Il ruolo della filosofia nella formazione del giurista•
di Francesco Gentile
Sulla base di queste premesse politico-sociali l’ordinamento giuridico viene configurato come meccanismo assicurativo109, di cui la chiave è data dalla cosiddetta norma tecnica: “Se A allora B”. Dove A è la fattispecie astratta e B l’effetto giuridico. Un meccanismo molto semplice, o meglio semplificato, per cui al verificarsi d’una interferenza tra i comportamenti soggettivi, assimilabile o, come si dice tecnicamente, sussumibile in una delle fattispecie astratte convenzionalmente sancite, si fa corrispondere una sola reazione obbligata, prevedendo come dovuta per chi non vi si attenesse una sanzione. Non sfugge ad un’attenzione anche superficiale il risultato rassicurante di questo meccanismo, che all’infinita e incontrollabile serie degli esiti derivanti dalla relazione intersoggettiva sostituisce un solo esito giuridicamente governabile e controllato. Ma soprattutto risulta la sua vera natura. In effetti, mediante l’ordinamento giuridico delle condotte dei singoli soggetti, geometricamente concepito, non si evita l’interferenza degli appetiti individuali e quindi la conflittualità, cosa affatto impossibile stante la postulata gratuità delle motivazioni individuali e l’assenza di regole condivise nell’ipotetico stato di natura, ma si neutralizzano le conseguenze della relazione intersoggettiva, vero e proprio evento dannoso per l’uomo, da cui derivano, per continuare ad usare le espressioni hobbesiane, dispute, conflitti e infine guerra. In questa prospettiva i diritti soggettivi vengono configurandosi come un potere privato, relativo ma sicuro, come qualcosa che non è propria del soggetto in sé e per sé bensì come concessione munifica e graziosa del potere pubblico. E d’altra parte gli obblighi giuridici si configurano come un onere privato, nel senso che in sé e per sé il soggetto obbligato non è tenuto ad obbedire al precetto ma solo a subire la sanzione che il potere pubblico gli infliggerà in caso di disobbedienza110. Continuando a ragionare in termini di assicurazione, si potrebbe dire che gli obblighi giuridici corrispondono ai premi di assicurazione che il soggetto deve pagare per poter esercitare i diritti soggettivi, autentiche indennità assicurategli dal potere pubblico al verificarsi dell’evento dannoso ossia della relazione intersoggettiva.
Ora, per assicurare il funzionamento di questo meccanismo, rudimentale ma coerente ed estremamente efficace dal punto di vista operativo, la geometria legale deve postulare la sovranità del soggetto pubblico e la sudditanza dei soggetti privati. Sovrano il soggetto pubblico che, per usare le espressioni inequivocabili di Jean Bodin, “nulla riceve dagli altri” e “non dipende che dalla sua spada” (Six livres de la République). Suddito il soggetto privato che, per usare le espressioni terribili di Rousseau, in virtù del contratto sociale “non è niente, né può niente, se non mediante la collettività” (Du contrat social). Unica fonte dell’ordinamento delle relazioni intersoggettive la legge in quanto espressione della volontà sovrana, “questa voce celeste che detta a ciascun cittadino i precetti della ragione pubblica e gli insegna ad agire secondo le massime del suo giudizio e a non essere in contraddizione con se stesso” (Discours sur l’économie politique). Unica guida il legislatore il quale “deve sentirsi in grado di cambiare la natura umana, di trasformare ogni individuo, che per se stesso è un tutto perfetto e solitario, in una parte di un tutto più grande da cui l’individuo riceve, in qualche modo, la vita e l’essere (..). Bisogna, in una parola, che tolga all’uomo le forze che gli sono proprie per dargliene di estranee a lui, di cui non possa far uso se non col sussidio di altri. Quanto più queste forze naturali sono morte e annientate, quanto più le forze acquisite sono grandi e durevoli, tanto più solida e perfetta è l’istituzione”(Du contrat social).
Di questa operazione prometeica di controllo sociale l’operatore giuridico, in quanto applicatore della volontà legislativa, sarebbe il primo attore, essendo chiamato a qualificare giuridicamente i comportamenti individuali mediante il sillogismo giuridico di cui, come sostiene Kelsen, premessa maggiore è la Grundnorm: “Si deve obbedire al potere costituito ed effettivo” (Reine Rechtlehre). In tal modo all’universo conflittuale dello stato di natura egli sovrapporrebbe l’universo ordinato delle leggi. E di ciascuno, di cui nulla è realmente proprio, contribuirebbe a far riconoscere come suo quanto gli è virtualmente attribuito per le vie legali. Nonostante tante e tanto solenni dichiarazioni dei diritti umani111, sullo sfondo si profila la paradossale condizione di Joseph K., il protagonista del Processo di Kafka!
La stanza della dialettica giuridica. Di fronte a “l’eterno problema di ciò che sta dietro al diritto positivo (…) chi cerca ancora una risposta troverà non la verità assoluta di una metafisica né la giustizia assoluta di un diritto naturale. Chi alza quel velo senza chiudere gli occhi si vede fissare dallo sguardo sbarrato della testa di Gorgona del potere”112. Questa perentoria affermazione di Kelsen potrebbe essere letta come una cinica e arrogante riduzione della giuridicità a paramento del potere, come mascheramento formalistico della crudezza del dominio sotto l’apparente razionalità dell’argomentazione giuridica. Quanti operatori giuridici si riducono ad “enzimi” del potere? Ma potrebbe essere letta anche come l’incondizionata dichiarazione di resa del positivismo giuridico, costretto a gettare la spugna di fronte alla domanda di giustizia, da cui ogni giurista è investito e alla quale il geometra delle leggi non è in grado di rispondere! O forse, più semplicemente, da questa affermazione di Kelsen risulta che non si può eludere l’eterno problema di che cosa ci sia dietro alla volontà sovrana istituita mediante la legge sicché, quale che sia la risposta, fosse anche quella cinica del volto ghignante del potere, ciò che risulta incontrovertibilmente è che il diritto positivo, di per sé, chiede d’essere giustificato, chiede d’essere, per così dire, purificato dalla zavorra operativa, funzionale al puro potere, mediante il riconoscimento razionale di quanto è proprio dell’uomo, della sua dignità. Che cosa intende dire, infatti, Kelsen quando afferma che “la norma fondamentale significa (..), in un certo senso, la trasformazione del potere in diritto”(Die philosophischen Grundlagen der Naturrechtslehre und des Rechtspositivismus)? Chiedersi questo vuol dire alzare il velo sulle aporie della geometria legale, senza chiudere gli occhi, e per farlo sono necessari un abito radicalmente problematico, quale solo un autentico amore per il sapere (vera nisi fallor non simulata philosophia) è in grado di propiziare, ed una fedele applicazione della “buona regola secondo la quale di fronte a cose aventi tra loro alcunché di comune, non si smette di esaminarle prima d’aver distinto, nell’ambito di quella comunità, tutte le differenze che costituiscono le specie, e d’altra parte, di fronte alle differenze d’ogni sorta che si possono percepire in una moltitudine, non bisogna scoraggiarsi e distogliersene prima d’aver compreso, in una sola somiglianza, tutti i tratti di parentela che esse nascondono e di averli raccolti nell’essenza di un genere” (Polit. 285 a-b). Scoperta la definizione platonica di dialettica.
Proponendo la Grundnorm, oltre che come fattore unificante in un tutto ordinato dei molteplici e disordinati comandi della volontà sovrana, come fattore di trasformazione del potere in diritto, il geometra delle leggi riconosce implicitamente che il potere effettivo non è sufficiente a fondare l’obbligatorietà del diritto positivo. Peraltro anche esplicitamente, in un passo da Die philosophischen Grundlagen der Naturrechtslehre und des Rechtspositivismus, Kelsen esclude che “si possa considerare il diritto positivo come un mero complesso di fatti empirici e lo Stato come null’altro che un aggregato di rapporti di fatto tra forze“ (IV, B, c). Resta da intendere che cosa possa davvero trasformare il potere in diritto, stante l’evidente carattere sofistico della presupposizione della norma fondamentale. Non sfugge la fallacia di un fondamento per pura convenzione! Il fatto è che, predicando: “si deve obbedire al potere effettivo e costituito”, la Grundnorm fa leva sul senso del dovere radicato nella personalità di chi, mediante il sillogismo giuridico, qualifica come giuridico il comando del potere effettivo e costituito. Sicché a fondare l’ordinamento giuridico delle relazioni intersoggettive, oltre al potere del sovrano, sua conditio sine qua non, sta il senso del dovere del suddito, sua autentica conditio per quam. Tra la Sollnorm, il comando del soggetto pubblico del tutto equivalente a quello di ogni detentore di potere effettivo, anche a quello di un bandito, per l’assenza di ragione (Auctoritas non veritas facit legem), e la Soll-satz, ossia la regola di diritto autentica ragione dell’obbedienza, si colloca come operante la trasformazione il senso del dovere che contraddistingue nel profondo il soggetto umano. L’aporeticità della geometria legale potrebbe essere esplorata in tanti frangenti: nella trasformazione dell’homme in citoyen col sedersi in assemblea, predicato da Rousseau, oppure nella trasformazione dell’attitudine soggettiva al rispetto delle regole, paragonata alla corrente di un fiume, nel meccanismo della legislazione, paragonato ad una centrale elettrica, per la produzione di giuridicità, predicata da Karl Olivecrona (Law as fact), oppure ancora con la trasformazione del signore in servo e del servo in signore, predicata da Hegel nella Phänomenologie des Geistes. Ed é proprio la consapevolezza critica di questa aporeticità che apre al problema di fondo dell’ordinamento giuridico delle relazioni intersoggetive che è quello del rapporto tra regola e relazione, stante che la soluzione geometrica per la quale la regola sopraggiungerebbe sovrapponendosi alla relazione, per un processo eteronomico, risulta inevitabilmente destinata ad impantanarsi in una insanabile contraddizione. Ma questo chiede di calarsi filosoficamente nella profondità dell’umano.
Per questa immersione, a cui ogni giurista è chiamato al fine di corrispondere adeguatamente al suo dovere professionale, mi è parsa particolarmente conveniente quella che potremmo dire la via platonica alla formazione della comunità politica.
Nel dialogo su la Politéia o, come per lo più si cita latinamente, su la Respublica, Platone si pone il problema dell’origine della comunità umana e muove dalla constatazione dell’impossibilità del singolo di bastare a se stesso per il bisogno che lo contraddistingue di molte cose. “E così per un certo bisogno ci si aggrega l’un l’altro, per altri bisogni ad altra gente ancora, finché la molteplicità dei bisogni raccoglie in uno stesso luogo più uomini che si associano assieme per darsi reciproco aiuto” (Resp. 369 c).
Un agricoltore, un muratore, un tessitore, un calzolaio costituiscono il primo nucleo, “seguendo un procedimento logico” (Resp. 369 c-d) per il quale, stanti le diverse attitudini personali, è più conveniente che ognuno produca per se e per gli altri quello che meglio sa fare e quindi reciprocamente ci si scambi i prodotti.