Arcipelago di autorità, per quale libertà?
di Andrea Favaro[1]

Quel che in questa sede rileva, a nostro parere, è il commento del Leoni alla Parte III dell’opera di Cranston, circa la questione della “libertà del volere”, ovvero il «problema del rapporto fra le scelte e le azioni degli individui da un lato e la regolarità e la “necessità” della concatenazione dei fenomeni fisici, quali vengono studiati dalle scienze moderne dall’altro»[18]. Il Leoni ritiene che solo una parte delle azioni umane sia prevedibile, e che molte azioni, quali la creazione poetica o quella scientifica, non sono per nulla prevedibili, perché solo “creabili”. Ecco perché per il giusfilosofo, la questione davvero urgente non è tanto quella inerente la distinzione tra creazione e previsione, quanto quella che già Leibniz aveva evidenziato, affermando che gli premeva «sapere se è possibile ricostruire in qualche modo scientifico il processo creativo dell’inventore, così da riprodurlo a piacimento e da applicarlo a invenzioni nuove. In tal caso anche le persone tarde di ingegno diverrebbero – come egli sperava – inventori: ma soprattutto sarebbe dimostrato che nelle invenzioni non vi è “libertà” di scelta, né creatività, ma soltanto metodo e una sorta di analizzato meccanismo mentale. Fortunatamente per la tesi libertaria (…) questa dimostrazione non è stata ancora data. Nessuno è ancora riuscito ad entrare nella mente umana “come dans un moulin”. Così la nostra “libertà” è incertezza: le nostre scelte sono libere in quanto non siano ancora state, e non siano, predicibili dalla scienza»[19].

L’analisi leoniana palesa tutto il suo interesse circa la relazione tra scienza e conoscenza, ma ancor più tra libertà e incertezza. Se questo rapporto inscindibile, difatti, è talmente connaturato alle scelte dell’essere umano significa che diventa impossibile, sempre e comunque, per qualsiasi soggetto, ad esclusione dell’individuo che sceglie per sé, comprendere, ma anche solo conoscere, ciò che è bene e ciò che è male per gli altri. Tale rapporto, che al Leoni pare davvero imprescindibile, tra libertà e incertezza[20], è uno dei temi più efficaci per escludere a priori qualsivoglia idea di auctoritas (che si palesi esterna all’individuo) che sia in grado di comprendere prima, realizzare e garantire poi, ciò che è “bene” per i soggetti appartenenti ad una comunità politica.

Per Leoni, l’aspetto dinamico del rapporto tra “diritto” e “irrazionalità” risulta di fondamentale importanza, dato che esso permette di svelare i limiti dell’approccio razional-legalista applicato al fenomeno sociale, su cui tanto ha insistito il giusfilosofo sin dalle sue opere giovanili. Si tratta della sempre più matura consapevolezza su ciò che irrazionale e razionale rappresentano e sono, «né l’uno né l’altro potendosi più considerare come ipostasi, come regni dalle frontiere immutabili ed inviolabili»[21]. Circa la sfera del giuridico, sempre avviluppata tra razionale/irrazionale, interessante pare appunto la concezione leoniana della “coercizione” e della libertà come “assenza di costrizione”, elusione dell’auctoritas (esterna) che andremmo di seguito ad analizzare evidenziandone pregi e limiti. Pare significativo in questa sede, soprattutto per illustrare i secondi, riprendere alcuni passi delle ultime pagine di Freedom and the Law a partire da una precisa definizione di “coercizione”: «La coercizione è più una sensazione di intimidazione che un evento fisico, e l’identificazione della coercizione è più difficile di quanto si immagini a prima vista. Le minacce e i sentimenti loro collegati costituiscono una catena i cui nessi non sempre si possono rintracciare con facilità, né possono essere definiti da altri che non siano l’individuo interessato»[22].

Ritorna il nesso tra coercizione e individuo, che poi non è altro che il fulcro della relazione tra autorità e libertà, dal momento che questa non può non essere, per il Leoni, che “assenza di costrizione”. Difatti, il giusfilosofo giunge subito dopo ad asserire che «Dal momento che la libertà non è qualcosa di valutabile con un metodo empirico o aprioristico (…), un ordinamento politico basato sulla libertà include sempre almeno un minimo di coercizione, non solo nel senso di coercizione che impedisce la costrizione, ma anche che la determina – ad esempio, con una regola di maggioranza – tramite una decisione collettiva su ciò che il gruppo ammetterà come “libero” e ciò che vieterà come coercitivo in tutti i casi non suscettibili di determinazione oggettiva»[23]. In riferimento a ciò, pare quasi che il Leoni giustifichi, rectius tolleri, talune norme “illiberali” riguardanti il divieto di partecipare a feste durante la domenica[24], con l’esito che vengono poste sullo stesso livello la facoltà di disporre di sé e dei propri averi con il disagio morale od etico subito da coloro che si sentono offesi dal comportamento altrui. Anche il Rothbard rileva tale limite dell’impostazione leoniana, asserendo che «Leoni compie l’errore di applicare il suo test sulla coercizione (o costrizione) non agli atti oggettivi dell’accusato, ma ai sentimenti soggettivi dell’accusatore»[25].

In sunto, potrebbe rinvenirsi una debolezza di fondo nelle definizioni leoniane di libertà e di azione illegittima. Tali difficoltà si notano soprattutto nelle incongruenze, se non vere e proprie contraddizioni, di cui è foriera la sua posizione “libertaria”. Difatti, è evidente come il Leoni non neghi ogni spazio alla legge statuale. Ricadendo così in quella che Rothbard descriverà come la contraddizione hayekiana, in Freedom and the Law il giusfilosofo asserisce la utilità del diritto emanato dal ceto politico e quindi, conseguentemente, del concetto di “autorità statuale”. Ad ogni buon conto è doveroso evidenziare come le sue non possano mai definirsi espressioni entusiaste e come comportino il richiamo al dovere di contenere il più possibile il potere di deputati e senatori nel produrre leggi. «In tutti gli ordinamenti politici contemporanei ci sono assai più legislazione, (…), e assai meno “leggi scritte su tavole viventi”, (…), assai meno scelte libere di quanto sarebbe necessario per conservare la libertà individuale di scelta. Non dico che si dovrebbe fare completamente a meno della legislazione (…). Sono piuttosto d’accordo che in alcuni casi le questioni riguardano tutti e non possono essere affrontate con aggiustamenti spontanei e scelte individuali pur reciprocamente compatibili. (…) Ma sono convinto che più riusciamo a ridurre la vasta area attualmente occupata dalle decisioni collettive nella politica e nel diritto, (…), più riusciremo a stabilire uno stato di cose simile a quello che prevale nell’àmbito del linguaggio, del common law, del libero mercato, della moda, del costume, etc., ove tutte le scelte individuali si adattano reciprocamente e nessuna è mai messa in minoranza»[26].

Dopo aver descritto la necessaria presenza di leggi in astratto, Leoni si rende ben conto, però, dell’esperienza concreta quotidianamente rappresentata anche con la sua attività forense e riserva a questa un giudizio del tutto severo e negativo[27]. Di conseguenza, affida un ruolo residuale alla legislazione, ma pur sempre un ruolo e giustifica, quindi, una sorta di “coercizione”, negando in nuce l’essenza della libertà “negativa” (politica) e comportando all’interno della sua posizione teoretica una evidente aporia, vertente sul suo nucleo fondamentale. Difatti, come ha rilevato pure il Lottieri, «nella prospettiva libertaria abbracciata da Leoni perfino le norme costituzionali poste a tutela della proprietà, e anche a prescindere dalla definizione di proprietà che esse danno e dal tipo di tutela che s’incaricano di assicurare, si prestano a motivate contestazioni, dato che sul piano procedurale esse pretendono di porre in essere il diritto di proprietà»[28].

È stato affermato pure convincentemente[29] che talune incoerenze[30] leoniane possono rinvenire una sorta di giustificazione in una terminologia inadeguata, ma sarebbe meglio qualificarla imprecisa. Anche per questo motivo è necessario evidenziare un elemento determinante la comprensione della posizione del giusfilosofo. In Leoni è assente la concezione hobbesiana della libertà che ha tanto influenzato, e tuttora condiziona, buona parte della riflessione filosofico-giuridica[31], la quale, facendo riferimento alla lettura analitica della libertà offerta da Felix Oppenheim[32], tenta di far coincidere la “libertà” con la “licenza”. In questa prospettiva il proprietario lederebbe la libertà dell’aggressore difendendo i propri titoli di proprietà[33], esattamente come il ladro riduce la libertà di chi subisce la sottrazione di un dato bene. Nello stato di natura di matrice hobbesiana, la libertà si declina nella possibilità di compiere tutto ciò che si vuole. Di conseguenza, ciò che vincola l’agire umano e lo limita rappresenterebbe, sempre e comunque, una limitazione della libertà stessa. In base a tale impostazione, allora, vengono giustificati i limiti (sociali) imposti all’autonomia del singolo; ma la questione, allora, verte sull’accettabilità di tale definizione di “libertà”.

Secondo quanto Leoni ha tentato di esporre, con tutti i limiti già evidenziati, una definizione di libertà che sia costretta ad essere “de-moralizzata”, rectius che escluda il nesso con la proprietà, porta alla dissoluzione del diritto stesso, poiché se i titoli sono unicamente il prodotto di un processo politico, la vita sociale non può non ridursi ad un rinnovato (ma non più solo ipotetico) stato di natura, ad una «potenziale guerra giuridica di tutti contro tutti, condotta per mezzo della legislazione e della rappresentanza»[34].

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