La laicità nell’esperienza politico-giuridica
di Francesco Gentile
3. Verso la fine del III secolo l’orizzonte politico, su cui già si stanno addensando le nubi della crisi dell’impero, è segnato dall’affermarsi della ricerca di una divinità a cui affidarne le sorti, la scelta “dell’alleanza col dio più forte”12, formulata in maniera diversa ma sempre molto pressante da Aureliano prima e Dioclesiano poi. Il summus deus cui il tetrarca Costanzo Cloro, padre di Costantino, tributerà il culto è il Sole. Si trattava di un’esigenza dettata certamente dalla “ragion di stato” ma in cui riaffiorava anche, dalla più antica tradizione religiosa romana, il concetto di pax deorum, pax divom. Ricorda Marta Sordi: “Cicerone, nella Pro Rubirio perduellionis reo (2, 5), ci conserva una solenne preghiera per ottenere la pax deorum, con la quale egli invoca da Giove Ottimo Massimo e da tutti gli altri dei e dee, “quorum opere et ausilio multo magis haec res publica quam ratione hominum et consilio gubernatur, pacem et veniam (…) ut hodiernum diem et ad huius salutem conservandam et ad rem publicam constituendam inluxisse patiantur”13. Il 28 ottobre del 312 si verifica un fatto sconvolgente: Costantino, vincitore di Massenzio a ponte Milvio, si rifiuta di salire in Campidoglio per ringraziare della vittoria Giove Ottimo Massimo. Non per un gesto antireligioso. Costantino, infatti, come personalmente confessò a Eusebio14 il suo biografo, “all’inizio della campagna contro Massenzio era preoccupato per le arti magiche a cui questi faceva ricorso ed era convinto che fosse impossibile affrontarlo senza l’aiuto divino; egli cercava un dio che lo aiutasse, consapevole che gli dei della tetrarchia, Giove ed Ercole, non erano stati capaci di aiutare Severo e Galerio contro lo stesso Massenzio e che solo suo padre, che aveva onorato per tutta la vita il dio sommo (tón ólon theón), lo aveva avuto custode del suo regno e alleato per sempre. Perciò aveva deciso di non perdere il tempo con gli dei vani e di onorare soltanto il dio di suo padre. (…) E mentre pregava gli apparve una visione straordinaria – una visione, avverte Eusebio, che ‘se mi fosse stata riferita da un altro e non da Costantino stesso non ci crederei’ -: egli disse di aver visto nel cielo, mentre il giorno stava declinando, al di sopra del sole, un trofeo della croce fatto di luce e una scritta su di esso che diceva ‘Con questo vinci’15. Sotto questa insegna maturò la sua vittoria. Non, dunque, per un gesto antireligioso Costantino si rifiutò di salire in Campidoglio a ringraziare della vittoria Giove Ottimo Massimo ma per una ragione insieme più profondamente religiosa e, oggi diremmo, originalmente laica. E mi spiego. In un panegirico pronunziato ufficialmente alla presenza dell’imperatore, a Treviri e a Autun nel 313, un anonimo retore esalta la vittoria su Massenzio e ne celebra l’origine divina. Ma quale dio e quale praesens maiestas ha spinto Costantino, si chiede il retore pagano, poiché i responsi degli aruspici erano contrari alla spedizione? L’Imperatore, è la risposta, ha un rapporto segreto con quella divina mens che, delegata la cura dei piccoli mortali diis minoribus, a lui solo si manifesta e lo ispira. Deus ille mundi creator et dominus (13, 2)16, che ha indotto Costantino, contro tutti i suggerimenti dei collaboratori, ad affrontare in campo aperto alle porte di Roma un avversario a cui la “mente divina” ha tolto il senno affinché fosse sconfitto e travolto dal sacro Tevere (16, 2; 18, 1). Il Panegirico termina con una bellissima preghiera al summe rerum sator “che volle avere tanti nomi quante sono le lingue dei popoli e di cui noi non possiamo sapere come egli stesso voglia essere chiamato, mens divina immanente al mondo o auctor extrinsecus, trascendente, di ogni movimento, potestà suprema al di sopra di tutti i cieli che dall’alto guarda tutta la sua creazione, affinché salvi Costantino e lo conservi con la sua dinastia al governo” (26, 1). C’è da riflettere su questa preghiera di un pagano! Evidente la profonda religiosità dell’atteggiamento dell’Imperatore, e del suo celebrante pagano, ma dove la laicità? Ebbene, Costantino, che ha posto la sua vittoria sotto l’insegna della Croce senza sapere bene che cosa questa rappresentasse, deciso tuttavia di non onorare nessun altro dio fuorché quello di cui aveva avuto straordinaria visione e informato che la Croce era il segno del Figlio unigenito dell’unico e solo Dio adorato dai cristiani, abbandona l’ottica della teologia civilis, della tradizionale religione civile, che gli avrebbe suggerito di sostituire il ringraziamento di Giove Ottimo Massimo, il dio risultato perdente, col ringraziamento del dio della Croce, nei fatti rivelatosi come quello vincente, per affermare come cosa giusta ed equa, e perciò solo autentico segno di gratitudine, il riconoscimento in termini rigorosamente giuridici del diritto che ha la divinitas ad essere adorata così com’essa vuole. Questa straordinaria “rivoluzione” viene istituzionalizzata nel cosiddetto editto di Milano17 che raccoglie e fissa l’accordo raggiunto nelle trattative tra Costantino e Licinio nell’incontro avvenuto, appunto, a Milano nel febbraio del 313. I due tetrarchi sopravvissuti alle guerre intestine della tetrarchia si incontrano per affrontare i massimi problemi politici dell’impero e giungono ad un compromesso, fra il paganesimo dell’uno, Licinio, e la nuova religiosità dell’altro, Costantino. Compromesso che fissa come prima decisione da prendere (in primis ordinanda) quella di sancire formalmente la divinitatis reverentia, affinché “qualsiasi divinità ci sia nella sede celeste, possa essere placata e propizia a noi e a tutti coloro che sono posti sotto il nostro potere”, e, sul diritto della divinitas d’essere adorata così come vuole, fondare per i singoli “la libera potestà di seguire la religione che ciascuno avesse voluto”. Viene capovolta in tal modo la concezione della tolleranza religiosa che i romani da sempre conoscevano, si pensi munifica fatta ai singoli, in privato, dalla clemenza del sovrano politico18, ma della logica e naturale conseguenza del riconoscimento pubblico del diritto della divinitas ad essere adorata così come vuole, operativamente esplicantesi nella libera potestas dei singoli di praticarne il culto. Si profila così l’immagine di uno stato che si definisce religioso e nel medesimo tempo si proclama aconfessionale o, come sarebbe più corretto dire, di uno stato che sulla base del riconoscimento del diritto della divinità d’essere adorata così come vuole e in nome della propria confessata incompetenza a decidere in quanto stato la natura teologica della divinità, il quicquid est divinitatis in sede celesti, sancisce la libertà di tutti, et christianis et omnibus liberam potestatem, di praticare pubblicamente il culto secondo la propria fede. “Nominando per primi i cristiani e isolandoli rispetto a tutti gli altri – afferma Marta Sordi – il cosiddetto editto di Milano toglie al paganesimo tradizionale il suo carattere di religione di stato e prepara il passaggio al cristianesimo come nuova religione dello stato romano”19. L’affermazione dell’illustre storica è del tutto convincente nella prima parte, poiché non c’è dubbio che almeno negli anni immediatamente successivi alla conversione del 312 quella di Costantino rimanga la tipica religiosità romana, strettamente collegata con gli interessi dello stato e dominata dall’obiettivo del ristabilimento della pax deorum, ma non nella seconda perché in nessun modo è possibile configurare tale pax, che peraltro sin dalla prime righe dell’editto è individuata col termine nuovo di pax divinitatis, come pax Christi, prefigurando una nuova religione di stato20. Quello che Costantino ha tagliato, con la sua decisione di non salire in Campidoglio per ringraziare Giove Ottimo Massimo e invece di istituzionalizzare formalmente il diritto della divinità ad essere adorata cosi com’essa vuole, è il cordone ombelicale tra politica e religione. E lo ha potuto utilmente fare perché la sua decisione non poggiava su di un razionalismo scettico o su di un moralismo agnostico ma sulla base dell’incontro con il Dio dei cristiani. Ecco perché .. et christianis et omnibus .., quasi che i cristiani non fossero compresi nell’omnibus!, perché in tanto è riconosciuta a tutti la libertà religiosa in quanto è per l’incontro con il Dio dai cristiani adorato, con una intensità sovrumana non piegata da innumerevoli terrificanti persecuzioni21, che è risultato necessario, giusto ed equo riconoscere il diritto della divinità ad essere adorata così com’essa vuole. Così si profilano i tratti della laicità dello stato, prefigurata dalla risposta di Gesù Cristo ai farisei, che per coglierlo in fallo gli avevano chiesto se fosse lecito o no pagare il tributo a Cesare, “Di chi è questa immagine e l’iscrizione?.. Di Cesare. .. Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio” (Mt 22, 17-20). Formula lapidaria di un laico, non possiamo dimenticare che Cristo”non fu sacerdote ma laico22, per invitare a non fare di Cesare un Dio e a non compromettere Dio con Cesare, cioè a non trascinare il nome di Dio nelle zone oscure dell’umano per nasconderne la sporcizia. “Il mio regno non è di questo mondo ..” (Gv 18, 36). È in questo contesto che matura l’idea di uno stato laico, aconfessionale ma non irreligioso, o meglio, aconfessionale perché rispettoso del diritto della divinità ad essere adorata cosi com’essa vuole.