Arcipelago di autorità, per quale libertà?
di Andrea Favaro[1]

Il confine “proprietario” è ciò che sbarra la strada alla volontà di affrancarsi da ogni vincolo. L’idea stessa di proprietà, d’altra parte, trae la propria ragion d’essere dall’esigenza di regolare l’utilizzo di risorse scarse e porre in tal modo argini ad una conflittualità potenzialmente illimitata.

Se una colpa va addossata al liberalismo classico, allora, essa va riconosciuta nella sua incapacità di comprendere la questione della sicurezza (dell’ordine pubblico) e nella conseguente indisponibilità ad accogliere l’idea di una concorrenza tra governi, in quanto tali, che estenda anche all’ambito della protezione e della giustizia la logica proprietarista e competitiva. Mentre per la teoria libertaria una protezione può essere legittimamente assicurata solamente grazie a produttori privati e concorrenti, una simile ipotesi è stata sempre ignorata o rigettata dai teorici del liberalismo classico, che in tal modo hanno finito per esprimere una loro (parziale) accettazione dello stato moderno e della coercizione statale quale tutela per la libertà dell’individuo. Questo cedimento ha aperto la strada a una sorta di permanente contraddizione interna della teoria e al prevalere di orientamenti in vario modo favorevoli al trionfo del concetto moderno di sovranità. Privi di un’adeguata comprensione della logica consequenziale a cui il proprietarismo conduce in tema di sicurezza, i liberali sono stati infatti spinti ad attenuare e, alla fine, molto spesso perfino a rinnegare la loro concezione originaria della libertà. Ed è proprio a partire dall’ipotesi di un conflitto radicale tra libertà e sicurezza che alcuni autori hanno iniziato ad accettare l’idea stessa della soggezione (subjection), distinguendo tra una soggezione al potere legittima e una illegittima (eccessiva)[65].

La libertà, quindi, doveva essere in qualche modo conciliata con tutto ciò che innerva il suo esatto opposto. Proprio per permettere una migliore comprensione di questo concetto nella seconda metà del Settecento si comincerà a parlare di libertà civile. Ma cos’è, in definitiva, la libertà civile? Una forma, appunto, di soggezione al potere sovrano, per quanto variamente e virtualmente temperata[66].

In campo politico, l’utilitarismo poggerà su tali basi. Se infatti in un primo tempo era il richiamo al tema della sicurezza che permetteva di fondare la legittimità di questa mutilata libertà (che si concretizza in un dominio della società da parte dei detentori del potere politico), in seguito l’esigenza del mantenimento dell’ordine pubblico verrà sempre più inquadrata in una categoria più ampia: quella appunto dell’utilità. E poiché nessuno conosce da cosa possa provenire la soggettiva felicità degli (altri) uomini e come si possa assicurarla, per i padri fondatori del pensiero utilitarista, per lo stesso Bentham, in primo luogo, il modo migliore grazie al quale sarà possibile garantire tutto ciò consisterà nel difendere la proprietà privata. Al termine di questa complicata vicenda, insomma, sarà l’utilitarismo stesso a farsi difensore della proprietà e, quindi, ad interpretare le originarie istanze del liberalismo. Ma quella utilitarista – di tutta evidenza – sarà una fondazione quanto mai debole ed equivoca della proprietà privata e per certi versi distante da quella del liberalismo[67]: ed essa non sarà minimamente in condizione di opporre resistenza dinanzi a quanti, sempre in vista dell’utilità (sia essa “generale” o “individuale”), di volta in volta sosterranno che crescenti limitazioni della libertà dei singoli sono necessarie e, anzi, opportune.

Anche il libertarismo leoniano pare muovere dalla convinzione che questa storia sia stata segnata da una sequela di fallimenti e che una difesa meramente utilitaristica del diritto di proprietà non sia in grado di offrire criteri di giudizio adeguati. Se non vi sono diritti naturali in grado di giustificare e fondare la legittima proprietà, la teoria politica finisce per assumere una prospettiva ottusamente conservatrice e per farsi copertura ideologica (in senso marxiano) di ogni esproprio e ingiustizia. Invero, la radice più profonda dell’errore, per Rothbard, è proprio da cogliere nell’idea (sbagliata) di libertà che – da Hobbes in poi – si è affermata all’interno del pensiero filosofico occidentale. Quando la libertà è stata sottratta alla sua relazione essenziale con la proprietà, secondo Leoni, (e quando dunque si è voluto negare il problema dei giusti confini entro cui la volontà dell’individuo può esprimersi senza aggredire altri soggetti), la libertà è stata identificata con il caos di una volontà illimitata: fino al punto da essere confusa con la violenza; oppure scambiata con la più astrusa pianificazione sociale arbitrariamente decisa da questo o quel gruppo politico al fine di permettere il più ampio accesso alla facoltà di possedere e consumare.

L’incomprensione della libertà ha finito per coincidere con la stessa incomprensione della coercizione e del potere e, quindi, della natura dello stato (moderno).

In sunto, il senso della libertà si chiarisce, tornando alla posizione del Leoni, in rapporto alla sua configurazione “negativa”; epperò parallelamente la libertà viene identificata come un “bene” non solo per il singolo, ma per l’insieme di singoli. Si pone dunque un altro problema, quello della appartenenza alla “comunità”, e quindi dell’esistenza stessa di un insieme di individui che non si identifichi nella somma anonima degli stessi, ma che possa dirsi “comunità”, una forma sociale intermedia ed autonoma sia rispetto allo stato che rispetto all’individuo.

Una dimensione soggettiva, questa, non sempre considerata adeguatamente dal liberalismo classico e che rischia di essere insufficientemente compresa anche dal pensiero libertario, che tende ad isolare e contrapporre, appunto, stato ed individuo. Inoltre, nel mondo contemporaneo la questione trova meno facilmente una replica immediata perché non solo i confini di appartenenza si sono diluiti, ma la stessa forma della “comunità” ha assunto sempre più aspetti trasversali e direzioni inusitate e complesse. La dimensione della “comunità” comporta l’inevitabile confronto tra la libertà e gli (altri) individui, rectius tra il singolo e le sue (in)consapevoli dimensioni di autorità che emergono dalle relazioni con gli altri. Rapporto tra singoli che può finanche connotarsi di aspetti tragici nel momento in cui si sente pulsare nell’esperienza la verità dell’intuizione di Kierkegaard «La cosa più alta che si può fare per un essere, molto più alta di tutto ciò che un uomo possa fare per esso, è di renderlo libero. Per poterlo fare è necessaria precisamente l’onnipotenza. Questo sembra strano, perché l’onnipotenza dovrebbe rendere dipendenti. Ma se si vuole veramente concepire l’onnipotenza, si vedrà che essa comporta precisamente la determinazione di poter riprendere se stessi nella manifestazione dell’onnipotenza, in modo che appunto per questo la cosa creata possa, per via dell’onnipotenza, essere indipendente»[68].

In effetti, il limite precipuo della disamina leoniana, come pure, ci pare lecito affermare, dei vari Rothbard, Kukathas come pure di Hoppe, è quel voler comprendere fenomeni dell’esperienza comune (diritto, economia, politica e linguaggio) ponendo come assioma assoluto la sacralizzazione dell’individuo che anche nel suo interagire con gli altri soggetti, permarrebbe (irrazionalmente) nella sua individualità. Così procedendo, però, oltre a non riuscire a offrire giustificazione alcuna delle naturali relazioni (di potere e autorità) esistenti tra i soggetti, non pare cogliere nemmeno la struttura stessa del soggetto umano, così com’è declinato nella peculiare dimensione di “unicità”. Una struttura soggettiva questa che volutamente, ma pure inevitabilmente, ben si coniuga con il paradigma del mercato, dove vige lo scambio non (sol)tanto perché importa “chi” scambia, ma anche e soprattutto perché rileva “che cosa” viene scambiato; quel “che cosa” che viene formalizzato/sacralizzato con il “prezzo”. Anche qui si innerva la quaestio, di notevole dimensione antropologica, per la quale nel momento in cui l’individuo che dovrebbe, in quanto tale, calarsi nella dimensione dell’uomo, rectius dell’unico, è chiamato ad esistere in funzione di quanto ottiene (“che cosa”) tramite lo scambio (di pretese) con gli altri, ammettendone così non solo l’esistenza, ma finanche l’essenzialità, nella fondamentale dinamica del “riconoscere” (se stesso nell’altro)[69] che abbiamo ormai assunto dalla dialettica hegeliana servo-padrone.

In questa lettura problematica, però, non si desidera asserire che quanto il Leoni descrive nel suo “modello” sia in sé ingiustificato, anche perché «l’idea di risolvere il rapporto dell’io con ciò che gli sta attorno, sottoponendolo al suo potere, non è un qualche cosa di patologico oppure di illogico oppure ancora di contraddittorio, ma è perfettamente fisiologico, logico, coerente con la costruzione dell’uomo come “unico”»[70]. In tale ambito la costruzione leoniana si rivela coerente; epperò, inevitabilmente, questa stessa raffigurazione si automutila quando non è in grado di celare che il “diritto come pretesa” non è altro che espressione del più forte, sia esso rivestito o meno di “autorità” riconosciuta. Infatti, nel momento in cui l’individuo, per essere soggetto di pretese, deve poterle esercitare, inevitabilmente ricade nella logica di matrice hegeliana e necessariamente dipende dagli “altri”, che sono i soli che possono esaudire le sue pretese. Ecco che il Leoni mutua dalla scienza economica il concetto di “scambio”, ma non per questo pare in grado di evitare che l’individuo si renda schiavo dell’altro. Il non percepire la realtà obiettiva relazionale come realtà qualitativa della “comunità” è così foriero, come abbiamo già detto, della riduzione della stessa “comunità” alla mera somma quantitativa degli individui (e dei loro beni) che la compongono. Se poi ricordiamo come lo scambio valuti soprattutto “che cosa” si scambia, piuttosto che i soggetti che scambiano, evidentemente anche qui il profilo assiologico è tutto versato a favore del bene del singolo (in quanto tale) piuttosto che del bene comune[71]. Tornando al principio della disamina solo con qualche cenno par evidente come la libertà proposta rischia di innervarsi in tante isole distinte piuttosto che in un arcipelago e forse i richiami svolti da Kukathas alla coscienza e al diritto di dissociazione, che in questa sede non abbiamo potuto svolgere compiutamente, potrebbero palesare vie feconde per il riconoscimento dell’autorità reciproca tra individui che si riconoscono come tali e non in forza del potere che esercitano.

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