La laicità nell’esperienza politico-giuridica
di Francesco Gentile

20 Potrebbe essere interessante, a tale proposito, leggere quanto ha scritto Joseph Ratzinger a proposito del rapporto tra religione e politica in Agostino, polemizzando con von Harnack e von Kienitz. “Del tutto in antitesi con il punto di vista di Ottato, Agostino ha praticamente preso come base la situazione della Chiesa delle catacombe quando ha progettato la sua determinazione del rapporto tra Chiesa e stato. La Chiesa non appare ancora per nulla come elemento attivo in questo rapporto, l’idea di una cristianizzazione dello stato e del mondo non appartiene decisamente ai punti programmatici di sant’Agostino. Perciò Harnack non comprende affatto l’intenzione del nostro dottore della Chiesa quando afferma: ‘Alla considerazione dello stato egli ha anche data l’applicazione che siccome la pax terrena sarebbe un bene … una comunità che la difende (lo stato) sarebbe buona. Siccome però la pax terrena può nascere solo dalla giustizia e questa indubitabilmente è in possesso solo della Chiesa …, lo stato può conseguire un relativo diritto mediante alla subordinazione allo stato di Dio’. Di subordinazione dello stato alla Chiesa non si può parlare in nessun passo di Agostino; tutto è una combinazione di Harnack, non di Agostino. Invece egli è del tutto nella linea della dottrina del nostro padre della Chiesa quando esprime l’opinione che un cristiano in qualsiasi posizione si trovi, non escluso l’imperatore cristiano, sia tenuto alla tolleranza anche verso la specie di stato più depravata e che non da ultimo mediante questa tolleranza il cristiano si guadagni il suo posto nello stato degli angeli. Però è perciò nuovamente errato quanto Kienitz, spiegando questa frase, pensa: “Egli (cioè Agostino) è autoritario, conservatore, legittimista, fedele e leale allo stato fino all’estremo, genuino rappresentante dell’antica Chiesa di stato che dopo la sua vittoria sul paganesimo si è legata con il dispotismo imperiale per il bene e per il male ..’. È esatto il contrario. Precisamente queste frasi mostrano che Agostino non ha stretto nessun intimo patto con lo stato, besì che gli si è opposto assumendo quel comportamento che era eredità dei cristiani delle origini: sopportarlo pazientemente così come esso è, non tentare di mutarlo, poiché è al di fuori delle possibilità cristiane” (J. RATZINGER, Volk und Haus Gottes in Augustin Lehre von der Kirche, tr. it. di A. Dusini, Jaka Book ed., Milano 2005², pp. 313-314). Altra questione ancora, tuttavia interessante il tema di cui trattiamo, è quella della “ideologia della totale sostituzione della Chiesa allo Stato” su cui Paola Maria Arcari ha scritto pagine penetrantissime. “Negli ultimi secoli dell’Impero vie era stata una ripresa di quella polemica antistatale ed antiromana che era stata tipica della patristica apologetica, di cui la ragione non era più da ricercarsi nelle persecuzioni, finite da secoli, ma nella fragilità degli elementi dottrinari, direi, – scrive l’Arcari –, nell’equivoco teorico su cui poggiava l’impero romano-cristiano. Più che l’Impero era stato riconosciuto l’imperatore, al cui potere non si dava un fondamento razionale ma provvidenzialistico, facendolo discendere unicamente dall’arbitrio divino che si manifestava nella potenza stessa dell’imperatore. Ne conseguì che il valore ideologico dell’Impero declinò col declinare della sua potenza storica. Tolto di mezzo l’impedimento rappresentato da Cesare, come messo o vicario divino, si ebbe un vigoroso ritorno ad antichi miti. Il pensiero cristiano che appariva prima spezzato in periodo e dottrine diverse (l’apologetico, antignostico, il costantiniano e il gelasiano) sembrò ritrovare la propria unità nell’aperta proclamazione dell’ideologia della totale sostituzione della Chiesa allo Stato. Questa ideologia costituì il punto d’incontro di correnti diverse. Già negli ultimi secoli dell’impero ad essa erano acceduti i romani provinciali per giustificare se stessi dell’essere stati cittadini tiepidi e distratti, dell’aver disertato esercito e magistratura proprio nell’ora del pericolo. Con la caduta definitiva di Roma, l’ideologia della Chiesa-Stato divenne l’univa speranza anche per i romani-italici, più sensibili ai valori civili e politici: per consolarsi della perdita dell’impero essi avevano bisogno di credere che l’ora storica dello Stato fosse superata e Roma dovesse risorgere in una nuova forma. E’ questa forma che Gregorio III proclamava nell’asserzione: ‘in compage sanctae reipublicae atque in corpore Christi dilecti exercitus Romani annecti praecipit’ (..) Nei secoli anteriori alla caduta di Roma l’ideale della Chiesa-Stato si era andata profilando, soprattutto come un mito a cui non si chiedeva di indicare gli strumenti idonei alla propria realizzazione ma soltanto di promuovere una fede rivoluzionaria (..). Col suo elegante stile ciceroniano, san Gerolamo riassumeva questi motivi in un efficace parallelo: ‘ille (rex) enim nolentibus paeest, hic (episcopus) volentibus, ille terrore subicit, hic servitute dominatur; ille corpore custodit ad mortem, hic animas servat ad vitam’. Tali argomenti in parte riecheggiavano il concetto classico del buon governo, in parte erano ispirati all’ideale apostolico del primato del sacerdozio. Nel primo senso, il mito della Chiesa-Stato presentava caratteri comuni a tutte le ideologie politiche intese sempre a proclamare che esse solo sono idonee a promuovere la scelta dei migliori, ad assicurare la giustizia e la pace. Nel secondo, introduceva finalità ultraterrene con le quali le visioni laiche della repubblica non erano in grado di gareggiare. Poteva, infatti, essere contestabile che tutti capi laici comandassero ‘nolentibus’ e si impadronissero del potere ‘terrore’; si poteva opporre a san Gerolamo che lo Stato non si occupava solo dei corpi ma dell’uomo nella sua integrità materiale e spirituale; ma non si poteva però negare che lo Stato non era in grado di assumere impegni trascendenti. Sicché il passo di san Gerolamo resta, al fine del mondo antico, una tipica sintesi retorica della nuova ideologia” (P.M. ARCARI, Idee e sentimenti politici dell’Alto Medioevo,Giuffré ed., Milano., pp. 672-675).

21 Può essere illuminante a questo proposito quanto si legge nella prima lettera di Pietro: “E chi vi potrà fare del male, se sarete ferventi nel bene? E se anche doveste soffrire per la giustizia, beati voi! Non vi sgomentate per paura di loro, né vi turbate, ma adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi (1Pt 3, 13-16). Carissimi non siate sorpresi per l’incendio di persecuzione che si è acceso in mezzo a voi per provarvi, come se vi accadesse qualcosa di strano. Ma nella misura in cui partecipate alle sofferenze di Cristo, rallegratevi perché anche nella rivelazione della sua gloria possiate rallegrarvi ed esultare. Beati voi, che venite insultati per il nome di Cristo, perché lo Spirito della gloria e lo Spirito di Dio riposa su di voi.. Nessuno di voi abbia a soffrire come omicida o ladro o malfattore o delatore. Ma se uno soffre come cristiano, non ne arrossisca; glorifichi anzi Dio per questo nome” (1Pt 4, 12-16).

22 J. RATZINGER, Das neue Volk Gottes. Entwürfe zur Ecclesiologie, Queriniana ed., Brescia, 1992², p. 119. Scrive il teologo: “Se vogliamo giungere realmente al profondo della questione, dobbiamo partire da Cristo stesso, dal quale soltanto può derivare un ufficio cristiano, se deve essere ufficio legittimo. Il primo fatto significativo, nel quale qui ci imbattiamo. È che Cristo, su un piano di legge di religione, non fu sacerdote, ma laico. Guardando le cose nella prospettiva dell’ Israelita, egli non possedeva, giuridicamente, nessun ‘ufficio’. E tuttavia, egli non si intese come interprete di desideri e speranze umane, quasi una bocca del popolo, un suo segreto o aperto rappresentante; egli non intese la sua missione dal basso, in una specie di senso democratico. Egli si presentò invece alla gente con il ‘dovere’ di un incarico divino chiaramente delineato, con ‘potere’ e ‘missione’ dall’alto, come colui che il Padre ha mandato. Questa stessa struttura di incarico divino, che va testimoniato davanti gli uomini con potere in forza di una missione dall’alto, si prolunga al di là di Gesù nei discepoli, che egli coinvolge nel suo mandato, nel suo ‘dovere’: ‘Come il Padre ha mandato me, così io mando voi” (Gv 20-21; 17-18).

23 Il 14 marzo 1949, Opocher, nuovo titolare della cattedra di Filosofia del diritto, tenne nell’Aula E del Palazzo del Bo’, in Padova, la prolusione al suo insegnamento, trattando il tema: “Il diritto senza verità: la crisi della ideologia ‘laica’ nell’esperienza giuridica contemporanea”.

24 E. OPOCHER, Il diritto senza verità, in Scritti giuridici in onore di F. Carnelutti, Padova 1950, I, p.182.

25 Op. cit., p.181.

26 Ibid.

27 Op. cit., pp. 188-189. È interessante a questo proposito la garbata polemica che Opocher fa con Bobbio. “Un’antinomia invincibile (..) domina, lo si può ben dire, tutta la filosofia giuridica dell’ultimo cinquantennio. Non appena, infatti, i filosofi tentano di passare, com’è pur necessario, da una determinazione puramente formale della giustizia ad una determinazione contenutistica, la verità del diritto si vanifica tra le loro mani, si trasforma in un’affermazione puramente ideologica. Ciò che Bobbio va sostenendo sul contenuto ideologico della filosofia del diritto, anche se è, come io credo, molto discutibile sul piano generale, esprime indubbiamente in modo esatto la tragedia dei moderni filosofi del diritto, la tragedia di quei chierici che sentono come la verità giuridica, il valore giuridico, non possa, senza contraddire al suo stesso concetto, contrapporsi alla storia come una mera forma priva di contenuto, ma che, d’altra parte, non riescono a dare un contenuto a questa forma vuota, senza cadere in un’affermazione ideologica, ossia, in definitiva, senza sacrificare alle istanze della storia il concetto stesso di verità giuridica. Tipico, a questo riguardo, è il passaggio dalla filosofia del diritto neokantiana a quella idealistica e dall’idealistica alla marxistica. Quanto più si è sentita la necessità di dare un contenuto concreto alla verità giuridica e quindi di non opporla alla storia, tanto più l’affermazione di questa verità è andata trasformandosi in una mera affermazione ideologica” (Op. cit., pp. 184-185).

28 Op. cit., p. 189.

29 Op. cit., p. 190.

30 Ibidem.

31 Op. cit., p. 191.

32 Op. cit., p. 187. Si tratta dell’affermazione che si trova in GROZIO, De iure belli ac pacis, Prolegomena, § 11. Si veda in proposito quanto scrive F. TODESCAN, Etiamsi daremus. Studi sinfonici sul diritto naturale, Cedam, Padova, 2003.

33 Cfr. E. OPOCHER, Il diritto senza verità, cit., p. 187, dove si fa riferimento a THOMASIO, Fondamenta iuris naturae et gentium ex sensu communi deducta in quibus secernuntur principia honesti, iusti ac decori, L. I, C, VI, § XL-XLII. Si veda in proposito A. VILLANI, Christian Thomasius illuminista e pietista, Napoli, 1997.

34 Non rientra nell’economia di queste riflessioni sulla laicità nell’esperienza giuridica ritrovare in questo assunto groziano quella che è la premessa metodologica della scienza moderna quale formulata da Galileo Galiei, ossia il “non tentar le essenze”, per la quale, come ha acutamente osservato Werner Heisenberg, “l’atteggiamento umano verso la natura è mutato da contemplativo in pragmatico (noi preferiremmo dire: operativo). Non tanto ci si interessa alla natura come essa è, quanto ci si chiede piuttosto che cosa se ne possa fare. Per questo la scienza naturale si trasforma in scienza tecnica; ogni progresso conoscitivo viene legato al problema circa l’uso pratico che se ne può fare” (W. HEISENBERG, Physics and Philosophy (1958), tr. it. di Guido Gnoli, Milano, 1963, p. 193. Sarà Hobbes ad applicare alla giurisprudenza in maniera sistematica il metodo della geometria, facendone una vera e propria “geometria legale”. Cfr. in proposito il nostro Filosofia del diritto. Le lezioni del quarantesimo anno raccolte dagli allievi, Cedam, Padova, 2006, pp. 23 ss. nonché, a cura di M. Ayuso Torres, AA.VV., De la geometría legal-estatal al redescubrimiento del derecho y de la politica. Estudios en honor de Francesco Gentile, M. Pons ed., Madrid, 2006.

35 E. OPOCHER, Lo Stato e il problema della verità, in “Rivista di Filosofia”, XXXIX (1948), f.1, p. 7.

36 Ibidem.

37 Vedasi la nota 1.

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