Realismo e Giurisprudenza nell’esperienza processuale
di Torquato G. Tasso
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In questo contributo vorrei partire da un ricordo (ormai purtroppo) lontano di quando, giovane praticante di uno studio legale, accompagnando il mio dominus, ebbi il mio primo contatto con la realtà del processo civile italiano, in un giorno d’udienza nella storica Pretura Civile di Venezia.
Non mi soffermerò sul clima assolutamente caotico che regnava nei corridoi di quell’Ufficio Giudiziario e che, ovviamente, lasciava a dir poco perplesso un giovane laureato che, avendo da poco lasciato i banchi universitari e i libri di studio, con il giovanile entusiasmo di chi pensa di poter, finalmente, dare concreta applicazione pratica ai principi della Giustizia, con tanto scrupoloso studio appresi, si trova, in sede d’udienza, catapultato ed immerso in un’autentica quanto inattesa bolgia dantesca, a lottare “fisicamente” anziché disquisire “giuridicamente” con i propri colleghi.
Non mi soffermerò se non per dire che, a distanza (oramai purtroppo) di quasi quindici anni, le cose non sono molto cambiate e che, quindi, ogni volta che ritorno in Tribunale, il sentimento di perplesso smarrimento si rinnova, accompagnato semmai da una sempre più solida e disarmata (oltre che disarmante) rassegnazione.
Riguardo a questo mio primo giorno d’udienza, però, volevo condividere con voi l’esperienza da me vissuta, per cercarne una chiave di lettura non da un punto di vista emotivo o emozionale ma giuridico.
All’epoca era da poco entrata in vigore una riforma dei contratti di locazione per gli immobili ad uso abitativo (c.d. “patti in deroga”) che, confermando una prassi alquanto singolare e discutibile dal punto di vista giuridico costituzionale, era stata emanata sotto forma di decreto legge [1] e che intendeva iniziare il cammino d’innovazione del settore oramai da anni cristallizzato nelle disposizioni della legge del 1978 c.d. dell’Equo Canone.
Tale riforma prevedeva un articolo 2 bis, introdotto – tra l’altro – dalla legge di conversione del decreto [2], il quale intendeva disciplinare, in maniera alquanto enigmatica, il periodo transitorio tra la precedente normativa e l’introdotta riforma, prevedendo una possibile proroga biennale ai contratti di locazione in essere al momento dell’entrata in vigore della legge di riforma e che erano di prossima scadenza.
In quel giorno d’udienza, l’avvocato, presso il cui studio svolgevo la pratica, patrocinava un cliente, proprietario di due appartamenti (assolutamente identici), insistenti nello stesso condominio, che, nella stessa data, aveva concesso in locazione, in virtù di due contratti (assolutamente identici), a due inquilini diversi. Dato che i contratti erano di prossima scadenza e il cliente intendeva recedere dagli stessi, l’avvocato aveva introdotto due giudizi per far dichiarare la risoluzione dei contratti e chiedere, per l’effetto, la liberazione degli immobili.
Le cause, è il caso di ricordarlo, assolutamente identiche, erano state assegnate a due giudici diversi i quali diedero due “responsi” altrettanto diversi, in quanto un giudice riteneva al caso di specie applicabile la proroga biennale di cui all’art. 2 bis, l’altro giudice, che, ironia della sorte, aveva il proprio ufficio contiguo a quello del collega, nel caso parallelo e assolutamente identico, invece, non la riteneva applicabile. Conseguenza molto importante, un inquilino avrebbe potuto occupare legittimamente l’appartamento per altri due anni, mentre l’altro inquilino che, ripeto, si trovava in una situazione assolutamente identica, avrebbe dovuto rilasciare lo stesso all’imminente scadenza.
Inutile dire che l’episodio lasciò il giovane praticante di studio, che già si vedeva futuro paladino della Giustizia, a dir poco sconcertato. Sconcerto che, a distanza di anni, nel ricordo, rinnovo.
Inutile dire che il giovane praticante si pose subito una serie di domande su cosa fosse la Giustizia, se davvero un processo potesse garantire l’individuazione della Giustizia o se la Giustizia fosse un ideale distante e irraggiungibile che alberga lontano dalle (impropriamente dette) aule di Giustizia che si frantuma nelle miriadi di pronunce spesso difformi.
Queste domande (che immagino molti giovani laureati alle prime esperienze professionali continuano a porsi) mi portarono alla memoria delle letture precedenti, mi fecero ricordare proprio i contributi del giusrealismo, in particolare di quello americano, che, se non per primi, certo in maniera però centrale, hanno affrontato il problema. Problema che, è il caso di ribadirlo, conserva attualità e sul quale l’occasione odierna ci consente una più serena riflessione.
La mia riflessione deve necessariamente partire (come all’epoca partì) dall’assunto divenuto famoso di Pound, che in un suo celebre articolo [3] , invitava ad assumere come oggetto della conoscenza giuridica non il diritto contenuto nei polverosi libri (law in books appunto) ma nella reale e pulsante vita dei Tribunali (law in action), monito che allora risuonò di fatale attualità. Secondo l’autore, infatti, una cosa è il diritto come viene studiato dalla dottrina e dai giuristi in generale che, una volta cristallizzato in trattati dottrinali, può far bella mostra di sé esclusivamente in vecchie biblioteche, ma tutt’altra cosa è invece la vita pulsante dei Tribunali nei quali il diritto viene quotidianamente applicato e confrontato con le mutevoli e mutate esigenze, con il prospettarsi di sempre nuovi e numerosi casi concreti.
Certamente utile, ai fini delle risposte che stiamo cercando, è rileggere alcuni passi di uno dei precursori del realismo giuridico americano, Oliver W. Holmes, il quale, in aperta polemica con i formalisti, ritenendo che, appunto, il diritto applicato nelle aule giudiziarie ha una vita a sè, nella sua forse più famosa pubblicazione, “The path of the law”, definisce il diritto come la tecnica che permette di formulare delle “previsioni di ciò che i tribunali effettivamente faranno”, in quanto le leggi, le norme, le consuetudini non sono il diritto ma solo i mezzi che permettono tali previsioni.
Ed ancora, si deve ricordare chi tale intuizione sviluppò ulteriormente, ossia John Dewey, che, nella sua visione storicistica e sociologica del diritto, evidenziava la fondamentale vitalità del diritto (thing going on) per attribuire rilevanza creativa proprio al momento applicativo del diritto, in quanto parte necessaria della produzione normativa, che senza la concreta applicazione rimarrebbe “pezzo di carta o una voce nell’aria” [4].Gli spunti del realismo giuridico, che ho molto sommariamente ricordato e nei quali all’epoca trovai un iniziale conforto, sono certamente utili per cominciare a dare delle risposte alle domande che il giovane praticante dell’epoca si era posto subito dopo la sua prima (e purtroppo non ultima) sconfortante esperienza processuale.
Se il Realismo Giuridico ha il merito di aver individuato e attirato l’attenzione della dottrina su alcuni aspetti importanti (in primis, appunto, l’importanza del momento applicativo della legge) è – però – giunto, nelle sue teorizzazioni più radicali, a conclusioni che, se generalizzate, risultano inaccettabili [5]. Quali sono quindi gli spunti offerti dal Giusrealismo che è corretto considerare a base della nostra riflessione?
Il Realismo Giuridico, certamente, esprime un ancora diffuso sentimento di avversità nei confronti di un rigido formalismo ma, soprattutto, di quel prodotto più importante dello stesso che è il principio della completezza dell’ordinamento giuridico, secondo il quale l’ordinamento giuridico è completo (e non richiede alcuna forma di integrazione, neppure giurisprudenziale) in quanto formato solamente dalle norme positive di provenienza statale e, sol per questo, ritenute giuridiche. Richiamo – a tal proposito – alla memoria le aporie, ben evidenziate da Francesco Gentile anche nella sua ultima opera Filosofia del Diritto Le lezioni del quarantesimo anno [6], in cui incorrono le tesi formalistiche, nello sviluppo delle loro teorie, dovute essenzialmente alla propria originaria matrice scientifica e conseguentemente ipotetica.
Certamente spunto molto interessante è quello offerto dal Giurealismo, laddove svolge un costante e deciso richiamo alla vitalità del diritto che, per dirla con Pound, non è solamente quello racchiuso in polverosi codici ma è quello che quotidianamente deve trovare applicazione negli agoni dei Tribunali, che quotidianamente deve scontrarsi con le difficoltà di una burocrazia sempre più imperante, che quotidianamente deve essere applicato a una pulsante e variegata vita della società, in costante, rapida e a volte imprevedibile evoluzione e che deve essere applicata da giudici che, in quanto uomini, possono fallire, o lasciarsi, a volte e, per fortuna, non spesso, condizionare (anche in modo determinante) da elementi contingenti o personali.
Certamente importante, per non dire decisivo, è il richiamo del giusrealismo relativamente all’importante e vitale contributo che quotidianamente la Giurisprudenza offre all’evoluzione del contenuto del diritto.
Inutile dire che un semplice e persino banale sguardo della quotidiana realtà dell’applicazione del diritto non può non evidenziare che la norma giuridica positiva, anche per il semplice fatto di essere previsione generale e astratta da applicarsi ad un numero indefinito e imprevedibile di casi concreti, non possa essere applicata meccanicamente (con una sorta di sillogismo processuale) ma richieda un opera di adattamento e interpretazione, per certi versi e in una certa qual misura, creativa. Osservazione semplice e della quale hanno preso coscienza, cercando di darne risposta, anche se in modo non convincente, gli stessi formalisti; pensiamo ad Hobbes il quale, resosi conto che la legge, il comando del sovrano ossia, per dirla con Bodin, di colui che non dipende altro che dalla propria spada, deve comunque essere applicato in un Tribunale in un caso concreto e che in quel momento necessariamente vi è una attività in qualche modo creatrice di diritto, cercava di dare coerenza alle sue tesi, assumendo che i Giudici, in quanto nominati dal Sovrano, erano il Sovrano stesso (lo sostituivano su sua delega) nel momento in cui giudicavano [7]. Ma ricorderei che, quanto meno nel sistema giuridico italiano, esistono delle pronunce della Corte Costituzionale, del Giudice delle leggi, così chiamato perchè deve valutare la legittimità costituzionale delle fonti primarie, che vengono definite “addittive”, ossia interpretative della legge esistente ed integrative del dettato normativo laddove si riscontri una lacunosa (e per questo incostituzionale) carenza normativa [8].Se questi spunti forniti dal Giusrealismo sono certamente utili, non è possibile condividere le estreme conclusioni a cui giungono gli autori ricordati; in particolare la considerazione secondo la quale la certezza del diritto finirebbe per scomparire nelle nebbie dell’insicurezza imputabile all’imprevedibilità delle decisioni giudiziarie; non mi sento di poter condividere l’assunto di un Frank il quale giunge a ritenere che le decisioni giurisprudenziali sono sostanzialmente imprevedibili in quanto non frutto di ragionamento (e quindi in quanto tale condivisibile e comprensibile) ma di semplici intuizioni.
Per tornare all’inizio del mio intervento e cercare di dare quindi risposta a quel giovane praticante avvocato e alle sue domande, oltre a tener ben presente le considerazioni appena evidenziate del giusrealismo, riterrei necessario sottolineare come spesso le tesi evidenziate siano accettabili nel loro nucleo principale, ed anzi siano un interessante e utile stimolo alla riflessione sulla possibile individuazione della verità processuale nelle aule dei Tribunali, ma debbano essere disattese nelle loro conclusioni più estreme, di natura quasi nichilista.