Arcipelago di autorità, per quale libertà?
di Andrea Favaro[1]

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La presente disamina, principiando proprio dal titolo al contempo evocativo e problematico, si pone lo scopo di indagare in termini prospettici la dialettica tra i paradigmi della libertà e della autorità così come viene proposta da taluni studiosi contemporanei, tra i quali ampio spazio sarà dedicato a Bruno Leoni, Murray N. Rothbard e Chandran Kukathas.

Distanti per esperienze di vita e culture di provenienza (il primo avvocato e filosofo del diritto italiano della metà del XX secolo; il secondo docente di economia e esponente di rilievo della politica statunitense della seconda metà del ‘900; il terzo filosofo politico di nascita australiana, ma che ha insegnato e insegna in tre continenti diversi), più prossimi del previsto per quanto concerne le proposte teoriche offerte non solo nel contenuto (che può a ragion veduta far additare tutti nel filone del liberalismo), ma anche nella metodologia di analisi (che emerge sempre dall’esperienza concreta quotidianamente pulsante nelle relazioni intersoggettive e non deriva da un costrutto astratto e conseguentemente avulso dalla realtà).

Per strutturare la proposta di confronto tra prospettive anche diverse sul tema «Arcipelago di autorità, per quale libertà?» sarà dedicato un primo passaggio al concetto di “libertà”, soprattutto all’interno della proposta leoniana. I paragrafi successivi verteranno, quindi, sul rapporto che vi è tra “libertà” del singolo “individuo” e la presenza del “potere” nella società, che è inevitabile perché coessenziale all’esistenza dell’ordinamento giuridico. Proprio seguendo tale problematica il confronto tra i tre autori diverrà maggiormente serrato e vedrà le tesi del giusfilosofo Bruno Leoni[2] quale colonne portanti della disamina e quelle degli studiosi già richiamati, Murray N. Rothbard[3] e Chandran Kukathas[4], quali punti di giuntura e rilancio.

Del problema della “libertà” in ambito filosofico-giuridico, si può parlare attraverso molteplici prospettive. Tuttavia, come ha testimoniato di recente anche Mauro Barberis «si può formulare una teoria della libertà: un’analisi del termine “libertà”, o meglio del concetto di libertà, che serva a spiegare o a comprendere le diverse cose designate dal nome»[5].

Invero, quella che Leoni[6] palesa in molti dei suoi scritti è in un certo qual modo una declinazione del concetto di libertà nel diritto, nell’ordinamento giuridico, nella giurisprudenza e nella scienza. A differenza delle più autorevoli teorie della libertà, avvezze a concentrarsi sugli usi contemporanei del concetto, egli mostra una peculiare cura nel ricercarne le matrici storiche e culturali. Anticipando in questi paragrafi introduttivi quanto andremmo ad esporre compiutamente nel prosieguo, chiariamo che Leoni propone una libertà dal carattere prettamente “negativo”, che si individua sostanzialmente nell’assenza di costrizione esterne al soggetto. È bene sottolineare che il concetto di “libertà” in sé investe una serie di categorie, ed ancor prima di discipline, che esulano dalla sfera complessa del pensiero giuridico-politico; inoltre, è esso stesso caratterizzato da una fluidità, assai più instabile rispetto a quello delle altre scienze e forse anche delle altre sottodiscipline filosofiche stesse. Forse in questo senso, è lo stesso Leoni che ripetutamente invita il lettore a svincolare il concetto di libertà dal dominio della stessa “politica”, per ricomprenderlo in quello “filosofico-speculativo” generale cui primariamente appartiene. Contrastando la contemporanea impostazione propugnata dai rappresentanti della filosofia analitica e della «loro sedicente rivoluzione filosofica»[7], egli evidenzia che il punto di partenza di ogni analisi sul tema indicato deve necessariamente partire dalla parola[8] e i modelli che questa propone nell’immaginario collettivo. E’ pur vero che un modello politico, ma soprattutto morale, investe fin dall’inizio il concetto di “libertà”, che si configura spesso declinandosi nel suo opposto: la “servitù”, ovvero lo status di servo che identifica l’esistenza degli individui nelle loro relazioni con gli altri individui.

Per Leoni, in sintesi, si è liberi nella misura in cui le azioni del singolo soggetto non infrangono i diritti (ovvero la sfera di libertà) degli altri. Ma su questo torneremo infra. Una riflessione, però, è sin d’ora opportuna: questo tipo di libertà, quello negativo, è l’unico consentito nel momento in cui scompare la divisione lacerante tra “schiavi” e “liberi”. La società di “liberi”, in quanto società di eguali, non potrebbe, quindi, definirsi, almeno in apparenza, se non attraverso la libertà negativa. Pare giustificato sottolineare, inoltre, come il Leoni discuta di “libertà” soprattutto quando è provocato da qualche definizione (altrui), ritenuta errata. Tra i vari esempi, potremmo prendere quello forse più significativo. Difatti, proseguendo la sua ricca disamina sull’attuale fraintendimento che insiste sul termine “libertà”, egli esemplifica tale situazione affermando: «Questa rivoluzione semantica è probabilmente legata, a sua volta, alle speculazioni di certi filosofi che si compiacciono di definire la “libertà”, in opposizione a tutti i significati consueti della parola nel linguaggio ordinario, come qualcosa che implica la coercizione. Così Bosanquet, il discepolo inglese di Hegel, poté affermare nella sua Philosophical Theory of the State che “possiamo dire senza contraddizione di essere costretti ad essere liberi”. Sono d’accordo con Maurice Cranston, il quale suggerisce che simili definizioni della libertà si fondono principalmente su una teoria dell’“uomo biforcuto”, cioè di un uomo come “unità di corpo e spirito”, allo stesso tempo razionale e “irrazionale”. La libertà, perciò, implicherebbe una specie di coercizione della parte razionale dell’uomo su quella irrazionale. Ma tali teorie spesso sono strettamente connesse con la nozione di una coazione che può essere applicata fisicamente dalle sedicenti persone razionali per conto delle presunte persone “irrazionali”, ma anche, alla fine, contro la loro volontà»[9].

In sunto, non è possibile parlare di libertà indipendentemente da chi ne parla. A prescindere dalla distinzione tra le definizioni “stipulative” e quelle “lessicali”, il dubbio che pervade Leoni è che di libertà si possa realmente parlare stipulativamente[10], anche perché, «in ultima analisi, una definizione veramente efficace di “libertà” deve essere lessicale, a prescindere dalle difficoltà della ricerca lessicologica ad essa collegate»[11].

Lo studioso discute del tema della libertà in più scritti. Correttamente il Masala evidenzia[12] quanto affermato dal giusfilosofo in una recensione[13] al testo di Maurice Cranston “Freedom. A New Analysis”[14] sui vari significati del termine libertà. Concordando, come abbiamo visto ammettere, con Cranston, il giusfilosofo conferma che tale concetto, in ambito giuridico-politico, è apprezzabile solo in negativo, «ossia per qualcosa da cui si è liberi»[15], dove la libertà è vincolata alla definizione di quel qualcosa “da” cui ci si vuole liberare.

È doveroso sottolineare in questa sede come tale concezione non soddisfi molti filosofi e molti giuristi che hanno spesso tentato di migliorarla cercandone una declinazione “positiva”. La connessione tra libertà e felicità, ad esempio, è stata ed è tuttora di importanza fondamentale per comprenderne una declinazione “positiva” ed evitare di privilegiare la libertà rispetto a ciò cui essa deve servire, ossia la felicità e l’appagamento che derivano dal raggiungimento dei propri scopi. Ecco che, in tale prospettiva, il discorso dalla libertà nella sfera della legge, fortemente connotato e sostenuto da una uguaglianza giuridica che vi conferisce validità, viene integrato da quello che Berlin chiamava, appunto, “libertà positiva”, ovvero, molto schematicamente, la libertà “di” (rispetto alla libertà “da”). La libertà svincolata dalla sua costrizione, o, come declinerebbe un Hegel, dal suo inveramento giuridico. Si tratta, si diceva, di una “libertà di” o, detto sempre hegelianamente, della libertà astratta.

In realtà, la libertà “positiva” recupera, ampliandolo, il discorso aristotelico-tomista della potestas in se ipsum, che ottenne grandi attenzioni speculative dalla seconda Scolastica. La “libertà positiva” svincola il discorso sulla libertà dalla sfera del diritto e della politica, ed investe categorie filosofiche assai più comprensive. Innanzi tutto, a mero titolo esemplificativo, quella del “libero arbitrio” contrapposta a quella del “servo arbitrio”, che vide schierati, come è noto, su posizioni opposte, Martin Lutero ed Erasmo da Rotterdam all’inizio del Cinquecento. La libertà positiva, come libertà “di”, anziché libertà “da”, si inserisce nel solco del pensiero occidentale nello stesso modo in cui vi si innesta il movimento che trasforma, giuridicamente e politicamente, il suddito in cittadino, lo schiavo in libero, il discriminato nell’eguale.

Se quanto detto finora può ritenersi giustificato, allora, tale concetto di libertà non può essere completamente svincolato dalle categorie del politico e del giuridico. Tuttavia, la sua dimensione antropologica ed etica viene ad integrare (per certi versi assorbendole) quella politica e giuridica, una volta che l’individuo sia messo in grado di esercitare tale libertà.

Questo, in effetti, rimane il grande ostacolo della declinazione “positiva” della libertà: ciascun individuo deve essere messo in grado di esercitarla[16].

Per questo motivo, si ritiene, il Leoni non è d’accordo con questa che può essere definita una “evoluzione” del concetto primordiale di libertà politico-giuridica. Il giusfilosofo pone in rilievo come tale idea sia qualcosa di differente rispetto alla libertà. «Essere liberi di giocare a scacchi non significa avere il potere di farlo, ossia saperlo fare. Come d’altro canto saper giocare non significa essere liberi di farlo»[17]. Con lo stesso livore viene negata, peraltro, pure la dottrina della “compulsory rational freedom”, contro la quale il giusfilosofo invita ad incentrare l’attenzione sulla compatibilità di talune teorie con l’utilizzo “lessicografico”, ovvero il significato comune del termine che le teorie medesime vorrebbero esplicare. Nel caso di quella dottrina si presuppone un intervento coattivo, in nome della ragione, per costringere gli uomini ad essere liberi. A detta del Leoni, perciò, questo è in totale contrasto con il significato (appunto lessicografico) del termine libertà che non viene mai usato nel significato di costrizione, pena l’autoannullamento del concetto medesimo di “libertà”.

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