L’aporia della statualità
quale fondamento dell’emersione giuridica della società civile [1]
di Lucio Franzese
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1. — In un tempo in cui, come sottolinea Paolo Grossi denunciando le Mitologie giuridiche della modernità (Milano 2001, p. 76), la “legge ordinaria è visibilmente in crisi per la sua incapacità a ordinare giuridicamente la società civile e soprattutto a governare il mutamento socio-economico che stiamo vivendo e ancor più vivremo domani”, si apprezza l’importanza di un libro che tematizza l’autoorganizzazione della società civile, considerata nella sua dimensione economica, il mercato, e in quella sociale, i servizi alla persona. Un libro, per di più, controcorrente: lo testimonia la riflessione condotta qualche anno fa da Natalino Irti sulla Società civile — Elementi per un’analisi di diritto privato (Milano 1992) tutta incentrata sulla separatezza tra produzione e imputazione normativa, e da cui si ritraeva l’immagine di una società assoggettata all’eteronomia della legge. “Libertà e autonomie, agire lecito e posizione di fattispecie, — scriveva il teorico dell’età della decodificazione — riempiono il territorio dei contegni giuridicamente rilevanti. La legge statale è fonte delle une e delle altre, ne determina la misura, ne stabilisce limiti e modalità di esercizio. La libertà, di che discorriamo, è libertà ‘di diritto’; l’autonomia è autonomia derivata, ovvero, più rigorosamente, eteronomia. La giuridicità non è insita in queste figure, che tutte la ripetono dalle norme superiori dello Stato. Invocare più ampie libertà significa chiedere e promuovere nuove leggi” (Op. cit., pp. 131-132). Venendo ai nostri giorni, fresco di stampa è Il mercato d’azzardo (Milano 2008) con cui Guido Rossi conclude la sua trilogia sulla crisi del capitalismo, imputando all’autoregolamentazione, cioè all’autonomia statutaria, ai codici etici, ai patti parasociali e, più in generale, alla corporate governance, la sostanziale anomia del mondo finanziario, di cui sarebbe espressione “un mercato totalmente deregolato come unica fonte non solo del benessere sociale, ma anche del diritto, come motore della politica, insomma come unica alternativa liberale, democratica e moderna a modelli immancabilmente bollati come ideologici, antistorici e dirigistici” (Op. cit., p. 13). In tale rappresentazione del rapporto tra fenomeno economico e istituzioni giuridiche la nuova lex mercatoria, il diritto contrattualmente elaborato dagli stessi agenti negoziali ed applicato nel mercato globale, sarebbe “solo la copertura, nemmeno troppo efficace, di un diritto del più forte apertamente contrapposto a quello dello Stato e dei legislatori, che appare ormai l’estrema riserva Apache del diritto propriamente inteso” (Op. cit., p. 89).
2. — Il libro che presentiamo sembra offrire un valido criterio euristico della nostra esperienza giuridica, dando ragione, in particolare, della discontinuità rispetto alla società amministrata nella quale eravamo costretti, almeno fino a tre lustri fa, sia nel campo economico sia in quello sociale. Per un verso, l’iniziativa economica era irreggimentata dalla panoplia dei provvedimenti amministrativi — atti di assenso variamente denominati, ovvero premi e incentivi a quanti si conformavano al potere decidente il cosa, quanto e come produrre; per l’altro, il welfare si identificava con l’agire pubblico, nel senso che un servizio era ritenuto corrispondente a un’esigenza sociale solo perché reso dallo Stato o da un ente pubblico e questo, si badi bene, a far data dalla nazionalizzazione delle Opere pie disposta con la cd. legge Crispi. Oggi il rapporto tra sfera economica e sfera giuridica sembra atteggiarsi diversamente, palesandosi un nuovo diritto dell’economia, che si origina dai processi autoregolamentari del mercato, emendati ed integrati qualora risultino lesivi della giustizia commutativa, cioè del proprio delle parti dell’operazione economica, ovvero di quella distributiva, del bene cioè dell’intera comunità. A tale prospettiva sembra riconducibile in primo luogo l’operato delle Autorità indipendenti che, stimolando l’instaurazione del contraddittorio tra gli agenti economici, agiscono sulla base degli assetti d’interessi raggiunti dagli stessi, controllandoli per evitare sperequazioni e orientandoli verso il bene comune; quindi la riforma del diritto societario, incentrata sull’autonomia negoziale degli imprenditori, per cui alla tipicità legale degli statuti si è sostituita quella sociale, in quanto elaborati e sedimentati nella prassi societaria stessa; ed infine la nuova legge fallimentare, che pone al centro della procedura esecutiva la possibilità di accordi tra debitore e creditori. L’esempio che mi sembra comunque più efficace a rappresentare il processo in atto è il passaggio dal sistema del CIP (Comitato interministeriale prezzi), per cui l’autorità in termini di ragion di Stato, senza alcuna considerazione alle ragioni di scambio delle parti, si sovrappone alle stesse imponendo i prezzi di beni e servizi, alla figura, proveniente dal diritto comunitario, del servizio universale, che obbliga l’imprenditore ad erogare un servizio, produrre un bene, anche se dal punto di vista economico non gli risulta conveniente ma è tale per lo sviluppo della vita comunitaria. Per quanto riguarda l’organizzazione dei servizi resi alla persona si è passati dal monopolio pubblico, in quanto la prestazione poteva essere resa solo dallo Stato, da un soggetto pubblico o da un loro concessionario, alla possibilità per singolo di intraprendere un’attività che sia diretta a soddisfare un’esigenza del consorzio umano, anche traendovi un profitto personale, dato che questo, di per sé, come messo in luce da Stefano Zamagni, non è incompatibile con la valenza sociale dell’azione esercitata.
3. — Opportunamente il libro di De Carli fa leva, nel cogliere l’autoorganizzazione della società civile, sulla figura del contratto, strumento di autodisciplina anche nell’ambito della gestione degli affari dell’intera comunità, ed è giustamente vigile sui rischi di un sua funzionalizzazione, che si verifica allorché alla parte pubblica vengono attribuiti poteri esorbitanti, per piegarlo alle sue esigenze. Ho però l’impressione che questo pericolo si sia materializzato nella disciplina della più celebre delle fattispecie contrattuali, quella che avrebbe dovuto rivoluzionare i rapporti tra cittadino e pubblica amministrazione, e da asimmetrici che erano renderli simmetrici. Mi riferisco all’art. 11 della legge 241 sul procedimento, che già nella sua formulazione originaria poneva la pubblica amministrazione in una posizione decisamente poco contrattuale, consentendole di recedere unilateralmente per sopravvenuti motivi di pubblico interesse, e che dalla novella del 2005 è stata munita della determina, un potere che sembra garantire l’eterodeterminazione di quello che ormai è solo un sedicente accordo tra cittadino e pubblica amministrazione. E’ nella dicotomia tra privato e pubblico che, a mio avviso, va ricercata la matrice di questa disciplina che sfigura irrimediabilmente la fisionomia contrattuale della fattispecie. Elaborate dalla scienza giuridica e politica moderna in un’ottica geometrica, procedendo cioè in modo ipotetico-deduttivo e con finalità operativa, queste categorie non sono rimaste nell’ambito del razionalismo giuridico, costituendo bensì le coordinate in cui si è sviluppato il disegno della nostra organizzazione giuridica, d’impronta chiaramente statalista. Come evidenziato dagli studi giusfilosofici di Francesco Gentile (Filosofia del diritto — Le lezioni del quarantesimo anno raccolte dagli allievi, Padova 2006), tendenti ad evidenziare la necessità di ricondurre il problema politico-giuridico sul terreno suo proprio che è quello della riflessione anipotetica e con finalità puramente conoscitiva, il privato indica nel pensiero giuridico moderno l’uomo convenzionalmente concepito come soggetto sregolato, incapace di relazionarsi all’altro, in quanto assunto ipoteticamente come avente il potere su tutto: insomma il suo prototipo è l’uomo del c.d. stato di natura; di qui la necessità di configurare una entità capace di creare l’ordine sovrapponendo la propria volontà a quella anarchica dei singoli. Nasce così, con la stipula del contratto sociale, la categoria del pubblico, cioè lo Stato concepito come entità sovrana, il quale grazie all’imperium crea ordine laddove c’è disordine determinato dall’agire dei privati. Per un uditorio così provveduto sarà sufficiente evocare la teorica del provvedimento amministrativo, quale atto unilaterale, autoritativo ed esecutorio, per cogliere il portato della concezione moderna del diritto che, dal postulato dell’incapacità dei singoli di relazionarsi, perviene a giustificare il diritto come tecnica del controllo sociale, volta ad ottenere la condotta desiderata mediante la minaccia di una sanzione, secondo l’icastica definizione kelseniana. Nel libro si fa riferimento, quale figura organizzativa scaturita dall’autodisciplina della società civile, alla recente normativa sull’impresa sociale. Anche in questo caso, a mio vedere, in ossequio alla dicotomia tra privato e pubblico, all’idea cioè dell’ambito individuale come caratterizzato dall’opportunismo dei singoli che solo l’intervento pubblico può neutralizzare assicurando così una pacifica convivenza, si è giunti all’aberrazione di vietare per legge all’impresa di distribuire utili ai propri soci, quale garanzia di perseguimento dell’interesse generale. I profitti personali vengono contrapposti al bene comune e solo l’assenza dei primi rende sociale l’impresa!
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