulsare, quotidiano e per questo reale, dell’universo giuridico. Il desiderio di “diritto”, ma potremmo dire pure di “giustizia”, che l’uomo della strada possiede è anche oggi fortemente condizionato dall’ideologia che esso costituisca un fenomeno essenzialmente umano e razionale14. Nel mentre tocca sempre all’uomo della strada sperimentare in presa diretta che l’esperienza giuridica (che talvolta non vive, ma subisce) tutto è fuorché votata ad una razionalità coerente (decisioni “controverse”, disposti normativi “l’un contro l’altro armati”, ingiustizie senza spiegazioni, ammesso e non concesso che l’ingiustizia in sé possa essere razionalmente spiegata, etc.).

Sotto tale, non solo apparente, antitesi la ratio juris si palesa allora come lubrificante dell’ordinamento giuridico, in virtù del quale il diritto si presenta come enigma quotidiano apparentemente risolvibile con il solo utilizzo della tecnica15. Difatti, se il dibattito tuttora in corso tra filosofi e scienziati del diritto verte sul ruolo che il giurista stesso, più che il diritto, in una sorta di accentuazione della fenomenologia soggettivistica, debba/possa rivestire nella
società odierna16, simile questione ha un eterno ritorno sempre e comunque anche all’interno stesso del mondo del diritto. D’altronde non pare facile uscire da questo circolo se è vero che, come Grossi descrive con la prosa efficacemente colorita che lo contraddistingue, «il sapere giuridico è avvertito come sapere dalla grande capacità ordinante a condizione che riesca a depurarsi di scorie contingenti e particolari e a sovrastare la incandescenza e mobilità della realtà fattuale con i proprii schemi categoriali astratti»17.

“Sapere ordinante” e “scorie contingenti” si ergono quindi come i due fuochi dell’ellissi di un confronto inevitabile, anzi necessitato dall’esperienza stessa dove la “tecnica”, più ancora che lo scientismo, pervade le strutture concettuali stesse del diritto e sembra dotarle delle stesse caratteristiche che sono (ormai) proprie del tecnicismo di matrice scientifico-galileiana. D’altronde, premessa fondamentale ad ogni discorso sulla “tecnica” (anche nel diritto) rimane il lucido monito di Marino Gentile: «la tecnica non indica, né vuole, né può indicare un vero fine: tutto ciò che essa porta, non può essere scopo che a se stesso, ma soltanto grado e mezzo per raggiungere qualcos’altro […] e la tecnica non può determinare in che cosa quest’altro consista»18.

Dalla disamina fin qui approntata potrebbe allora trarsi la gelida deduzione, tanto esaltante quanto inquietante, che la tecnica (nel/del diritto), costituisca una sorta di zona franca per l’autonomia del soggetto “uomo”. Difatti, ciascuno non può più essere considerato come persona nel momento in cui qualcun altro, rectius qualcos’altro, decide al posto suo. Nemmeno può dirsi che solo all’interno di una prospettiva eteronomica possiamo ricavare delle regole giuridiche poichè «nell’espressione autonomia, classicamente, è [già] implicito il concetto di regolarità, quale disposizione del soggetto a seguire una regola»19.
“Disposizione”, non imposizione. Peraltro, disposizione non convenzionale, ma reale, come risulta incontrovertibilmente dalla struttura della relazione intersoggettiva, la quale è sempre determinata da regole convenzionalmente poste, ma in tanto si stabilisce in quanto i soggetti che ne sono parte attiva siano disposti a seguirle realmente e non virtualmente.

D’altronde, quanto abbiamo cercato di esporre in merito alla necessaria riflessione “tecnica” nel campo della Iurisprudentia compendia il perennemente arduo equilibrio tra anomia ed eteronomia, dove si riassumono e nel contempo sfumano tutti i contrasti epocali al cui interno si è dipanata l’esperienza giuridica. In molte di queste dispute, difatti, l’opzione media per l’autonomia si è palesata sicuramente quale strada maestra per il recupero del senso originario e non contingente del diritto, l’intelligenza della giusta misura, l’intelligenza di ciò che conviene, che è opportuno, che è necessario alla convivenza umana: in una parola, il consiglio nel giudizio.

L’affermazione poi del primato della costitutiva relazionalità soggettiva delle autonomie delinea una visione del diritto come regola oggettiva, necessaria, originaria. Oggettiva, perché riconosciuta come sussistente indipendentemente dal volere del singolo, che appunto subordina la propria volontà normativa al riconoscimento ermeneutico di un senso intrinseco nella realtà. Necessaria, perché tesa a garantire la coesistenza dalle spinte disgreganti e conflittuali naturalmente presenti in essa, e radicate nella libertà che orienta la prassi del singolo. Originaria, perché tale libertà ha bisogno di una struttura di fondamento all’interno della quale essere garantita nella sua stessa condizione di possibilità, uniformando l’esistenza individuale alla struttura coesistenziale nella quale è costitutivamente calata.

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