Diversità e libertà negli ordinamenti giuridici
di Andrea Favaro
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La dinamica evolutiva della moderna società “nazionale” in società multiculturale inizia già a produrre delle rilevanti conseguenze circa la struttura ed il funzionamento del sistema giuridico e richiederà, già nel medio periodo, quanto meno una parziale revisione del suo paradigma regolativo.
La riflessione politico-giuridica, anche a livello internazionale, è in difficoltà nell’offrire chiavi di lettura adeguate che giustifichino e sostituiscano il paradigma moderno di sovranità, la problematica attuale della multiculturalità ed il loro prevedibile impatto sui fondamenti costituzionali e sul diritto degli stati democratici.
Tra le disamine più recenti e innovative, è degna di particolare attenzione quella sviluppata da Chandran Kukathas (da qui in avanti, per brevità, anche “K.”), giovane filosofo politico, già autorevole sul panorama mondiale sui temi del liberalismo e del multiculturalismo.
Attualmente titolare della cattedra di “Teoria Politica” presso la London School of Economics, K. si è laureato in Storia e Scienze Politiche presso l’Australian National University e dopo aver acquisito un master in Politica presso l’Università del Nuovo Galles del Sud, ha conseguito un Ph.D. all’Università di Oxford. Ha insegnato ad Oxford, all’Australian National University e presso l’Università dello Utah.
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Chandran Kukathas è una voce spesso contro-corrente nel dibattito attuale attorno ai temi del liberalismo e le prospettive che questo può offrire nell’affrontare il pluralismo e la politica di accoglienza della diversità culturale. Difatti, molti intellettuali liberali contemporanei, pur difendendo le singole tradizioni culturali delle minoranze insistono, più o meno esplicitamente, sul fatto che le loro pratiche si conformino ai fondamentali valori (liberali) vigenti in un determinato ordinamento giuridico, specie se sono sottese ad una richiesta di riconoscimento pubblico, di “cittadinanza”.
K., invece, nega qualsiasi garanzia a priori per i diritti “culturali”, ma propone di concedere una estesa libertà di azione alle comunità perché esse possano vivere come preferiscono fare. Le sue argomentazioni a sostegno di questa tesi si sono sviluppate nel corso degli ultimi dieci anni e la monografia qui recensita, quindi, a buon diritto può rappresentare il punto di arrivo delle sue indagini sul tema, dove il percorso relativo alle sue argomentazioni, specialmente in materia di libertà di associazione (e “dissociazione”), tolleranza e libertà di coscienza, è spiegato e illustrato in una generale «teoria della diversità e della libertà», come recita il sottotitolo.
Il testo si compone di sei capitoli incorniciati da una “Prefazione” (dal taglio anche biografico), una estesa “Introduzione” e una breve ma importante “Conclusione”.
Al lettore italiano, spesso del tutto avulso dai dibattiti citati da K., l’opera si presenta come un saggio completo, velato da taluni tratti di scetticismo palese, sicuramente alla ricerca di una voluta sistematicità, tenace nelle argomentazioni, ricolmo di esempi e approfondimenti che talvolta tradiscono espliciti cenni autobiografici e per questo si rivelano ancora più stimolanti e talvolta innovativi.
La tesi, tuttavia, rimane comunque provocatoria.
Simpatizzante, come egli stesso confessa, per alcune forme di anarchismo, K. evidenzia però come le sue posizioni non potrebbero mai conciliarsi con quelle che esplicitamente «condannano lo stato come incapace di avere alcuna legittimità» (p. 8, nota 12).
Le questioni poste all’inizio del lavoro sono di quelle che farebbero tremare le vene e i polsi a qualsiasi teorico della politica, come pure ai governanti e agli studiosi in generale delle problematiche connesse con gli ordinamenti giuridici. Kukathas, difatti, intende rispondere a domande quali: “chi dovrebbe avere autorità?”; “qual è il compito dello stato e del governo?”; “qual è il principio base di una società aperta caratterizzata da diversità culturale?” (pp. 4-5).
Sostenitore coerente della tesi del c.d. “universalismo negativo”, l’Autore desidera recuperare l’aspirazione liberale originaria favorevole all’indifferenza delle politiche “pubbliche” rispetto all’appartenenza culturale dei soggetti (cfr. pp. 19-40). Secondo gli “universalisti”, lo stato dovrebbe conservare una posizione di indifferenza rispetto alle molteplici identità culturali dei cittadini, organizzando le proprie politiche secondo criteri che prescindono non tanto dal non riconoscimento delle culture presenti sul proprio territorio, quanto dal fatto che nessuna di questa possa dirsi “privilegiata”, o perché maggioritaria o perché maggiormente vicina al “sentire comune” o perché più “potente”, etc. All’interno di questo schema generale dell’universalismo si presentano però delle varianti tra loro molto diverse.
Quella proposta nell’opera qui analizzata si caratterizza per la sua tendenza “libertaria”: secondo K. lo stato deve impostare la sua azione sulla base del duplice presupposto di non interferire con la libertà di coscienza dei cittadini e di non formulare valutazioni delle diverse concezioni del “Bene” diffuse nella società.
Per questo motivo, come contro-bilanciamento al rifiuto di fornire un qualsivoglia riconoscimento giuridico-politico alle identità culturali e di predisporre politiche di esenzione da doveri per determinati gruppi di individui, viene proposta l’attribuzione della maggiore autonomia possibile a tutti i cittadini nell’ambito dei gruppi e delle comunità nelle quali (volontariamente) aderiscono. In questo modo Kukathas si spinge finanche a ritenere perfettamente legittime pratiche in sé molto controverse, come ad esempio quelle delle mutilazioni genitali e anche alcune particolari forme di ostracismo nei confronti di individui “devianti”.
Di conseguenza l’opera si inserisce nel dibattito contemporaneo presentando questioni anche molto concrete e l’Autore non si astiene dal proporre indicazioni specifiche in materia pure di dogane, lingue e dialetti, simboli, etc. (cfr. pp. 64-70 nonchè passim).
Se l’arma teoretica impugnata da K. è una lettura “avanzata” della teoria liberale (tanto avanzata che gli è valso addirittura l’appellativo di “anti-liberale perfezionista”), gli sfidanti sono i communitarians in buona compagnia con altri esponenti della prospettiva liberale tra i quali, solo per citarne alcuni, Kymlicka, Sen, Rawls, Raz, Fitzmaurice e Dworkin.
Proseguendo lungo il crinale della “battaglia” (intellettuale) che ben si addice al tenore dialettico dell’opera, è plausibile individuare la trincea di partenza di K. nella raffigurazione del ruolo dello stato. A differenza di altri libertari, K. espone una sorta di difesa (necessaria) dello stato che sussumerebbe tutti gli altri ordinamenti giuridici e sociali all’interno dei suoi confini. Così lo stato è raffigurato come “contenitore” di comunità (richiameremo infra la metafora dell’arcipelago) ed in quanto tale in posizione di massima neutralità, ma non per questo di necessaria “assenza”.
Nel corso dei sei capitoli vediamo il K. lottare in due agoni paralleli e al contempo sempre connessi. Nel primo si erge a paladino della libertà (di coscienza) confrontandosi con opinioni contrarie o “parallele” ma comunque non coincidenti (cfr. pp. 120-126). Nel secondo formula un tentativo di descrizione della sua proposta teoretica (comunque alternativa), ma non per questo scollegata dal pulsare dell’esperienza, grazie anche ai già citati richiami biografici.
La presente disamina avrebbe l’obiettivo di seguire K. soprattutto in questa seconda battaglia, perché estremamente più interessante ed innovativa e anche perché può offrire al dibattito italiano uno stimolo fecondo, si spera, di discussione.
Svolta questa opzione di preferenza, è facile individuare già nelle prime parole della “Introduzione” la tensione costante tra cooperazione e conflitto che per K. caratterizzerebbe tutta la storia delle società. Inoltre, per cogliere la valenza del secondo (il conflitto) K. espone come nel mondo odierno, ora più che mai, la differenza o la separazione vengono ribadite, rivendicate, affermate come espressioni di libertà.
Kukathas cerca di affrontare tali questioni ribaltando la prospettiva comune per la quale la questione fondamentale sarebbe quella della “giustizia” (sociale). Infatti, invece di concentrarsi su ciò che uno stato o un governo o la società dovrebbe permettere o ciò che dovrebbe vietare/punire, K. afferma che la questione essenziale è il riconoscimento di «chi dovrebbe avere autorità». Ecco che dalla giustizia si passa alla legittimità, concetto connesso col primo ma sostanzialmente diverso e, a detta di K, meno problematico perché più universale.
Innanzi tutto, in condizioni di diversità culturale, il tema della giustizia (in sé) è controverso e si corre il rischio di lasciare la giustizia senza “sostanza” o, al limite, concedere la definizione di giustizia ad una piccola minoranza (p. 6, ma anche pp. 229-236). In secondo luogo, una determinata concezione della giustizia presuppone una società chiusa che non ponga in discussione la collocazione ed il significato dei propri principi. Da ultimo, la questione fondamentale della filosofia politica è “chi detiene l’autorità”, svolta la quale sarà inevitabilmente determinata, se non la natura, quantomeno la concreta dimensione della giustizia.
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