Gli argomenti del giurista
tra «premesse» e «strategie» interpretative
di Federico Casa
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1.1 I problemi più significativi delle odierne dottrine e teorie dell’interpretazione; alcune notazioni di natura metodologica
Nella grande varietà di figure interpretative, l’interpretazione giuridica si distingue per essere al tempo stesso “actio interpretans” (interpretazione-attività)1 e “designatum” (interpretazione-prodotto)2, risultando oramai un dato non più discutibile nella dottrina giuridico-filosofica formatasi in tema d’interpretazione che ciò che caratterizza tali attività è determinato dall’oggetto3, dal risultato e dal metodo dell’interpretazione stessa4.Va subito chiarito con riferimento al tema dell’oggetto dell’interpretazione che in questa sede non è nostro intendimento affrontare lo spinoso problema se esso costituisca un dato prestabilito oppure se l’individuazione dello stesso sia l’effetto di un’attività già interpretativa5, né discutere, considerazioni che andrebbero svolte in via preliminare, alcune questioni, ancora irrisolte, poste da quel significativo movimento giuridico-filosofico che prende il nome di “realismo giuridico”6. Ai fini della presente ricerca ci basti solo evidenziare che accoglieremo la tesi proposta da autorevole dottrina dell’interpretazione7, secondo la quale l’oggetto dell’interpretazione è rappresentato da un testo giuridico8, normativo e autoritativo che sia, ossia una fonte del diritto.Molto più complesso, a nostro modo di vedere, deve essere il ragionamento da svolgersi con riferimento al metodo dell’interpretazione, che in ogni caso verrà compiutamente svolto infra, soprattutto per lo strettissimo legame che vi è tra la teoria generale del diritto, intesa come il risultato “classificatorio” della scienza giuridica e quindi la “sommatoria” delle varie dogmatiche, e l’attività interpretativa. Basti solo pensare che ormai più di cinquant’anni fa Enrico Opocher già afferma che «non v’è concezione della giurisprudenza che non implichi, a questo proposito, un’opzione esplicita od implicita tra l’alternativa della subordinazione di uno dei due momenti della giurisprudenza all’altro e quella (accolta per l’appunto anche da Bobbio) di una radicale separazione epistemologica tra l’attività del giurista in quanto interprete e l’attività del giurista in quanto teorico generale […]. Ma ciò non toglie che concretamente il giurista passi continuamente dall’interpretazione alla teoria generale del diritto e viceversa, e che perciò un giurista che in ipotesi, limitasse il suo lavoro alla sola interpretazione od alla sola teoria generale del diritto, non sarebbe più tale», cosicché da un lato «la teoria generale del diritto può essere strumento prezioso d’interpretazione, dall’altro, è essa stessa frutto del lavoro interpretativo, nel senso che nessuna teoria generale del diritto [intesa appunto come il risultato della scienza giuridica] può essere costruita senza un continuo riferimento al contenuto delle norme giuridiche», tanto che è senza dubbio possibile affermare che «il giurista, nel suo lavoro d’interprete, viene via via ponendo le premesse della teoria generale del diritto, la quale, appare, sotto questo profilo, come esplicazione sistematica delle figure logiche che il giurista, in sede interpretativa, individua entro le norme giuridiche»9. D’altro canto, lo stesso Enrico Paresce, studioso di formazione neo-idealista e autore più di vent’anni dopo della voce “Interpretazione” dell’Enciclopedia del diritto, seppur con connotazioni negative, evidenzia come ogni teoria dell’interpretazione finisce per essere influenzata dall’«interminabile e dispersiva polemica sulla scientificità della scienza giuridica», cosicché solo la consapevolezza che «l’esperienza giuridica, nella quale si rivela il fenomeno giuridico nella sua concreta dinamica è il risultato di un complesso iter, che dal dato legislativo o consuetudinario giunge alle nuove formulazioni attraverso l’interpretazione e l’utilizzazione giudiziale della sua parte formalizzata […] consente di superare le suggestioni di coloro che ripongono tutto il diritto nella forza logica espansiva interna al sistema e, coerentemente, nella norma astrattamente considerata, e finiscono per celebrarne la creatività della logica che permette, per la sua vantata forza espansiva, incrementi formali e millimetrici del diritto»10. Non diversa sarebbe stata la posizione in quegli stessi anni di Francesco Viola che a ragione con Giuseppe Zaccaria può oggi essere considerato uno degli esponenti più attenti della Scuola Ermeneutica italiana, il quale afferma non solo che «non vi è scienza del diritto al di fuori dell’opera del giurista interprete», tanto che l’interpretazione si può considerare come «il metodo proprio della scienza giuridica», ma anche, e su questo punto si concentrerà nel proseguo la nostra attenzione, che «l’interpretazione come metodo della scienza giuridica si atteggia in maniera diversa a seconda dei punti di riferimento dell’attività del giurista», cosicché «da questi punti di riferimento si trarranno regole apposite, punti di riferimento e regole costituiscono i vari criteri di d’interpretazione (teleologico, storico-evolutivo, sistematico etc.)»11. Risulta indiscutibilmente sancito lo strettissimo legame tra scienza giuridica e teoria dell’interpretazione (almeno scientifica), al punto tale che le difficoltà epistemologiche che concernono il tema dei rapporti tra l’oggetto e il metodo della scienza giuridica finiscono per dover essere affrontate, quasi negli stessi termini, da chi invece voglia delineare una compiuta teoria dell’interpretazione. D’altro canto, è proprio con i primi anni Ottanta che comincia a manifestarsi in Italia quella che ancora oggi è considerata la concezione più in voga dei rapporti tra l’oggetto e il metodo dell’attività interpretativa entrambi attinenti alla cosiddetta “interpretazione-attività”, secondo la quale l’oggetto dell’interpretazione coincide con enunciati che esprimono proposizioni normative nel senso di vere e proprie norme che regolano comportamenti oppure quali significati normativi di proposizioni che descrivono comportamenti effettivi in un dato contesto sociale. Proprio con riferimento al tema del metodo, risulta esemplare la relazione al XVI Congresso Nazionale della Società Italiana di Filosofia Giuridica e Politica del 1987, in cui è Letizia Gianformaggio a spiegare che «il campo d’indagine della metodologia dell’interpretazione giuridica è il contesto della giustificazione interpretativa del diritto»12, anche se, così cercando di prendere le distanze da una posizione irrimediabilmente scettica, «manca un criterio oggettivo per accettare un’interpretazione e respingerne un’altra» poiché «gli argomenti addotti dagli operatori giuridici in favore delle loro scelte interpretative hanno carattere non di argomenti logici, e quindi stringenti, ma piuttosto di argomenti retorici, come tali più o meno persuasivi in relazione all’uditorio e ad una varietà di circostanze»13. In altri termini, sembra di poter dire che la scelta del criterio interpretativo A oppure B, e quindi l’interpretazione di un determinata norma nel senso A1 oppure B1, dipende dal risultato che l’interprete intende ottenere. Non è chi non veda come il tema finisca per intrecciarsi, indissolubilmente, con quello dei rapporti (e della distinzione) tra interpretazione e applicazione del diritto, distinzione sulla quale come dicevamo gli studiosi si sono di recente particolarmente affaticati14, proprio nell’intento di chiarire come accanto ad un’attività interpretativa lato sensu scientifica o comunque governata dai canoni della logica formale e deduttiva, occorra individuare un’attività qualitativamente diversa nella quale la regolamentazione della fattispecie concreta pone in tutta la sua gravità il problema delle valutazioni meta-giuridiche che presiedono alla decisione giudiziale. Ed è pertanto solo apparente il convincimento che minori discussioni debba sollevare il tema del risultato dell’interpretazione, dal momento che esso è strettamente correlato al fine dell’interpretazione, il quale dipende dal ruolo sociale del soggetto che deve individuare la “regola di condotta”15 che determina i comportamenti, che lascia emergere la razionalità del volere giuridico, la saggezza nascosta della legge16. In altri termini, la discussione in ordine al risultato dell’attività interpretativa viene comunemente risolta attraverso l’individuazione del ruolo specifico nel quale agiscono i soggetti-interpreti, se solo si pensi che l’interpretazione viene definita autentica se è proposta dal legislatore e costituisce una nuova norma, è denominata scientifica quando l’interprete è giurista, è giudiziale quando il soggetto è giudice. Il tema del risultato dell’attività interpretativa e il ruolo dell’interprete all’interno dell’ordinamento giuridico sono stati utilizzati per riconoscere e approfondire la differenza tra il problema dell’interpretazione del diritto e quello della sua applicazione, l’uno strettamente correlato ai problemi della scienza giuridica, l’altro ai procedimenti intellettuali che informano la decisione giudiziale, distinta in due procedimenti operativi, ricognitivo il primo che in nulla differisce dall’interpretazione dottrinale, assiologicoimperativo il secondo, proprio perché «le irrefrenabili esigenze del fatto, sia pure entro i vincoli di disposizioni che vogliono contenerlo nel letto di Procuste della fattispecie astratta»17, finiscono per influenzare lo stesso processo di ricognizione18. Infatti, se è Hans Kelsen negli anni Sessanta del secolo scorso a chiarire che «nell’applicazione del diritto da parte di un organo giuridico l’interpretazione teorica del diritto da applicare si ricollega con un atto di volontà, in cui l’organo incaricato dell’applicazione del diritto compie una scelta fra le possibilità rilevate dall’interpretazione teorica, cosicché con questo atto si produce una norma di grado inferiore o si esegue un atto coercitivo previsto dalla norma da applicare; grazie a questo atto di volontà, l’interpretazione giuridica dell’organo che applica il diritto si distingue da ogni altra interpretazione, particolarmente dall’interpretazione del diritto da parte della scienza giuridica»19, così tematizzando la distinzione tra interpretazione autentica e interpretazione scientifica20, nei medesimi anni è lo stesso Herbert Hart a spiegare l’anno successivo come compito della scienza del diritto sia quello di delineare «l’area di significanza della norma», così da evidenziare i legami che intercorrono tra i «casi familiari» e i «casi-limite», tra «il cerchio di luce e la zona di penombra», al fine di comprendere che a seconda della diversa interpretazione proposta del medesimo termine, ne deriva una diversa soluzione del problema posto21, mentre le decisioni particolari spettano al giudice e non allo scienziato del diritto, il cui compito è quello di mostrare a quali condizioni una determinata scelta sia logica. Ed ancora. Se della distinzione tra interpretazione e applicazione del diritto negli anni Quaranta Francesco Carnelutti accentua l’aspetto processualistico22, Luigi Ferrajoli nel 1966 propone la distinzione a partire da una netta separazione degli universi di discorso entro i quali sisarebbero mosse tali diverse attività, cosicché l’«interpretazione dottrinale» dell’interprete «è sempre e solo conoscenza di norme, cioè delle proposizioni in lingua giuridica appartenenti al livello normativo sopraordinato all’esperienza di cui egli intende fornire la costruzione dommatica», mentre la cosiddetta «interpretazione operativa» «è sempre e solo interpretazione di concrete ed attuali esperienze, cioè comprensione del significato di queste quale si esprime nel linguaggio giuridico degli altri operatori (cioè dei soggetti con i quali l’interprete entra in rapporto), o, che è lo stesso, del significato che di esse è intelligibile in termini normativi»23, proprio perché «la norma giuridica, riferendosi a segni, – e non a stati di cose – è incapace di trovare un riferimento, sia pure indiretto, nei fatti empirici del mondo esterno»24. Il tema dei rapporti tra interpretazione e applicazione più di dieci anni dopo sarebbe stato ancora una volta affrontato con la consueta finezza da Giovanni Tarello25, il quale evidenzia che, se è pur vero che vi sarebbe una parziale coincidenza fra le aree semantiche dei due vocaboli, la distinzione affonda le radici in una lunga vicenda della cultura giuridica europea, ove si sono affermati due ordini di credenze: «a) che del diritto, e di un diritto vigente, possa darsi una conoscenza teoretica, cioè che un diritto possa conoscersi indipendentemente dall’utilizzazione e applicazione; b) che, però, un diritto, per essere applicato, debba prima o contestualmente essere conosciuto, cosicché «l’interpretazione del diritto [è] un sottoprodotto della “scienza” del diritto, e dall’altro lato la natura del soggetto interprete [è] irrilevante e il giudice quando applica diritto compie la stessa attività “intellettuale” che è in primo luogo propria della scienza del diritto». Tali «teorizzazioni [Hans Kelsen, Herbert Hart e Alf Ross] pongono l’accento sul fatto – continua Tarello – che le attività degli organi di applicazione del diritto sono attività creative di diritto nuovo e – in quanto attività creative – non riducibili a mero fenomeno intellettuale né a mera attribuzione di significato a documenti», cosicché «il collegamento visibile tra l’applicazione della legge e l’interpretazione della legge è – nelle organizzazioni moderne – costituito dalla motivazione, cui molti organi dell’applicazione sono tenuti»26. L’interesse non è quello di dimostrare come l’intera costruzione di Tarello risenta non poco della teorizzazione di Alf Ross, secondo il quale l’attività di applicazione è sempre creativa e risultato di decisione, cosicché il prodotto dell’applicazione è il «diritto valido» mentre i documenti normativi rilevano in quanto motivazione dell’attività di applicazione del diritto27, quanto piuttosto evidenziare, anche utilizzando almeno in parte la distinzione kelseniana tra interpretazione autentica e interpretazione scientifica, che oggi si tendono a tratteggiare due diversi fasi di attività interpretative: l’interpretazione che non produce immediati effetti giuridici né comunque prepara o giustifica un provvedimento (quella del giurista), e quella funzionalmente connessa all’assunzione di una decisione (quella del giudice, nettamente distinta da quella del giurista). Ne deriva che nella prima fase ci si deve occupare di individuare e descrivere le varie possibilità interpretative rientranti in uno medesimo schema normativo eventualmente suggerendo la soluzione assunta come preferibile, mentre nella seconda l’attenzione va posta sulle ragioni della scelta tra le diverse alternative indicate dalla scienza giuridica. In altri termini, e così avviandoci ad una prima interlocutoria conclusione, si può affermare che allo stato attuale nell’ambito delle dottrine sull’interpretazione giuridica due sono i grandi filoni di ricerca dei quali occorre dare conto: