Il ruolo della filosofia nella formazione del giurista•
di Francesco Gentile
L’argomentare del giurista romano non è mai caratterizzato da una procedura astrattamente deduttiva ma sempre da una procedura dialettica a partire dall’esperienza dei casi concreti. Procedura dettata, prima che da un interesse operativo, da un autentico amore del sapere; non possiamo dimenticare il richiamo rivolto da Ulpiano ai giuristi affinché non dimentichino che la comunità li chiama sacerdoti della giustizia per molte ragioni, perché professano l’arte del buono e dell’equo, separano l’equo dall’iniquo, distinguono il lecito dall’illecito, mirano a rendere migliori gli uomini con il timore della pena ed anche con lo stimolo del premio, ma finalmente perché sono “veram nisi fallor philosophiam, non simulatam affectantes” (D. 1,1,1,1). Ed è proprio questa via, ad avere il coraggio di percorrerla compiutamente, che conduce il giurista a riconoscere che la ragione, derivata dalla natura delle cose e stimolante l’uomo ad agire in modo onesto, è legge. Legge “che non comincia già ad essere tale quando è scritta ma al momento in cui ha origine ed è nata insieme con la mente divina. Per la qual cosa – concludeva il giurista/filosofo – la vera e propria legge fondamentale è la retta ragione del sommo dio Giove che ha autorità di comandare e vietare” (De leg., II, 8).
Ma per questa via la porta si apre su di una nuova stanza, quella della “teodicea”.
La stanza della teodicea. Da questo punto il mio, ammesso che non lo sia stato sinora, sarà solo un balbettio. E tuttavia è un bisogno profondo e urgente quello che mi spinge a dire che la filosofia del diritto mancherebbe al suo ruolo nella formazione del giurista se non aprisse il discorso, dopo aver affrontato quelli della legalità e della giustizia, al tema della giustificazione. Quello che desidero mettere subito in chiaro è che, nonostante ne usi il nome, non penso alla teodicea al modo della famosa trattazione di Leibniz, come “giustificazione di Dio” attraverso una “formula logico-matematica”120. Non solo perché ritengo che il carattere convenzionale ed operativo della conoscenza matematica dovrebbe trattenere chi ne fosse criticamente consapevole da un simile tentativo ma perché, anche ad averne solo un’idea, Dio non ha bisogno di giustificazioni essendo Lui fonte di giustificazione. È Camus a dire che, una volta espulso Dio dall’ universo è nata l’ideologia tedesca “nella quale l’azione non è più perfezionamento ma pura conquista, cioè tirannia”! 121 . Penso alla Sapienza invocata da Salomone: “Essa protesse il padre del mondo, formato per primo da Dio, quando fu creato solo; poi lo liberò dalla sua caduta e gli diede la forza per dominare su tutte le cose. Ma un ingiusto, allontanandosi da essa nella sua collera, perì per il suo furore fratricida. A causa sua la terra fu sommersa, ma la sapienza di nuovo la salvò pilotando il giusto e per mezzo di un semplice legno”. E ancora “la sapienza liberò i suoi devoti dalle sofferenze”, “condusse per diritti sentieri il giusto in fuga dall’ira del fratello (..) gli diede la conoscenza delle cose sante; gli diede successo nelle sue fatiche e moltiplicò i frutti del suo lavoro (..) lo fece ricco; lo custodì dai nemici, lo protesse da chi lo insidiava, gli assegnò la vittoria in una lotta dura, perché sapesse che la pietà è più potente di tutto”. Penso all’invocazione: “E chi potrebbe domandarti: ‘Che hai fatto?’122, o chi potrebbe opporsi a una tua sentenza? Chi oserebbe accusarti per l’eliminazione di genti da te create? Chi si potrebbe costituire contro di te come difensore di uomini ingiusti? Non c’è Dio fuori di te, che abbia cura di tutte le cose (..)né un re né un tiranno potrebbe affrontarti in difesa di quelli che hai punito. Essendo giusto, governi tutto con giustizia.
(..) La tua forza infatti è principio di giustizia; il tuo dominio universale ti rende indulgente con tutti” (Sap 10 1s). Penso alla Lettera ai Romani di Paolo: “In virtù delle opere della legge nessun uomo sarà giustificato davanti a lui, perché per mezzo della legge si ha solo la conoscenza del peccato. Ora invece, indipendentemente dalla legge, si è manifestata la giustizia di Dio per mezzo della fede in Gesù Cristo, per tutti quelli che credono. E non c’è distinzione: tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù. (..) Togliamo dunque ogni valore alla legge mediante la fede? Nient’affatto, anzi confermiamo la legge” (Rm 3, 19-24 e 31).
Non posso negare d’aver subito la suggestione della massima di Ulpiano: “iuris prudentia est divinarum atque humanarum rerum notizia, iusti atque iniusti scientia” (D.1,1,10), .la cui sequenza, non casuale, mette in luce in modo inequivocabile come il discernimento (scientia) del giusto dall’ingiusto, che nella concreta esperienza della vita si presentano sempre confusi come il grano e la zizzania, possa per autorità operarsi solo sulla base della reale conoscenza (notitia) delle cose umane e di quelle divine. Tuttavia, come sempre, è una considerazione elementare, tratta dall’esperienza giuridica, quella che mi spinge su questa, non semplice, via. “Tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati. Non solo in base al loro sviluppo storico, poiché essi sono passati alla dottrina dello Stato dalla teologia, come ad esempio il Dio onnipotente che è divenuto l’onnipotente legislatore, ma anche nella loro struttura sistematica, la cui conoscenza è necessaria per una considerazione sociologica di questi concetti”123. L’affermazione di Carl Schmitt è perentoria ma non peregrina, se si considera che già Leibnitz, nella Nova Methodus discendae docendaeque jurisprudentiae, del 1667, affermava di avere trasferito il modello della ripartizione dell’opera “dalla teologia al diritto poiché – testualmente – l’analogia delle due discipline è straordinaria”. Ma anche se si considera che una puntuale esposizione delle analogie di questo tipo si trova nella giusfilosofia della controrivoluzione, nelle opere di de Bonald, De Maistre e Donoso Cortés, e che Max Weber, riconoscendo al diritto della Chiesa romana d’aver creato “come nessun altro diritto sacro un canone razionale”, affermava come incontestabile “il fatto che il diritto canonico sia divenuto per il diritto profano – noi oggi diremmo laico – addirittura una delle guide sulle vie della razionalità”.
Ora, se i concetti del moderno diritto pubblico sono concetti teologici secolarizzati, se il diritto laico ha seguito come modello sulla via della razionalità il diritto sacro, non potrà considerarsi strano o stravagante che nella formazione del giurista, laico e moderno, si trovi lo spazio per uno studio teologico del diritto. Ma non è questa se non una ragione accidentale della decisione di intraprendere questa fatica. Anche perché dalla polemica seguita alla prima pubblicazione della schmittiana Teologia politica, ad opera del teologo Erick Peterson, con il saggio Der Monoteismus als politiches Problem, del 1935, ma che poi si è andata arricchendo di nuovi interventi tanto da divenire una “leggenda scientifica” sino alla Politische Theologie II di Schmitt, del 1970, dalla polemica nessuna delle parti è uscita con argomenti del tutto convincenti: né quella che ritiene del tutto liquidata la teologia politica sulla base dell’assunto, questo certamente plausibile, che non sia possibile giustificare un regime politico con il dogma cristiano; né quella che ritiene plausibile una dottrina politica fondata sulla rivelazione in base all’assunto, questo certamente veritiero, che “la Chiesa di Cristo non è di questo mondo e della sua storia, ma è in questo mondo”. Più forti sono in tal senso gli stimoli che mi sono venuti dalla lettura del libro di Carlos J. Errázuriz M. su Il diritto e la giustizia nella chiesa, per una teoria fondamentale del diritto canonico124.
Non essendo io, ora, in grado se non di balbettare ma essendo irresistibilmente sollecitato a farlo, mi limiterò a suggerire tre spunti, uno relativo all’esperienza del giurista come advocatus, uno relativo all’esperienza del giurista come iuratus ed uno relativo alla legge nell’esperienza del giurista.
Sull’advocatus. Che cosa chiedono i litiganti al giurista chiamato, advocatus appunto, in aiuto? Non la complicità nel conflitto per il dominio, ché più conveniente sarebbe rivolgersi a un bandito, allo scopo di lui certo meglio attrezzato, ma il sostegno nel riconoscimento di un diritto. In realtà al giurista si chiede di “trasformare” il conflitto, sorto per la pretesa di dominio su di una cosa, in controversia ossia nel confronto dialettico delle ragioni che suffragano la richiesta di riconoscimento del diritto di una persona. Causa del conflitto il dominio; causa della controversia il riconoscimento. Oggetto del conflitto la cosa; oggetto della controversia il diritto della persona. In questo frangente la prudenza del giurista è chiamata ad operare, con intelligente avvertenza per la natura della cosa in questione quale solo una continua apertura al reale, resa possibile dalla capacità di prescindere da se stessi, una disponibilità a lasciarsi condurre di volta in volta dall’esperienza consente, come si legge nel passo famoso della Metafisica di Aristotele: “La cosa stessa fece loro strada e li costrinse a cercare” (Metaph., A., 984 a.). Ma anche con determinata volontà di ristabilire la relazione tra le persone questionanti. E a questo fine opera dialetticamente poiché la pretesa di ciascuno al suo diritto si configura e può essere sostenuta come domanda d’essere rispettato in ciò che lo diversifica personalmente dagli altri sulla base della disposizione con gli altri comune all’ordine per la quale è proprio dell’essere uomo riconoscere a ciascuno quello che gli spetta, ossia il suo diritto. Ora risulta chiaro che tutto questo è possibile solo a condizione che l’opera dell’ advocatus sia sorretta da una precisa disposizione alla tutela della relazione intersoggettiva, l’autentico bene da proteggere, e sia impegnata a condurre il litigante ad una vera e propria metánoia personale. Ora alcune considerazioni sulla metánoia125 del teologo Joseph Ratzinger, da Theologischer Prinzipienlehre. Bausteine zur Fundamentaltheologie, mi hanno suggerito una riflessione più approfondita per superare quanto di formalistico potrebbe rimanere nel concetto di “trasformare” il conflitto in controversia, stante che non si tratta di in una semplice metamorfosi ma di un radicale rinnovamento. Quali suggestioni ho creduto di poter trarre dal termine cristiano di metánoia relativamente all’opera del giurista di fronte alla lite per il cui superamento egli è stato professionalmente advocatus ? La prima è suggerita dall’idea di cambiamento di cui la metánoia cristiana è carica. La conversione, infatti, designa un movimento mediante il quale l’uomo si stacca dal proprio Io per poter accedere alla comunione con Dio, un movimento di rottura radicale per il quale sono necessari un coraggio ed una determinazione affatto particolari poiché il soggetto si trova a dover fare i conti, per così dire, con due forze di gravitazione, quella dell’interesse particolare, dell’egoismo individuale, e quella del bene in generale, della Verità e dell’Amore, e deve decidere di sottrarsi all’attrazione della prima per lasciarsi prendere totalmente dalla seconda. Ora, mutatis mutandis, nell’esperienza giuridica della controversia la situazione presenta delle singolari e suggestive analogie poiché chi vi accede, o come attore o come convenuto, uso i termini in senso lato e quindi atecnicamente, è inevitabilmente chiamato a confrontare le proprie ragioni, di parte, con le ragioni altrui, anch’esse di parte, nella prospettiva di attingere, da un confronto correttamente condotto secondo le regole dell’arte dialettica, la verità che è e non potrebbe non essere comune alle parti senza essere esclusiva di nessuna di esse. Tutto questo implica per chi accede alla controversia giuridica il coraggio di rompere con la particolarità della propria opinione per riconoscersi nella comunanza del vero; implica il coraggio di sottrarsi alla forza di gravitazione dell’egocentrismo individuale per lasciarsi attrarre dalla forza di gravitazione del bene comune. In altri termini implica una vera e propria conversione.