SERGIO COTTA
di Francesco Gentile
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1. Che sia dell’uomo di ogni tempo essere inquieto dinnanzi alla complessità dell’esperienza è superfluo dire, né v’è da stupirsi che guerre, rivoluzioni, mutamenti sociali e di costume rendano ancor più incerta l’esistenza, “ma oggi non sono solo le situazioni e condizioni di vita ad apparire instabili, bensì anche le idee”. Così scriveva Sergio Cotta nel mezzo degli anni settanta del secolo scorso in un libretto, com’era nel suo stile, sconcertante e violentemente provocatorio, sin dal titolo: L’uomo tolemaico [1]. “Le filosofie si bruciano rapidamente; la stessa scienza è accusata, la sua proclamata neutralità e oggettività è sospettata come raffinata mascheratura ideologica; le fedi religiose sembrano perdere la loro universalità per divenire contingenti e chiudersi, e forse consumarsi, nell’effimera vita di conventicole particolari. Sono dunque i parametri del giudizio a vacillare e allora diventa davvero arduo padroneggiare quella instabilità degli accadimenti che (certo presente sempre nella storia) oggi è indiscutibilmente avvertita in maniera maggiore che nel passato” [2]. Moltiplicatasi in maniera frenetica l’attività trasformatrice dell’uomo, il ritmo della storia sembra aver subito un’accelerazione, e di riflesso alla “caduta dello stupore di fronte al nuovo” si accompagna la “crescita dell’impazienza se i risultati tardano a seguire lo sbrigliarsi delle fantasie” [3]. D’altra parte, assuefatto alle conquiste quotidiane della scienza, l’uomo come uscendo da un miraggio avverte quanto siano affaticanti a lungo andare i congegni predisposti nell’intento di alleviare le fatiche della vita, quanto soffocante sia l’organizzazione, logorante il tempo accelerato, quanto illusori risultino i benefici della macchina, e cerca in un mondo lontano, non ancora sfiorato dal progresso, lo spazio per illudersi di evadere. Allora si pensava alla Cina, e non solo nei films di Marco Belloccio o di Jean-Luc Godard!, come luogo incontaminato[4]. Un’ondata di pessimismo travolge ogni cosa e le stesse previsioni degli scienziati circa “i limiti dello sviluppo” finiscono per assumere il tono sconsolato d’una accettazione fatalistica del dato. A questa resa, venata di scetticismo, cui l’uomo contemporaneo sembra indotto dal “disincanto della tecnologia”, Cotta si ribella, così come s’era ribellato, con il saggio su La sfida tecnologica [5] di qualche anno prima, alla ottimistica e indiscriminata esaltazione della scienza. Non è con diversioni d’ordine sentimentale, ottimistiche o pessimistiche che siano, che è dato d’intendere le ragioni profonde dell’inquietudine e del disorientamento per gli esiti disumanizzanti della civiltà tecnologica! La tecnologia e il suo intento per la vita non possono essere assunti come un dato, devono essere intesi come un problema. Ed è intorno a questo problema che ruota l’intero saggio su L’uomo tolemaico.
2. Una serie di immagini parziali, e quindi solo parzialmente significative, corre il rischio di deviare l’attenzione da quello che è il nodo essenziale e caratterizzante la società tecnologica. Chi dice società opulenta, con espressione che sembra voler mettere in rialto la distanza tra una “massa immensa di poveri e un munsero ristrettissimo e chiuso di ricchi” dimentica come la nostra età sia invece “animata dall’esigenza della distribuzione e della redistibuzione”[6]. Chi dice società dello spreco dà l’impressione di non considerare la tendenza dissusa e lo studio accanito volti alla “riutilizzazione a catena dei materiali usati”[7]. Chi dice società repressiva difficilmente può spiegare “i molti atteggiamenti moralmente permissivi” seguiti al “generalizzato quanto semplicistico ripudio della morale vittoriana” [8]. Chi ancora dice società guerresca e autoritaria, ossia imperniata sul potere, non considera che “proprio il passato è stato dominato dalla convinzione della fatalità della guerra, mentre dalla rivoluzione francese in poi si è installato nell’orizzonte culturale il sogno dell’ultima guerra e di una umanità per sempre pacificata”[9]. In realtà tali immagini, pur essendo in parte veritiere, nella misura in cui tendono a far apparire l’attuale civiltà come un tutto nuovo finiscono per non rendere ragione o almeno per non illuminare adeguatamente il fatto che in essa, come in ogni altra, si manifestano attitudini e aspirazioni dell’uomo in quanto tale e quindi a lui proprie in ogni tempo, anche se in altri tempi rimaste in ombra. “Se la civiltà tecnologica è sotto accusa – afferma Cotta – la ricerca delle responsabilità deve risalire a ciò che il proprio, il nucleo originante di questa civiltà: la Tecnica”[10], intendendo con questo mettere in evidenza “una mentalità, un modo di essere e pensare prima ancora di produrre e fabbricare (…) La mentalità che guarda alle cose sotto il profilo esclusivo del discontinuo, che permette di scomporle e ricomporle, come notava Bergson; secondo il criterio dominante dell’utilizzazione e del calcolo, per dirla con Heidegger, e quindi la manipolazione utilitaria” [11]. L’aspetto più tipico di questa mentalità, invero, sta nel riconoscimento e nella esaltazione di quella che chiameremmo la struttura operativa della scienza. più puntuale che in altri, Nel nostro tempo cioè, in maniera più puntuale che in altri, s’è scoperto fra scienza, tecnica e produzione un rapporto continuo che viene da Cotta definito di “iterazione propulsiva”, una forma di “inscindibilità per interazione”, indipendente dalle intenzioni soggettive dei singoli operatori e in tal senso oggettiva [12]; un rapporto per il quale il valore del sapere è tutto riposto nelle operazioni da esso consentite, e il sapere stesso si configura come operazione. Scoperta è quindi l’intima connessione esistente tra scienza e bisogni umani; una connessione tutta via tipica nella sua struttura, per la quale il bisogno, stimolo e direttrice della ricerca scientifica, da questa alla fine non è tolto ma moltiplicato, sostituito cioè dai molti bisogni degli strumenti atti a soddisfare il bisogno primitivo o elementare. E così all’infinito, in un vortice travolgente. Innegabile allora è la tendenza della mentalità tecnologica ad un allargamento delle conoscenze, ad una più generale fruizione del benessere, ad una diffusione dei sistemi sociali di previdenza e assistenza, in breve ad un accentuato impegno ad “essere-per-la-vita”. Ma innegabile è altresì il fatto che la vita al presente, e in una prospettiva operativa la vita si riduce al presente, “ha valore solo nella misura in cui consente di immaginare il futuro e di proiettarvi le speranze umane. Per questo, mai come oggi – sottolinea Cotta – si è tanto impazienti e scontenti del presente: perché non è ancora ciò che ormai ci si aspetta con sicurezza dal futuro incombente. E’ questo (…) non solo l’obiettivo da raggiungere (il semplice a-venire) ma anche il criterio di valore che guida e regola i comportamenti e l’operare (il futuro come il meglio)”[13] Per questo ogni ombra che si addensa sul futuro appare destinata non solo a togliere la speranza in ciò che deve essere nel futuro, e che quindi non è ancora, ma anche e soprattutto svuotare di ogni valore ciò che è attualmente, nel presente. Si giunge così al punto cruciale del problema, acquattato sotto la dimensione psicologica dell’impazienza e dello scontento. “Sembra un paradosso: la civiltà tecnologica, che se ha un senso proprio è di vita, se offre una testimonianza e un messaggio sono di speranza e di volontà di vita, ha riproposto con inaspettata violenza il tema della morte” [14]. Invero nel drammatico succedersi di una guerra all’altra, nella minaccia atomica incombente, il riapparire della morte incide sull’uomo dell’età tecnologica non solo a livello “fisico”, come la paura per la fine di un mondo, ma a livello “metafisico” poiché vanifica ogni ragione attuale dell’esistenza che, in quanto debitrice della sua ragion d’essere nei confronti di un futuro di morte, finisce per rimanere, essa stessa, già tuta coinvolta nella morte. Ne costituisce ulteriore proca il diffondersi della violenza: segno scoperto del disorientamento e della paura che neppure gli espedienti predisposti dalla mentalità tecnologica per controllare il terrore bellico riescono a dissolvere. “Proprio la situazione tecnologica – scrive Cotta riprendendo osservazioni di Ellul e di Mathieu intorno alla rivoluzione – ha restituito attualità alla guerriglia, poiché da un lato ha reso praticamente impossibile la guerra totale, e perciò mai definitiva (e quindi deludente) la guerra convenzionale; dall’altro lato ha determinato lo scadimento del tono rivoluzionario delle Potenze socialiste. Ma la guerriglia comporta un tasso di violenza personale, interiore e psicologica, che la guerra ignora. Nella guerriglia il nemico è dovunque e può essere chiunque, anche un bambino ignaro della bomba o del messaggio che porta. (…) Nel terrorismo politico questi aspetti si esasperano, se possibile, ancora. Dalla sua mappa scompaiono le figure dell’innocente e del neutrale, anzi proprio questi diventano i bersagli più interessanti e redditizi”[15]. Un nuovo spettro infine si aggira sul mondo e turba tanto la compiaciuta sicurezza quanto la fiduciosa speranza nella sovranità tecnologica dell’uomo: l’incubo ecologico. “tutto ciò che è utilizzabile dalla tecnologia come strumento per assicurare l’espansione (in tutti i sensi) della vita, si rivela, si è già rivelato, strumento al tempo stesso di degradazione, o di accelerazione della degradazione, ecologica. Ossia di morte. Ma vi è di più. Questo effetto ambivalente non consegue soltanto all’adozione di certe tecniche applicative o all’utilizzazione di taluni strumenti. Bensì è insito, più radicalmente, nell’intero disegno o progetto tecnologico” [16]. Ma perché la natura, madre fertile e generosa, resiste e si ribella all’uomo, la più meravigliosa delle sue creature? Nella risposta a questo quesito sta ogni residua possibilità di salvezza.