La laicità nell’esperienza politico-giuridica
di Francesco Gentile

5. Tornando, per concludere, sulla laicità quale colta nella “rivoluzione” della teologia civilis che Costantino il Grande ha attuato col riconoscimento del diritto della divinitas ad essere adorata così com’essa vuole e, in termini strettamente giuridici, col riconoscimento del diritto dei singoli di professare la loro fede pubblicamente e comunitariamente, potremmo fissare l’attenzione su due polarità concettuali. Guardando alla laicità dal versante della politica è necessario avere consapevolezza, per usare le parole di Angelo Scola, che “la società civile ha sempre bisogno di darsi un’istanza superiore, mai sostitutiva ma regolativa (difensiva e promozionale) della sua vita di relazione, del suo fisiologico pluralismo, della sua dialettica storica” e che “tale istanza regolativa è modernamente lo stato”46. Ma, al contempo, è necessario avere consapevolezza che, per usare le parole di Joseph Ratzinger, “lo stato non è la totalità dell’esistenza umana e non abbraccia tutta la speranza umana. L’uomo e la sua speranza vanno oltre la realtà dello stato e oltre la sfera dell’azione politica. Ciò vale non solo per uno stato che si chiama Babilonia47, ma per ogni genere di stato. Lo stato non è la totalità (..) con la menzogna totalitaria diventa demoniaco e tirannico”48. Lo stato, infatti, in quanto unità di una molteplicità di soggetti, si costituisce per reciproca obbligazione dei suoi membri, per compromissum, in vista e in virtù di un bene che non è dato dalla rinuncia al bene particolare di ciascuno ma dal suo compimento attraverso la condivisione di qualcosa che è bene per tutti senza essere esclusivo di nessuno: il Bene comune. D’altra parte, tale Bene non si esaurisce in nessuno dei beni particolari che sono alla portata operativa dell’umano, il che tiene lontani da ogni velleitaria mitizzazione. E non v’è dubbio che “il primo servizio che la fede fa alla politica sia la liberazione dell’uomo dall’irrazionalità dei miti politici, che sono il vero rischio del nostro tempo. Essere sobri ed attuare ciò che è possibile, e non reclamare con il cuore in fiamme l’impossibile, è sempre stato difficile; la voce della ragione non è mai così forte come il grido irrazionale. Il grido che reclama le grandi cose ha la vibrazione del moralismo; limitarsi al possibile sembra invece una rinuncia alla passione morale. Ma la verità è che la morale politica consiste precisamente nella resistenza alla seduzione delle grandi parole con cui ci si fa gioco dell’umanità dell’uomo e delle sue possibilità. Non è morale il moralismo dell’avventura, che intende realizzare da sé le cose di Dio. Lo è invece la lealtà che accetta le misure dell’uomo e compie, entro queste misure, l’opera dell’uomo. Non l’assenza di ogni compromesso, ma il compromesso stesso è la vera morale della politica”49. L’autentica laicità dello stato e del diritto si manifesta, dunque, nella consapevolezza che non può darsi “fede politica”, non già nel senso che non vi possa essere una politica di uomini di fede, ma nel senso che la decisione politica e l’istituzione giuridica non possono costituire oggetto di fede senza che il piano si inclini sino al punto di ritenere che “lo Stato è la volontà universale, che è autocoscienza reale, universale: l’idea di Dio”. Col risultato, per continuare ad usare le parole di Hegel, al par. 124 della Filosofia del diritto, che “dai popoli anche l’essenza universale dello Stato viene adorata come un Dio”50. Sulle catastrofiche conseguenze di questa incongrua adorazione la storia, anche recente, è tragicamente testimone. Guardando alla laicità dal versante della fede è necessario avere consapevolezza, per utilizzare le precise affermazioni del Pontefice Benedetto, che “la Chiesa non può e non deve prendere nelle sue mani la battaglia politica per realizzare la società più giusta. Non può e non deve mettersi al posto dello Stato”51. “La Chiesa non è e non intende essere un agente politico”52. Ma soprattutto la Chiesa non ha né pretende esercitare sovranità: per essa unico Sovrano è Dio. Sicché è incongruo e disorientante intendere i suoi rapporti con lo stato nei termini della concorrenza nell’esercizio di sovranità53 e quello della laicità come un problema di non ingerenza tra “Sovrani”. Nel contempo però è necessario avere consapevolezza del compito pubblico proprio della chiesa, che “non può e non deve restare ai margini nella lotta per la giustizia” ma “deve inserirsi in essa per via dell’argomentazione razionale risvegliando le forze spirituali, senza le quali la giustizia, che sempre richiede anche rinunce, non può affermarsi e prosperare”54. Consapevolezza che la Chiesa “ha un interesse profondo per il bene della comunità politica, la cui anima è la giustizia , e le offre a un duplice livello il suo contributo specifico. La fede cristiana, infatti, purifica la ragione e l’aiuta ad essere meglio se stessa: con la sua dottrina sociale, argomentata a partire da ciò che è conforme alla natura d’ogni essere umano, la Chiesa contribuisce a far sì che ciò che è giusto possa essere riconosciuto e poi anche realizzato. A tal fine sono chiaramente indispensabili le energie morali e spirituali che consentano di anteporre le esigenze della giustizia agli interessi personali, o di una categoria sociale, o anche di uno Stato”55. Né la Chiesa, che “non domanda alcun privilegio per se stessa”, può sottrarsi all’impegno “di proclamare e difendere i diritti umani fondamentali, purtroppo ancora violati in diversi Paesi della terra, e di operare affinché siano riconosciuti diritti di tutta la persona umana alla vita, al nutrimento, a un tetto, al lavoro, all’assistenza sanitaria, alla protezione delle famiglia e alla promozione dello sviluppo sociale, nel rispetto della dignità dell’uomo e della donna, creati ad immagine di Dio”56. Per tutto questo il Pontefice Benedetto raccomanda ai “credenti, in particolare ai credenti in Cristo, di contribuire ad elaborare un concetto di laicità che, da una parte, riconosca a Dio e alla sua legge morale, a Cristo e alla sua Chiesa il posto che ad essi spetta nella vita umana, individuale e sociale, e, dall’altra, affermi e rispetti la ‘legittima autonomia delle realtà terrene’, intendendo con tale espressione, come ribadisce il Concilio Vaticano II, che ‘le cose terrene e le stesse società hanno leggi e valori propri, che l’uomo deve gradatamente scoprire, usare e ordinare’ (Gaudium et spes, 36). Tale autonomia è una ‘esigenza legittima, che non solo è postulata dagli uomini del nostro tempo, ma anche è conforme al volere del Creatore. Infatti, è dalla stessa loro condizione di creature che le cose tutte ricevono la propria consistenza, verità, bontà, le loro leggi proprie e il loro ordine; e tutto ciò l’uomo è tenuto a rispettare, riconoscendo le esigenze di metodo proprie di ogni singola scienza o arte’ (Ibid.)’”57.Che cos’è questa se non autentica laicità della chiesa? Per essa, infatti, non può darsi “fede istituzionale”, non già nel senso di escludere che l’istituzione possa costituire un utile e provvidenziale sussidio della fede, per questo la Chiesa è stata istituita da Cristo in persona, ma nel senso che non dall’istituzione può venire la salvezza dell’uomo ma dalla fede. La “storia enigmatica” della Legge, tra il Vecchio e il Nuovo Testamento, offre a Romano Guardini lo spunto per una riflessione folgorante. “La Legge doveva impossessarsi del popolo a favore di Dio, attraverso ogni comandamento Dio voleva porre la mano su di esso – in verità però fu il popolo a prendere in possesso la Legge a proprio favore e a farne l’ossatura della propria esistenza. Dalla Legge trasse una pretesa di grandezza e dominio nel mondo, e incorporò Dio con la sua promessa in questa pretesa. Continuamente la volontà di imporre la Legge da parte dei sacerdoti e degli scribi si oppose alla libertà di Dio”58. A questo si aggiunse l’ipocrisia della coscienziosità altamente sviluppata all’esterno mentre all’interno il cuore diventava sempre più duro; all’esterno fedeltà alla Legge, all’interno peccato. “In questo si è compiuto uno spaventoso stravolgimento del divino – quanto sia orribile, può emergere dalla sola frase che i farisei opposero al giudice supremo, il procuratore romano Pilato, quando questi, per sentimento naturale del diritto, dichiarò che non trovava alcuna colpa nell’accusato: ‘Noi abbiamo una Legge, e secondo questa Legge egli deve morire’ (Gv 19, 6-7). La Legge data da Dio è stata così infernalmente stravolta, che secondo essa il Figlio di Dio dovette morire!” 59. Non si deve, tuttavia, credere che al pericolo di questo stravolgimento fosse e sia esposto solo Israele. Il teologo è particolarmente puntuale nel denunciare che “non appena sussistono una gerarchia degli uffici e delle facoltà, della tradizione e del diritto, sorge il pericolo di vedere il regno di Dio già nell’autorità e nell’obbedienza stessa. Non appena sono fissate norme nell’ambito del sacro e si pongono separazioni tra diritto e non-diritto, sorge il pericolo di appoggiarsi su tale impostazione per mettere le mani alla libertà di Dio e per imprigionare nel diritto ciò che viene solo dalla sua grazia”60. Se non interviene una concezione laica della giuridicità “dappertutto là dove nell’ambito della verità santa viene pronunciato un deciso ‘si’ e ‘no’, dove vigono forma oggettiva del culto, ordine e autorità, sorge anche il rischio della ‘Legge’ e del ‘fariseo’. Il pericolo di prendere l’esterno per l’interiore; il pericolo della contraddizione tra l’orientamento intenzionale e la parola; il pericolo di muovere da ciò che è in vigore ed è di diritto per mettere le mani sulla libertà di Dio61. (..) La storia della Legge – conclude Guardini – è un grande monito. Il sacro, che veniva da Dio, è stato reso uno strumento di perdizione. Quando Rivelazione espressa, ordinamento positivo dell’esistenza derivanti da Dio sono oggetto di fede, si instaura di nuovo questa possibilità. E bene per il credente saperlo, affinché nel Secondo Patto egli rimanga garantito di fronte al destino del Primo”62. Dalla teologia cristiana abbiamo così un’ulteriore lezione sull’autentico significato della laicità, con l’indicazione della sua distanza ma sarebbe meglio dire della sua antitesi al fariseismo, la forma più radicale e vuota di formalismo degli apparati. Mi ritornano in mente a questo proposito, luminose e incoraggianti, le parole del Teologo: “Dio ha nel mondo tanto potere, quanto ne hanno la verità e l’amore”63. Sono parole che risultano tanto più illuminante se si considera la circostanza e l’uditorio cui erano rivolte: nel 1985 nelle Hofkirche di Dresda ai partecipati all’Incontro dei Cattolici dell’allora Germania dell’Est, dove il potere comunista relegava nello strettissimo e vessato spazio del privato il diritto di Dio ad essere adorato. Difendere il diritto pubblico della divinità ad essere adorata così com’essa vuole significa affermare in questo mondo il Regno di Dio, che non è di questo mondo, “se il mio regno fosse di questo mondo i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù” (Gv 18, 36), laicamente spendendosi in questo mondo per la verità, “Tu lo dici, io sono re, Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce” (Gv 18, 37). E proprio rispetto al questa laicità risultano suggestivi due mutamenti di atteggiamento che, altrimenti, parrebbero assurdi. Il mutamento di Pilato, il magistrato giuridicamente convinto della innocenza di Cristo, “Io non trovo in lui nessuna colpa (Gv 18, 38 e 19, 6), ma pauroso di fronte alle conseguenza che il riconoscimento della verità potrebbe avere per la sua carriera nel mondo, “Se liberi costui, non sei amico di Cesare! Chiunque si fa re si mette contro Cesare” (Gv 19, 12) è la subdola minaccia dei farisei, che alla fine rinuncia alla verità, pur intravista, e si piega alla convenienza di questo mondo, “Disse loro Pilato: Metterò in croce il vostro re? Risposero i sommi sacerdoti: Non abbiamo altro re all’infuori di Cesare? Allora lo consegnò loro perché fosse crocifisso” (Gv 19, 15-16). Trionfo del fariseismo! E il mutamento degli apostoli, che da pavidi, spauriti, vigliacchi sino al rinnegamento, per non dire del tradimento di Giuda, di fronte a quello che si presentava agli occhi loro e dei contemporanei come uno scontro di potere mondano, “voi non capite nulla – aveva detto farisaicamente Caifa – e non considerate come sia meglio che muoia un solo uomo per il popolo e non perisca la nazione intera” (Gv 11, 49-50), diventano laicamente impavidi, franchi, coraggiosi sino al martirio, testimoni nel mondo della verità, sul Cristo, sulle sue parole, sulle sue opere, sulla sua promessa, tanto da indurre al dubbio persino un fariseo, Gamalièle,: “Non occupatevi di questi uomini e lasciateli andare. Se infatti questa teoria o questa attività è di origine umana, verrà distrutta, ma se essa viene da Dio, non riuscirete a sconfiggerli; non vi accada di trovarvi a combattere contro Dio” ( At 5, 38-39). Trionfo della laicità!

Pages 1 2 3 4 5 6 7