Diritto e terrore *
di Gabriele Civello **

A tal proposito, viene ripercorso sinteticamente il pensiero di Giangiacomo Feltrinelli, il quale fu tra i primi a propugnare l’esigenza di convertire le velleità rivoluzionarie in lotta armata per una strategia globale, comunista ed antimperialista: in tale ottica, avente inter alia spiccate venature terzomondiste ed internazionaliste, la rivoluzione si sarebbe dovuta attuare mediante una colossale “unione di forze”, tra azioni di avanguardia e lotte di massa, in un crogiolo internazionale di energie proletarie, provenienti da tutti i continenti, fino a ricomprendere il Vietnam del nord, la Corea popolare, la Cina maoista, l’Armata Rossa sovietica e gli eserciti dei paesi dell’est Europa. Tale ricostruzione, dunque, era in palese contrasto con l’impostazione rivoluzionaria delle Brigate Rosse e del Potere Operaio, i quali, a titolo esemplificativo, avevano ascritto l’Unione Sovietica addirittura alla logica dell’imperialismo mondiale; ciò, tuttavia, non impedì una sostanziale collaborazione dei Gruppi d’Azione Partigiana (GAP), fondati da Feltrinelli, con Potere Operaio e Brigate Rosse.

Ed è proprio in tale periodo, a cavaliere tra gli anni ‘60 e ‘70, che – come evidenziato da Alberto Berardi – maturava l’idea di un partito armato, intorno alla quale si sviluppano due differenti modi di intendere le ragioni del partito medesimo, nel rapporto con la classe operaia. Secondo l’interpretazione rigidamente marxista-leninista, il proletariato viene ancora inteso come “massa informe”, incapace di una reazione spontanea ed autonoma, con conseguente assunzione, da parte del partito, del ruolo di “fulcro” dell’azione rivoluzionaria; secondo un’impostazione più squisitamente “operaista”, invece, i cui “padri spirituali” sembrano essere Mario Tronti e Toni Negri, il processo rivoluzionario nascerebbe “dal basso”, ossia dalla classe operaia, per giungere infine al partito.

In particolare, l’Autore del testo analizza il pensiero di Tronti e Negri, nel cui ambito si sviluppava la dialettica tradizionale tra ‘classe’ e ‘partito’, tra spontaneità ed organizzazione, in un movimento circolare secondo il quale alla classe operaia veniva primariamente riconosciuto un proprio e connaturato afflato rivoluzionario, mentre al partito restava il compito, per certi aspetti “scientifico”, di catalizzare e galvanizzare tali “germi”, mediante la loro selezione ed organizzazione. Da tale tensione problematica sarebbe derivata un’unica, nuova, entità, costituita dal c.d. “partito di classe”, fusione dinamica dei due processi politici, dal basso verso l’alto e viceversa; e in tale prospettiva, dunque, veniva rifiutata alla radice ogni idea di etero-direzione della classe operaia, in quanto il partito veniva concepito non più come un corpo estraneo che, quasi deus ex machina, dirigesse la classe operaia, bensì come un “tutto organico” introflesso ed incastonato nella classe medesima. In poche parole: “la strategia alle masse, la tattica al partito” (pag. 136).

In tale milieu ideologico, prosegue l’Autore, si sviluppava la concezione rivoluzionaria di Potere Operaio, secondo la quale l’avanguardia armata si sarebbe dovuta organizzare e coagulare attorno ai c.d. “focolai di lotta insurrezionale”, costruiti nel “partito dell’insurrezione”, idoneo a guidare la militarizzazione del movimento. Alla radice di tale opzione vi è, innanzitutto, una sostanziale adesione alla concezione leninista del partito d’avanguardia; tuttavia, la rigida ascendenza leninista viene superata, mediante la progressiva valorizzazione della lotta armata di massa quale unica strategia asseritamente vincente del movimento operaio. Anche in tal caso, il nemico principale è costituito dallo “spontaneismo” di massa, ossia dall’idea che la società abbia in sé i “germi” di autonomia per superare e comporre da sé i conflitti intersoggettivi; in tale ottica, anche il riformismo viene demonizzato, in quanto considerato espressione di una “moderata” tendenza al compromesso politico e, dunque, di un sostanziale tradimento dei principi rivoluzionari. Per evitare che, in via spontanea, le forze sociali trovino un “autonomo” accordo, l’unico strumento è costituito da un “atto di forza nei confronti del reale”, capace di imporre il punto di vista di classe quale esclusivo schema operativo; si tratta, dunque, di una “violenza non spontanea di massa, preordinata, precostituita, guidata, diretta”[16].

A questo punto della trattazione, l’Autore del testo pone mente al periodo storico dei primi anni ‘70, nell’ambito del quale vede la luce il nuovo movimento delle Brigate Rosse, i cui referenti storico-ideologici sono, nuovamente, la Comune parigina e la rivoluzione bolscevica. La lotta armata, anche secondo le Brigate Rosse, reca in sé il distintivo della necessità storica; l’ortodossia, inoltre, lungi da improvvisazioni e spontaneismi, richiede una ferrea e militare organizzazione della violenza, primo obiettivo della violenza rivoluzionaria. In chiave leninista, dunque, la rivoluzione viene concepita come processo “cosciente e forzato”[17], in quanto, senza un’imposizione politico-militare, la direzione dello scontro di classe è inevitabilmente quella della pacificazione sociale e, dunque, della “morte della rivoluzione”; pertanto, l’avanguardia comunista armata deve fungere da miccia, da innesco per il più ampio ordigno dinamitardo, costituito dalla massa proletaria. Significativa è, in proposito, la seguente affermazione, secondo la quale “non si tratta di organizzare il movimento di massa sul terreno della lotta armata, ma di radicare […] la coscienza politica della sua necessità storica nel movimento di classe”[18].

A parere di Alberto Berardi, tuttavia, con riguardo all’impostazione tipica delle Brigate Rosse, emerge una chiara debolezza teorica, la quale consiste nell’irrisolto – e, forse, irrisolvibile – parallelismo, in termini talvolta di distinzione, talaltra di continuità, tra avanguardia e massa; infatti, il Partito viene al contempo concepito come parte organica della massa ma anche come corpo distinto, in una sorta di relazione (apparentemente) dialettica che sembra più frutto di una “intuizione di compromesso” che di una matura e soppesata scelta ideologica. Infatti, nonostante i tentativi volti a conciliare i due aspetti, il potere rivoluzionario di massa e l’avanguardia organizzata restano due concetti separati e contraddittori, la cui frizione rappresenta la “spia” di una più profonda – e, probabilmente, insanabile – debolezza teorica di cui è affetta tale impostazione.

Peraltro, l’Autore del testo evidenzia come anche Lotta Continua affondi le proprie radici nel medesimo contesto teorico ed ideologico, il cui fulcro è costituito dall’idea del rovesciamento del dominio di classe, dalla agognata dittatura di classe e dalla vittoria del socialismo sul capitalismo; inoltre, gli strumenti operativi di Lotta Continua vengono mutuati dalla “migliore” tradizione rivoluzionaria: la violenza proletaria, vista come una vera e propria “necessità storica”, viene concepita come mezzo per la distruzione dello Stato borghese. L’approccio è di matrice operaista, in quanto il partito in sé e per sé, costituito dai “militanti di professione”, viene considerato come storicamente inadeguato e, dunque, la vera lotta di classe viene concepita come lotta della massa operaia.

Lungo tale tracciato teorico, Lotta Continua elabora un’aspra critica nei confronti del militarismo avanguardista di matrice brigatista, che viene accusato di un indiscriminato ricorso alla “violenza per la violenza”, la quale finisce per perdere l’originario afflato politico-rivoluzionario, per degradare a patetico e deviante “feticismo del fucile”. Tuttavia, tale apparente obiezione all’uso della violenza non conduce alla confutazione, ab imis, del metodo rivoluzionario; Lotta Continua, infatti, critica la teoria dell’avanguardia militare, ma non rinuncia certo allo strumento principale del terrore, ossia l’immancabile ed imprescindibile violenza proletaria, la quale viene in ogni caso intesa come fenomeno organizzato e permanente. E dunque, le Brigate Rosse sono fatte oggetto di critica da parte di Lotta Continua, senza però che tale contrapposizione ideologica faccia venire meno la radice comune dei due movimenti, la quale consente in ogni caso di chiamare “compagni” gli appartenenti alle Brigate Rosse. In definitiva, l’irrinunziabilità della lotta armata è nuovamente e fermamente ribadita, al di là delle differenti sfumature ideologiche.

Al fine di comprendere la prospettiva terroristica di Lotta Continua, Alberto Berardi annota e commenta la reazione maturata da tale movimento in occasione dell’uccisione del funzionario di Polizia, Luigi Calabresi: da un lato, infatti, viene precisato che “l’omicidio politico non è certo l’arma decisiva per l’emancipazione delle masse dal dominio capitalista, così come l’azione armata clandestina non è certo la forma decisiva della lotta di classe”; dall’altro lato, continua Lotta Continua, “queste considerazioni non possono assolutamente indurci a deplorare l’uccisione di Calabresi, un atto in cui gli sfruttati riconoscono la propria volontà di giustizia”[19].

Ecco, dunque, che i movimenti rivoluzionari italiani, al di là delle comprensibili divergenze sul quando e sul quomodo, finiscono inesorabilmente per concordare in merito all’an della violenza, quale unico ed imprescindibile strumento di affermazione politica; pertanto, anche all’esito di un sintetico excursus delle posizioni ideologiche di Lotta Continua, Potere Operaio e Brigate Rosse, emerge con chiarezza il minimo comun denominatore del fenomeno terroristico e la terza conclusione interlocutoria sembra, dunque, sostanzialmente confermata.

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